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    Avamposto
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    Predefinito Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    Pensiero nazionale: Stanis Ruinas, il “fascista rosso”


    “Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie, espropriazione della proprietà terriera con la creazione di aziende agricole a condotta cooperativistica, nazionalizzazione delle banche e degli istituti di credito, limitazione del diritto di proprietà ai beni di uso e consumo, sottrazione della stampa al controllo del capitale privato, cessazione totale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”; estratto da un articolo di Spartaco Cilento del 1948, questa citazione può ben rappresentare la linea di pensiero perseguita dalla rivista quindicinale conosciuta con il nome di “Pensiero Nazionale”.

    Partorito dalla fervida mente di Stanis Ruinas, “Il Pensiero Nazionale” usciva per la prima volta il 15 maggio 1947 con una veste grafica che ricordava molto quella di “Critica Fascista”, rivista diretta da Giuseppe Bottai, con l’obiettivo di coagulare intorno a sé tutti gli “ex fascisti di sinistra”, i quali, come Ruinas, si identificavano nella concezione rivoluzionaria del fascismo, riconoscendo in Benito Mussolini un rivoluzionario autentico la cui politica fu per lungo tempo condizionata dagli interessi dei conservatori, dei clericali, dei moderati, di tutti coloro, insomma, che, dopo esser saliti sul carro dei vincitori nel 1922 per garantire l’intangibilità delle proprie ricchezze, non ebbero troppe remore nel liquidare il Capo del fascismo quando gli eventi bellici iniziarono a far vacillare le loro posizioni.

    Contro gli esponenti di simili interessi, Stanis Ruinas, al secolo Giovanni Antonio de Rosas, aveva già ingaggiato, nel corso del Ventennio, una dura e coraggiosa battaglia, come si può facilmente evincere dai suoi articoli apparsi su testate rinomate come “L’Impero” o “Il Popolo d’Italia”. Per le sue posizioni fortemente sociali, infatti, egli giunse più volte ai ferri corti col P.N.F finché, dopo essere stato sospeso più volte e sottoposto a regime di sorveglianza speciale, non vi si riconciliò, definitivamente, nel 1939, grazie al suo libro “Viaggio per le città di Mussolini”; opera che gli garantì, tra l’altro, il Premio Letterario Sabaudia.

    Combattente in Spagna ed in Etiopia, fu a Berlino, nel 1941, quale direttore del periodico “Lager” destinato ai lavoratori italiani in Germania. Dopo il 25 luglio, coerentemente alla sua connotazione di fascista di sinistra, mazziniano e repubblicano, aderì alla Repubblica Sociale Italiana per continuare la lotta contro le “demoplutocrazie” anglosassoni e realizzare la tanto auspicata rivoluzione sociale.

    Sostenitore della sinistra saloina, che con Giorgio Pini, Carlo Borsani, Concetto Pettinato ed Eugenio Montesi cercò di realizzare la socializzazione e di trovare un accordo con le forze antifasciste “sane e popolari” al fine di evitare lo scoppio della guerra civile, Ruinas fu, come si evince dalla sua opera “Pioggia sulla Repubblica”, (1946) strenuo oppositore del c.d. “Granducato di Toscana”, composto da Farinacci, Pavolini e Vanni Tedorani, oltre ad una selva di gerarchi, rei, secondo il giornalista sardo, di tenere sotto scacco il Duce ed essere capaci, nella loro inettitudine, di combattere solo gli “eretici del fascismo”.

    Al termine della tenzone bellica, dopo un periodo trascorso in prigionia a Venezia, Stanis Ruinas si recò a Roma dove, tra molte difficoltà, diede vita al “Pensiero Nazionale”.

    La redazione dell’organo dei “fascisti rossi”, infatti, venne ubicata in una stanza al quinto piano di uno stabile in via Salandra che già ospitava l’editore Corso, vecchio amico di Ruinas e editore del suo libro “Pioggia sulla Repubblica”.

    I collaboratori che nel corso degli anni parteciparono a questa nuova testata provenivano, tranne qualche eccezione, dai ranghi della R.S.I. I nomi sono tra i più rilevanti di quel periodo: si registrano, infatti, esponenti della gerarchia militare di Salò come il generale Emilio Canevari, vicino a Rodolfo Graziani, e il contrammiraglio nonché sottosegretario della Marina della Repubblica Sociale Ferruccio Ferrini; parteciparono, inoltre, il sindacalista fascista Silvio Galli, il giornalista Aniceto Del Massa, vicino a Berto Ricci e all’Universale, il regista di avanguardia Anton Giulio Bragaglia e gli scrittori Marcello Gallian e Mario Massa.

    A questi s’associò, inoltre, un folto gruppo di giovani provenienti dalla X° Mas come Alvise Gigante, Spartaco Cilento e, soprattutto, Lando Dell’Amico, il quale, oltre ad essere molto colto, si dimostrò anche un abile politico. Egli, infatti, svolse un rilevante ruolo di raccordo tra la massa dei giovani reduci provenienti da Salò, il Pensiero Nazionale ed il P.C.I.; nei suoi articoli, dal contenuto fortemente anticapitalista e di sinistra, era facile scorgere i segni della sua ideologia in cui ben si conciliavano le idee di Gramsci con l’attualismo gentiliano, così come il mito della nazione e la lotta di classe.

    Riprendendo la strada già tracciata nel 1936 dai comunisti, col famoso appello ai fratelli in camicia nera che invitava i fascisti di sinistra a riprendere il programma del 1919, avallato dai comunisti come “…un programma di pace, di libertà di difesa degli interessi dei lavoratori…” per dar vita ad una strenua battaglia congiunta in chiave anticapitalista, Ruinas e il suo giornale intrattennero rapporti col Partito Comunista Italiano che, a partire dal 1947, andranno a stringersi sempre più per poi spezzarsi definitivamente nel 1953.

    Il primo a tendere la mano ai giovani reduci della Repubblica Sociale Italiana fu Gian Carlo Pajetta, con due celebri editoriali apparsi sull’Unità a partire dal settembre del 1945 dai titoli eloquenti: “Riconquistare dei figli all’Italia” e “Compagni di lotta”; tali articoli, invitando gli “erresseisti” (così Ruinas chiamava i reduci non gradendo molto il termine “repubblichini”) vittime dell’ “antico inganno”, a confluire nel P.C.I. per proseguire la battaglia contro le forze reazionarie e clericali rappresentate dalla Democrazia Cristiana. Un atto che, senza ombra di dubbio, non era dettato esclusivamente da filantropia ma anche da specifici interessi politici.

    In seguito alla nascita del Movimento Sociale Italiano, Stanis Ruinas assunse il ruolo di interlocutore principale tra i dirigenti del Partito Comunista, che miravano a conquistare i giovani di Salò, e quest’ultimi; un rapporto molto stretto e per questo inviso alla base partigiana del Partito e a buona parte della sfera dirigenziale. Di questo rapporto non era felice nemmeno la stampa filo-democristiana; molti giornali, tra cui “Il Momento”, infatti, facendo leva sul mai celato filo-comunismo di Ruinas, affermarono che dietro i propositi di una presunta pacificazione si celava esclusivamente la volontà di Botteghe Oscure di convogliare gli ex fascisti verso il comunismo.

    Il 1948 fu per diversi aspetti un anno particolare per Ruinas ed il Pensiero Nazionale. Innanzitutto, nonostante le accuse che provenivano da destra su presunti finanziamenti del P.C.I. al quindicinale diretto dal giornalista sardo, la testata rischiò, nel solo periodo di gennaio-marzo, di fallire per ben cinque volte; è interessante notare, inoltre, le posizioni assunte da Ruinas e dai gruppi di Pensiero Nazionale in merito alle elezioni dello stesso anno. A chi temeva, infatti, che Ruinas e i suoi ventimila simpatizzanti si esprimessero nettamente a favore del Fronte democratico per la Pace, Ruinas spiegò, con l’editoriale “Oltre la palude o della nostra posizione nelle elezioni del 18 aprile”, i motivi del proprio astensionismo.

    I gruppi formatisi intorno a Pensiero Nazionale, oltre a rifiutare in maniera netta l’anticomunismo in funzione americana, rifiutavano allo stesso tempo qualsiasi forma di comunismo asservito alla Russia; la posizione sostenuta dal giornalista sardo, infatti, s’incentrava su una chiara volontà che vedeva l’Italia ed il resto d’Europa libere da ogni ingerenza straniera e ribadiva che ogni singolo paese, libero e sovrano nei propri confini naturali, aveva il diritto di scegliere liberamente quale forma di governo darsi.

    Pur dichiarandosi socialisti, insomma, Ruinas e i suoi adepti decisero di non votare per il Fronte democratico, mero cartello elettorale figlio dell’antitesi USA-URSS e dell’antifascismo, perché ciò avrebbe significato non solo negare se stessi ma avrebbe anche incrinato la fede nell’insurrezione nutrita dall’ “ex fascista di sinistra”, concedendo al parlamento, istituzione da sempre disprezzata, quei tratti di forza rivoluzionaria e dinamica che egli non era disposto a dargli.

    Oltre la bagarre elettorale, il 1948 è anche l’anno dell’attentato alla vita di Togliatti. Questo episodio rappresentò un punto importante per la vita di Pensiero Nazionale poiché segnò sia l’ultima fase di avvicinamento con il P.C.I, prima dell’allontanamento definitivo del 1953, che il punto di svolta che porterà, di lì ad un anno, i reduci della Decima Mas, che collaboravano al giornale, ad abbandonarlo per ingrossare le fila del Partito Comunista.

    Mentre il legame col P.C.I. andava consolidandosi, l’atteggiamento critico di Pensiero Nazionale nei confronti del Movimento Sociale non accennava a diminuire. Il motivo principale che spingeva chi tanto orgogliosamente continuava a definirsi “ex fascista di sinistra” e allo stesso tempo ferocemente “antineofascista” era rappresentato, senza dubbio, dalla scarsa considerazione che si nutriva nei confronti di tale progetto e della sua classe dirigente: il M.S.I., infatti, era considerato da Ruinas come un “serbatoio” creato a regola d’arte da chi teneva le redini del sistema al solo scopo di imbrigliare, con la connivenza degli ex gerarchi, la volontà rivoluzionaria di quelle forze giovanili genuinamente socialiste e rivoluzionarie espresse dall’esperienza della R.S.I.

    Secondo Ruinas, infatti, il fascismo aveva riscoperto nell’esperienza repubblicana le sue radici socialiste e sindacaliste rivoluzionarie liberandosi definitivamente degli orpelli del regime. Radici che ora i traditori del Manifesto di Verona volevano recidere costringendo all’immobilità, abbagliati dal perenne ricordo e dalla possibilità del ritorno ai “tempi belli”, tutti gli esponenti di quel periodo, parcheggiandoli in un movimento anticomunista, antisocialista filo- americano, in una parola “reazionario al servizio di forze reazionarie”.

    Questa critica raggiunse il suo apice nel 1952; gli attacchi, però, saranno sempre portati verso la dirigenza e mai contro la base, che trovava negli elementi popolari la fetta più rappresentativa.

    Il 12 aprile del 1950, Stanis Ruinas fu arrestato con l’accusa di istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti. Tale procedimento fu, molto probabilmente, imbastito dal governo. L’accusa, infatti, faceva particolare riferimento a due suoi articoli, dal titolo “Ai comunisti” ed “Insorgere contro il sanfedismo”, in cui si criticavano i comunisti per non essersi impossessati del potere quando avevano potuto e si attacca ferocemente la figura dell’allora Presidente del Consiglio Alcide de Gasperi. Dell’arresto di Ruinas si occuparono diversi giornali esteri, come l’Herald Tribune e Vers l’Avenir, oltre ai quotidiani nazionali di sinistra, che videro in ciò un atto del governo per mettere a tacere un avversario politico proveniente sì dall’esperienza fascista ma contrario ad una sua riesumazione. Prosciolto per insufficienza di prove, Ruinas riprese immediatamente la lotta contro il “Partito dei bagarini di Dio” e il suo capo.

    Ma il 1950 fu anche l’anno del tentativo del Fronte Laico Nazionale, una nuova creatura politica a cui Ruinas si dedicò, che, ispirata ai valori risorgimentali, doveva essere aperta a tutte le forze laiche del Paese per continuare la guerra contro il clericalismo dilagante; l’esperimento, però, spirò dopo poco tempo.

    Dal dicembre del 1951 e fino alla metà del 1952, Pensiero Nazionale e il P.C.I. diedero vita ad una nuova feroce campagna contro il M.S.I., scaturita dalla concessione della presidenza onoraria del partito al “principe nero” Junio Valerio Borghese, esponente di quella aristocrazia che aveva, a suo tempo, già minato le basi del Fascismo. Tale nomina, infatti, fu interpretata come il tentativo di eliminare definitivamente nel movimento neofascista le istanze di sinistra nazionale presenti soprattutto nel nord del Paese e rappresentate da esponenti del calibro di Giorgio Pini e Concetto Pettinato, al fine di traghettare il Movimento Sociale verso quella posizione di guardia bianca schierata a difesa degli interessi delle forze reazionarie del Paese.

    La requisitoria contro Borghese fu durissima e trovò nell’azione dell’ex sottosegretario della Marina R.S.I Ferruccio Ferrini e in un articolo di Giampaolo Tudini i suoi punti di forza. Si dimostrò come l’eroe della Decima fosse asservito agli interessi americani già all’epoca della R.S.I. e, grazie ad un documento redatto da Rodolfo Graziani, si rese noto che Borghese, in qualità di infiltrato del governo del Sud, fu incaricato di defenestrare quel “caporale di merda di Mussolini” e marciare sul Garda; azione che gli fu impedita da Alessandro Pavolini e dalle sue Brigate Nere. Invitato a difendersi da simili accuse, Borghese non si degnò mai di farlo alimentando il sospetto che si trattasse di verità piuttosto che di menzogne.

    Alle elezioni del 1953, in seguito al rifiuto del Partito Comunista di creare un’alleanza organica delle forze di sinistra per evitare il dilagare della D.C. grazie alla “legge truffa”, i gruppi di Pensiero Nazionale confluirono nelle liste di Alleanza Democratica Nazionale, formazione promossa dall’ex ministro liberale Epicarmo Corbino, la quale, insieme con Unità Popolare, risultò determinante nell’evitare che scattasse il meccanismo dell’iniqua legge maggioritaria. Tali elezioni rappresentarono la fine del rapporto privilegiato delle formazioni di Ruinas con il P.C.I. La volontà di non voler rinnegare le proprie origini a favore delle manovre di un partito che faceva ancora dell’antifascismo uno spettro da usare a scopi politici portò Ruinas a proseguire da solo sulla propria strada.

    Nel 1956, a Bologna, Pensiero Nazionale e i rappresentanti dei gruppi del Socialismo Nazionale diedero vita ad un incontro volto ad organizzare un Movimento di Sinistra Nazionale, che operasse sulla base di un programma fondato sulla rivalutazione storica della Repubblica Sociale e dei suoi postulati, sull’indipendenza assoluta dell’Italia e dell’Europa dai due blocchi e sulla creazione di una repubblica presidenziale fondata sullo stato nazionale del lavoro. Il 1956, inoltre, fu l’anno in cui Pensiero Nazionale assunse chiare posizioni filo-arabe, mostrando il proprio favore per l’Egitto di Nasser, l’Algeria e la Libia. Il 1977 sancì la fine delle pubblicazioni e di un’esperienza che può sembrare, all’apparenza, come una contraddizioni in termini. Provocatori?

    Opportunisti? La storia che s’atteneva ai canoni di classificazione precedenti la caduta del muro di Berlino non è mai stata troppo benevola nei loro riguardi. Ma oggi il clima è mutato. Il verificarsi della “fine delle ideologie”, infatti, ci permette di superare i limiti imposti da certe analisi e da interpretazioni del fenomeno legate più a contingenze politiche che alla realtà oggettiva dei fatti.

    Essa permette inoltre ai nuovi studiosi di analizzare, al di là di ogni vincolo, le affinità, molto più consistenti di quanto comunemente si possa credere, tra il fascismo ed il comunismo, senza esser vittima di quella gabbia ideologica che ha voluto le due ideologie fondamentali del secolo scorso come eternamente antitetiche.

    Luigi Carlo Schiavone

    Rinascita, Mercoledì 14 Novembre 2007

    http://www.rinascita.info/cc/RQ_Cult...aHMNDtOD.shtml

  2. #2
    Avamposto
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    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

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    Dai nostri inviati a Giarabub


    Giarabub, Africa settentrionale, autunno 1940. Cinque inviati di guerra raggiungono l’oasi, tra un assedio e l’altro, e raccontano le imprese del comandante Salvatore Castagna e dei suoi uomini. Alcuni di questi giornalisti hanno già preso parte alla guerra d’Etiopia, alla guerra di Spagna e continueranno poi a seguire la Seconda guerra mondiale su altri fronti. Le loro strade s’incrociano a Giarabub...



    Stanis Ruinas, il fascista rosso di Pier Giorgio Pinna

    Pubblicata: La Nuova Sardegna

    Data: 28/09/2006

    Chi si ricorda più di Giarabub? C’è qualcuno che sa qualcosa di quell’oasi nel deserto libico dove dall’autunno 1940 al marzo ’41 i soldati italiani furono decimati in un assedio durato mesi? Che cosa resta della leggenda celebrata in tanti libri e film dopo che inglesi e australiani resero l’onore delle armi ai superstiti? Chi rammenta la canzone dalla famosa strofa «Colonnello non voglio pane, dammi piombo per il mio moschetto»? Oggi, a sessantacinque anni dai fatti, si riparla di tutto. La casa editrice Mursia ha pubblicato un volume che affronta l’intera vicenda da una prospettiva nuova. S’intitola «Dai nostri inviati a Giarabub». L’ha scritto un giornalista del «Messaggero», Fabio Fattore, 38 anni, di Forlì, laurea in Storia e filosofia all’università di Bologna. L’autore ripercorre gli avvenimenti al di là del mito creato dalla propaganda fascista.
    E sin dalla foto di copertina permette una scoperta: al seguito delle truppe italiane in Cirenaica, fra cinque reporter che oggi si definirebbero embedded, tutti chiaramente di fede mussoliniana, c’era un inviato speciale sardo. Nell’immagine è ritratto in divisa sul dorso di un cammello. Si faceva chiamare Stanis Ruinas e così firmava gli articoli dal fronte africano. Il suo vero nome era Giovanni Antonio De Rosas. Nato e vissuto sino all’adolescenza a Usini, celebre per i «servizi» a cavallo tra i due conflitti mondiali, veniva chiamato il «fascista rosso»: tra mille contraddizioni, non era in piena sintonia col regime. La sua è una storia che merita di venire raccontata.
    La guerra. Dopo la Spagna, dove Ruinas-De Rosas è stato mandato come giornalista al seguito delle brigate nere in appoggio ai franchisti, una volta che Mussolini invade la Francia meridionale, le battaglie si estendono con rapidità all’Africa. Nel suo libro Fattore si sofferma su cinque reporter italiani e sulla resistenza di Giarabub di cui sono testimoni. Il presidio è comandato dal tenente colonnello Salvatore Castagna. Cade solo dopo che la prima offensiva britannica spazza via la Decima armata del generale Graziani e prima che Rommel eviti agli italiani il disastro completo.
    La propaganda. La dittatura fascista trasforma ufficiali e soldati in eroi senza macchia: articoli sui giornali, ricostruzioni alla radio, cartoline, manifesti. Nel 1942 arriva nelle sale un film del registra Goffredo Alessandrini. Fra gli attori, l’esordiente Alberto Sordi. La pellicola è preceduta dalla canzone «La sagra di Giarabub». L’autore è Mario Ruccione, lo stesso di «Faccetta nera». Il brano resterà impresso nella memoria di due generazioni.
    Il dopoguerra. A conflitto finito, dell’assedio in Libia non si parla più, così come di tante altre «epopee» alimentate dal totalitarismo. A farlo ci prova solo l’ex comandante Castagna con le sue memorie, pubblicate da Longanesi nel 1950. In realtà la resistenza a Giarabub sotto il profilo bellico ha rilievo marginale. Ma Fattore riesce bene a spiegare qual è stato invece il ruolo nell’amplificazione del suo mito svolto dai giornalisti italiani. E qui torna in campo Stanis Ruinas, inviato del quotidiano siciliano «L’Ora», assieme a Bruno D’Agostini del «Messaggero», Ferdinando Chiarelli del «Giornale d’Italia», Antonio Piccone Stella del «Giornale Radio», Pier Maria Bianchin della «Tribuna».
    La stampa. «Curiosamente, com’è successo per Giarabub, sulla stampa fascista è stato scritto poco e sul lavoro dei corrispondenti dal fronte ancora meno – fa notare Fattore – E’ un peccato. Mai un regime fu così legato ai media come quello: era giornalista Mussolini, lo erano i principali gerarchi. Nei tre conflitti combattuti dal fascismo (Etiopia 1935-’36, Spagna 1936-’39, Seconda guerra mondiale), la dittatura estesa il suo controllo con meccanismi via via più complessi, arrivando alla militarizzazione degli inviati». E’ stato calcolato che degli articoli scritti tra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre del ’43 meno della metà supera i controlli e viene pubblicato.
    De Rosas. Giornalista e scrittore, Stanis Ruinas è un personaggio insolito, contraddittorio, di sicuro un fascista non ortodosso. Come chiarisce l’autore del libro, il reporter partito dalla Sardegna «è capace di teorizzare, negli anni di Salò, l’alleanza tra partigiani e repubblichini contro i nemici comuni (capitalisti, opportunisti, parassiti, invasori stranieri) e più tardi di finanziare il giornale che fonderà nel ’48 e che dirigerà per 30 anni, “Pensiero nazionale”, con i soldi del Pci di Togliatti, dell’Eni di Mattei, della Dc di Moro, dell’Egitto di Nasser e della Libia di Gheddafi». Nato l’11 febbraio 1899, rimane poco a Usini, il paese che, in un romanzo autobiografico, diventerà Ursinia. Dopo qualche esperienza nel 1922 come collaboratore dell’«Unione Sarda», nel ’30 è già a Carrara, direttore del «Popolo Apuano». Poi dirige a Parma il «Corriere Emiliano» e nel ’33, a Roma, entra nella redazione del quotidiano «L’Impero». Fra quell’anno e il successivo diventa addetto stampa dell’Istituto Luce. «Incarico – informa Fattore – che conserverà fino alla Seconda guerra mondiale e che gli garantirà un’entrata fissa da arrotondare con le numerose collaborazioni ai giornali». Dal 1936 al ’37 scrive anche per il settimanale satirico «Il Riccio», sequestrato più volte dai fascisti e alla fine soppresso. Nel 1937-38, durante la guerra civile in Spagna, lavora a Valladolid per «Il Legionario», pubblicato per le truppe «volontarie» italiane.
    Il declino. Dopo l’8 settembre 1943 il giornalista sardo si trasferisce al Nord con la moglie. Aderisce alla Repubblica sociale. Lavora alla Banca nazionale del lavoro. Continua a collaborare per diversi quotidiani. Nel maggio del ’45 è arrestato dagli Alleati. Poi prosciolto in istruttoria. Finirà di nuovo in carcere, a Regina Coeli, nel ’50. Ci resterà quaranta giorni prima di essere assolto, sempre nella prima fase delle indagini, per mancanza di prove. L’accusa? «Istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti». In alcuni articoli aveva invitato il Pci a rifarsi con la forza per l’estromissione dal governo De Gasperi e, davvero incredibile, a prendere le armi assieme agli ex di Salò.
    Le incongruità. Del resto, c’è poco da stupirsi. Oggi a Usini pochi anziani ricordano De Rosas. Di quel giovane partito tanto tempo fa sopravvivono lontani parenti e labili frammenti di memoria collettiva. Da adulto, però, annota Fattore, Ruinas è spesso «un personaggio sopra le righe, che incontra sempre problemi con il potere». «Scelta una bandiera – scriverà De Rosas di sé – l’ho seguita nella buona e nella cattiva sorte. Ma da libero uomo e da cittadino libero. I fatti? Sospeso due volte dal partito, e una terza radiato, per indisciplina e scarsa fede, e sottoposto a vigilanza speciale. Mi si ridette la tessera con anzianità 1933, dopo due anni grassi di miseria secca. Tuttavia non ho mai disertato, e quando c’era da rischiare ho rischiato, pagando di persona».
    Lo pseudonimo. Negli anni Sessanta e Settanta in Italia pochi ricordano Giarabub e gli inviati di guerra. De Rosas tira avanti come può nella redazione di «Pensiero nazionale». La sua unica figlia si trasferisce in Toscana, dove, molto anziani, vive tuttora. Nel frattempo qualcuno continua a domandare al vecchio giornalista come mai abbia scelto di firmare proprio come Stanis Ruinas. «Mi piaceva il nome Stanislao e Ruinas, oltre che un paese, è un podere di famiglia andato in rovina», risponderà lui stesso.
    Lo storico Manlio Brigaglia, che lo ha conosciuto, dà un’altra spiegazione: «Giovanni Antonio era nipote di Ciccio De Rosas, bandito di fine Ottocento accusato di aver ucciso il grande poeta di Bonorva Paolicu Mossa e, una volta uscito di prigione, di aver fatto una strage per vendicarsi delle persone che sospettava avessero aiutato le forze dell’ordine nella sua cattura. Firmarsi con il cognome De Rosas, nei decenni successivi, avrebbe richiamato vicende fosche».
    La morte. Ruinas, comunque, scrive ancora in tarda età. Uno dei suoi articoli di quel periodo è intitolato «L’isola degli ultimi uomini». E’ del 1982, quando ha 83 anni. Cesserà di vivere a Roma nel 1984. Quattro anni prima, già malato di tumore, era tornato in Sardegna. Gli era stato tributato il Premio Usini, il riconoscimento più caro. Come dice Fattore, «almeno la sua Ursinia non lo aveva dimenticato».




    Recensioni - Dai nostri inviati a Giarabub
    Ultima modifica di Avamposto; 03-08-10 alle 03:08

  3. #3
    Avamposto
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    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    I Fascisti di Sinistra Nazionale: Stanis Ruinas

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    Stanis è vivo e lotta insieme a noi

    Filippo Ronchi

    Dissidenti

    Dopo la conquista del potere, il fascismo fu caratterizzato da un dissenso interno plateale, che si manifestò in una forte componente «movimentistica». Essa non riuscì ad affermarsi, ma si battè, tollerata (se non tacitamente appoggiata) dallo stesso Mussolini che in fondo non dimenticò mai le sue origini socialiste. La natura eterogenea dell'ideologia dei fasci, il valore strumentale e contingente attribuito ai «princìpi», la spregiudicata tattica politica erano stati, prima della marcia su Roma, i punti di forza del PNF. Successivamente si rivelarono elementi di debolezza. La «rivoluzione fascista» non ci fu. Allo scontro frontale con la liberaldemocrazia si sostituirono il compromesso governativo e il processo di inserimento nelle tradizionali strutture statali. Ma molti militanti che provenivano dalle esperienze del sindacalismo, dell'estrema sinistra, dell'arditismo, del legionarismo fiumano durarono fatica a rendersi conto ed a convincersi di quel che stava accadendo; alcuni anzi non accettarono mai l'involuzione. Fra questi il sardo Stanis Ruinas, al secolo Antonio de Rosas (1899-1984). Repubblicano, antiborghese e anticapitalista intransigente, egli rimase fedele alle sue idee durante il Ventennio, nel periodo della RSI ed anche nel secondo dopoguerra.



    Nel Ventennio

    Formatosi alla scuola del mazzinianesimo e del socialismo di Pisacane, Ruinas considerò Mussolini come colui che aveva inteso portare a compimento quella «rivoluzione nazionale» e popolare avviata dai democratici del Risorgimento, ma subito riassorbita dalla borghesia liberale e moderata post-unitaria. Così anche nel corso del Ventennio la borghesia che continua a condizionare pesantemente l'azione del fascismo originario, i gerarchi corrotti ed inetti, la monarchia e la Chiesa cattolica costituiranno -per Ruinas- nemici da battere, in nome della realizzazione del programma di San Sepolcro, espressione del «fascismo autentico» fautore di una rivoluzione antiborghese. Gli attacchi che Ruinas rivolge dai numerosi quotidiani di cui è collaboratore ("L'Impero", "Il Popolo d'Italia", "Il Resto del Carlino") o direttore ("Popolo Apuano", "Corriere Emiliano") all'establishment attirano i sospetti e le ire degli apparati del regime. Egli viene sospeso, reintegrato, radiato «per indisciplina e scarsa fede» dal PNF, sottoposto a vigilanza speciale, fino alla riconciliazione avvenuta alla vigilia della Seconda guerra mondiale grazie al libro "Viaggio per le città di Mussolini" (1939). E proprio aderendo alla guerra mussoliniana, Ruinas ritroverà le ragioni dello scontro supremo con le forze «plutocratiche» e «trustistiche» inglesi e statunitensi, nelle quali per lui si concretizza il sistema capitalistico, «che è il nemico numero uno del proletariato e della rivoluzione». La guerra fascista è interpretata, dunque, come strumento per sconfiggere prima le «demoplutocrazie occidentali» e poi, forti di quella vittoria, rovesciare il predominio del capitalismo interno e di quello internazionale.



    Nella RSI

    All'indomani dell'8 settembre, Stanis Ruinas si trasferisce a Venezia, per ricoprire l'incarico di capo ufficio stampa della segreteria del suo amico Vìncenzo Lai, nominato dal governo di Salò commissario della BNL. Nella RSI, Ruinas vede finalmente incarnarsi il fascismo delle origini e la possibilità di realizzare quella rivoluzione per la quale si era sempre battuto. La Socializzazione e la ricerca di un accordo con gli antifascisti per impedire la guerra civile diventano i cardini attorno ai quali ruota la sua azione. Ma anche a Salò prevarranno i vecchi gerarchi, appoggiati dai tedeschi. Uno stuolo di parenti, di profittatori irresponsabili e feroci lascerà il segno sulla breve avventura della RSI. Eppure Ruinas respingerà sempre l'accusa secondo cui il fascismo repubblicano sarebbe stato l'espressione estrema della reazione capitalista anzi ribalterà l'accusa sui comunisti italiani, colpevoli di collusione con la borghesia per aver scelto di partecipare al governo Bonomi e di aver accettato l'alleanza con l'Inghilterra di Churchill, «conservatore nel midollo, duca e ricco a starelli» e gli USA di Roosevelt, «portavoce dei miliardari americani».



    Pensiero Nazionale

    Concluso un breve periodo di detenzione a Venezia nel '45, Ruinas fu assolto in istruttoria da una Corte d'Assise Straordinaria. La rivista "Pensiero Nazionale" venne da lui fondata a Roma nel '47 ed uscì fino al '77, sostenuta dai finanziamenti dei commerciante Oscar T'accetta, dopo l'aiuto iniziale fornito da Vincenzo Lai, rimasto successivamente al crollo della RSI alto funzionario della BNL. Altri finanziamenti di modesta entità giunsero nei primi anni Cinquanta anche dal PCI e successivamente perfino da Aldo Moro, nel periodo in cui il leader democristiano -con la strategia del «compromesso storico»- stava sviluppando il massimo di iniziativa politica autonoma dalle direttive statunitensi all'epoca possibile. Sostegni economici affluirono poi da alcuni paesi arabi: probabilmente dall'Egitto di Nasser e, negli anni Settanta, dalla Libia. "Pensiero Nazionale" non superò mai le 15.000 copie, ma riuscì ad essere presente in tutti i capoluoghi di provincia. Tra la fine del '51 e l'inizio del '52, i Gruppi di "Pensiero Nazionale", che facevano capo alla rivista, si costituirono in un movimento politico, il quale riuscì a raccogliere circa 20.000 iscritti. La formazione, benché di dimensioni modeste, svolse un ruolo non trascurabile nel '53, quando contribuì -in occasione delle elezioni politiche- ad impedire che scattasse il meccanismo della legge maggioritaria (la cosiddetta legge-truffa) confluendo nelle liste di Alleanza Democratica Nazionale e rivelandosi determinante per la sua affermazione.



    Fascisti e comunisti

    Venuta meno, nel clima della guerra fredda, l'unità dei partiti antifascisti con l'esclusione della sinistra dal governo, il PCI si ritrovò nettamente contrapposto -sul piano interno- alla DC e agli altri partiti moderati, così come -su quello internazionale- decisamente schierato con l'URSS stalinista contro gli USA. La situazione risultava propizia per attuare quell'avvicinamento di formazioni antagoniste al sistema capitalistico che Stanis Ruinas da tempo auspicava. Lo stalinismo gli si presentava appiattito sul materialismo e sull'internazionalismo marxisti, cioè su strumenti non in grado di realizzare la sintesi di socialismo e nazione da lui preconizzata. Tuttavia tra capitalismo e comunismo, fra USA-Inghilterra e URSS, i Gruppi di "Pensiero Nazionale" non avevano dubbi: il loro sovversivismo populistico e totalitario li portava a simpatizzare per Stalin. Contemporaneamente, una strategia di recupero nei loro confronti venne elaborata dal PCI. L'apertura verso coloro che erano stati i nemici di ieri, nell'ambito del quale si collocò nel periodo '47-'53 il rapporto tra il PCI e "Pensiero Nazionale", fu preparata, seppure dietro le quinte, dallo stesso Togliatti. L'operazione venne, poi, condotta da personalità di primo piano del partito, come Giancarlo Pajetta, Luigi Longo, Franco Rodano, Ambrogio Donini, Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli. Gli incontri con Ruinas e con altri collaboratori della sua rivista furono numerosi, ma non diedero risultati significativi, anche perché il PCI ostacolò la nascita di un partito indipendente della Sinistra Nazionale, seppure alleato e contiguo. Forse pesò su quest'evoluzione il graduale ammorbidimento dell'opposizione comunista nell'era della «coesistenza pacifica» seguita all'ascesa di Krusciov. I Gruppi di "Pensiero Nazionale" si orientarono, allora, verso la costituzione di una forza anti-sistema autonoma tanto dal PCI quanto dal MSI. Nel '56 venne effettuato il tentativo più consistente di costituire un Movimento di Sinistra Nazionale, area di aggregazione per uno schieramento antagonista. L'operazione si rivelò effimera, tuttavia nella seconda metà degli anni Cinquanta Ruinas riuscì a consolidare un rapporto con il presidente dell'ENI Enrico Mattei, il quale divenne un importante finanziatore di "Pensiero Nazionale", che a sua volta sostenne le scelte in materia di politica energetica compiute dall'intraprendente imprenditore pubblico, avvicinandosi alle posizioni sia dei paesi arabi produttori di petrolio, interlocutori direttì di Mattei, sia, più in generale, ai paesi non allineati e del Terzo Mondo, di cui denunciò lo sfruttamento capitalistico.



    Ciò che resta di Stanis

    La vicenda dei «fascisti rossi» che attorno a "Pensiero Nazionale" si raccolsero, rappresenta un segmento pressoché ignoto della storia italiana del secondo dopoguerra, non tanto, a nostro avviso, per le modeste dimensioni numeriche del fenomeno, quanto perché la semplice presenza di un simile soggetto politico fa saltare letture troppo schematiche di determinati avvenimenti. Su temi quali il fascismo e l'antifascismo, la resistenza, la «destra» e la «sinistra», le analisi del periodico romano si situano, infatti, al di fuori di quei parametri interpretativi che proprio negli anni dell'immediato dopoguerra furono elaborati per segnare i caratteri dell'ideologia e della mitologia su cui a tutt'oggi si fonda la legittimazione della liberaldemocrazia italiana. Sul piano ideologico e politico l'elaborazione di Stanis Ruinas e dei suoi collaboratori, che provenivano in massima parte dalla RSI, li collocò fuori dall'orbita del parlamentarismo, in una dimensione assolutamente singolare. Considerato ormai chiuso e non riproponibile il passato del ventennio e di Salò, respinte con forza le posizioni nostalgiche del Movimento Sociale, erede del «fascismo borghese» con cui non intendevano essere confusi, Ruinas e i suoi diedero vita ad una linea fatta di ideali repubblicani e socialisti, di populismo nazionalistico ed anticapitalistico, di inequivocabile ostilità verso la NATO, gli USA, le «democrazie plutocratiche» occidentali che avevano colonizzato l'Italia dopo il '45. Di qui i durissimi attacchi nei confronti di De Gasperi, Scelba, della DC in genere e del Vaticano, nonché del MSI, che ormai si configurava come un partito pienamente conservatore. Al tempo stesso, i «fascisti rossi» lodavano i partigiani rivoluzionari, mentre condannavano la Resistenza borghese quale ennesima espressione trasformistica di quei settori sociali che, dopo essersi assestati con il regime fascista traendone cospicui vantaggi, lo avevano abbandonato nel momento in cui questo aveva lanciato la sua sfida mondiale al sistema capitalista. Alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo, "Pensiero Nazionale" propose, dunque, di sostituire quella tra una sinistra composta dalle forze antiborghesi, anticapitalistiche, antiamericane e una destra «plutocratica», clericale, filo-atlantica. Venne delineata così, per la prima volta un'unità di intenti tra militanti marxisti e «sovversivi» che si richiamavano all'esperienza del primo e dell'ultimo fascismo (San Sepolcro e Manifesto di Verona). Un'impostazione di questo genere forniva, però, una lettura tanto del movimento dei fasci quanto della Repubblica di Salò assai diversa da quella divulgata dal PCI e dalla borghesia antifascista, che interpretavano l'uno e l'altra come il «braccio armato» del grande capitale industriale e agrario. Contro queste forze, i «fascisti rossi» ripetevano di essersi sempre scontrati, nel ventennio e nella RSI. Riconoscevano di esserne usciti nettamente sconfitti, ma aggiungevano che non era destino fin dal 1919 che gerarchi e borghesia prevalessero. E concludevano affermando di essere stati battuti da quelle stesse forze capitalistiche che, in sostanza, avevano finito con l'esercitare la loro egemonia anche nell'Italia postbellica, neutralizzando la carica rivoluzionaria delle formazioni partigiane legate al PCI, dopo aver soffocato gli analoghi sentimenti e propositi del «fascismo autentico».



    Una lezione da ricordare

    Le note fin qui sviluppate non hanno la pretesa di costituire un'indagine storica (per la quale si rimanda al particolareggiato e documentato saggio di Paolo Buchignani, "I «fascisti rossi» da Mussolini a Togliatti", apparso sul numero di gennaio-febbraio '98 della rivista "Nuova Storia Contemporanea"). Attraverso esse si voleva soltanto riepilogare rapidamente una vicenda che resta a tutt'oggi significativa, per giungere ad alcune brevi conclusioni collegate all'attualità. La fase storica è dominata da un Pensiero Unico che si trasmette democraticamente attraverso l'esaltazione del «mercato». Nell'ambito di questo contesto mondiale, anche in Italia la politica sembra essere diventata di plastica, con l'alternativa rappresentata dal confronto tra la «Cosa» di sinistra nata a Firenze auspice D' Alema e la «Cosa» di destra partorita a Verona da Fini. Entrambi gli schieramenti amano definirsi nazionali (ma, per carità, giammai nazionalisti), liberali e liberisti civilmente temperati, sociali sicuramente e tuttavia lontani da ogni statalismo assistenzialista, eccetera. Le loro frange estreme (Rifondazione Comunista o gli ultrà liberisti di Forza Italia all'Antonio Martino) non contano, contribuiscono soltanto a rendere più variegato il panorama interno al sistema capitalista. Se questa è la realtà, le forze antagoniste in quanto -prima di ogni altra considerazione- anticapitaliste non possono rimanere ancora inchiavardate alle due contrapposizioni frontali che hanno segnato un secolo ormai finito, comunismo-anticomunismo e fascismo-antifascismo. Al contrario, lasciarsele alle spalle è condizione necessaria, anche se di per sé non sufficiente, per restituire slancio e prospettiva all'opposizione non riconciliata e non disposta ad accettare le «oggettive ragioni» del modo di produzione capitalistico nell'epoca della globalizzazione. È in questo senso che la lezione di "Pensiero Nazionale" conferma tutta la sua validità. Appare evidente, infine come "Aurora" ed il Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale possano considerarsi eredi di quell'esperienza, che con il passare del tempo non ha perso, ma al contrario ha sempre più acquistato interesse, rivelandosi per certi aspetti quasi profetica.



    Oltre la barriera

    Si tratta ancora oggi, insomma, di elaborare un'idea operativa nuova di opposizione in rapporto al nemico principale, la liberaldemocrazia capitalista, ricordando come anche i fascismi storici, nati all'interno delle società democratico-liberali, si contrapposero in primo luogo ad esse e costituirono, almeno inizialmente, un fenomeno radicalmente originale, animato da un profondo progetto innovatore. In questo senso, non possono essere ridotti ad una semplice risposta al bolscevismo, essendosi sviluppati da radici culturali proprie, con un processo anteriore e parallelo a quello della rivoluzione comunista, che svolse semmai il ruolo di catalizzatore della rivoluzione fascista e non quello di sua causa. Alla luce di tutto ciò, i riti della «religione dell'antifascismo» celebrati da forze di presunta opposizione antagonista quali Rifondazione Comunista, si mostrano per quello che sono: un armamentario che legittima «lo stato di cose presente». Il continuare a descrivere il fascismo come una sorta di metafisica espressone del Male (sopruso, dittatura, ignoranza, inefficienza); negare l'esistenza di filoni che mantennero all'interno di esso integra tutta la loro carica rivoluzionaria; ignorare l'attenzione posta dal PCI degli anni Cinquanta verso i reduci della RSI, insistere sempre e comunque in un atteggiamento di chiusura escludendo perfino l'ipotesi della possibilità di un superamento delle barriere artificialmente tenute in piedi che dividono le forze anti-sistema significa svolgere un ruolo di oggettivo supporto al modello di sviluppo liberista. Quel che oggi si può opporre a tale modello in fatto di alternativa economica, concezione statutaria, giustizia sociale ha i propri fondamenti storici, infatti, nel movimento rivoluzionario che soffiò forte nel bolscevismo e nel fascismo delle origini, portatori di istanze capaci di fronteggiare il modello demo-liberale capitalista. La pregiudiziale antifascista, alle soglie del XXI secolo, trasforma i sedicenti comunisti occidentali in oggettivi fiancheggiatori della globalizzazione. In Italia, la triste involuzione di Rifondazione Comunista sta a dimostrarlo.

    Filippo Ronchi



    I Fascisti di Sinistra Nazionale: Stanis Ruinas - Windows Live

  4. #4
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    La nostra bandiera, di Stanis Ruinas, un fascista rosso

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    "Non riesco a capire come mai perchè uomini liberi e di provato senso patrio e d'indubbia probità personale si siano trasferiti al nord e si ostinino a seguire la sorte già segnata di un principio e d'una guerra perduta".
    Queste parole della tua ultima lettera mi hanno fatto l'effetto di un pugno in un occhio. Esse sono la prova che tu sei un rivoluzionario come io sono etiope, e che ha rinnegato il caro amato don Chisciotte, cavaliere d'ogni audacia e del viver fantastico, in favore del suo scudiero sancio Pancia, simbolo e guida dei cavalieri dalla pancia piena. O che i principi e gli amici si seguono solo nella buona ventura, quando c'è da gozzovigliare e da arraffare? O che una bandiera la si sventola solo in pieno solo tra folle tripudianti e non invece tra la tormenta e molti nemici intorno? La tua è una morale da pastasciuttari, non da socialisti che credono nel socialismo e lottano e soffrono per il suo avvento.
    Da che mondo è mondo i veri rivoluzionari preparano l'ambiente, non lo subiscono: combattono contro maggioranze ostili, ben lungi dal preoccuparsi delle ciarle della minutaglia. La rivoluzione non è una manna che piove dal cielo, ma un sovvertimento di sistemi accettati e difesi da caste numerose e da gruppi di interessi particolari. Comodo e facile è gridare viva la rivoluzione. Difficile è farla: perchè farla occorre cozzare contro i muri di cemento armato delle classi abbienti, contro i privilegi economici di casta.
    Coloro che si sono trasferiti al nord e s'ostinano - come tu dici - a seguire i principi nei quali hanno creduto e credono, cosa sono se non rivoluzionari che vanno contro-corrente, sfidando il buon senso dei buzzuri e mettendo a repentaglio la vita? O forse tu preferisci que Fucci o quei Bonturi che al primo soffio di burrasca hanno piantato baracca e burattini e sono passati al lato opposto della barricata con un far da sanluigigonzaga? Un uomo di carattere è sempre degno di rispetto, qualunque sia la sua opinione politica. Nell'uomo il carattere è tutto e conta di più dell'ingegno e della ricchezza. Il fierissimo Vittorio Alfieri, che non si piegò mai nè dinanzi a principi nè dinanzi a re, resta come un esempio per tutti. Vincenzo Monti, grandissimo poeta, che lingueggiò tra sottane e corone, resta, pur lui, come un esempio: ma di girella.
    Se tu osservi bene, ti accorgi subito che gli uomini rimasti saldi alla parete delle loro convizioni sono prevalentemente quelli che dal fascismo hanno avuto più amarezze che dolcezze. I profittatori, i ladri e i ladroni si sono dileguati alla prima libecciata.
    Il venticinque luglio e l'otto settembre, in molti galantuomini , niente affatto fascisti, ma di animo generoso e rivoluzionario, e di profondo senso patrio, si scatenò una vera e propria rivolta: rivolta alla viltà dilagante; rivolta ai gerarconi che, dopo aver ostentato per un ventennio i loro galloni fiammanti, si buttarono tra le braccia dell'antifascismo; rivolta alla borghesia, alla monarchia, all'aristocrazia e alla plutocrazia; rivolta a quei gruppi numerosissimi che dopo aver esaltato per tanto tempo l'alleanza italo-germanica e la Germania più della loro patria, diventarono in un battibaleno mangiatedeschi e anglofili frenetici; rivolta ai generali che non essendo all'altezza dei loro compiti e doveri , disfecero, in un giorno, l'esercito italiano ricco di oltre 4 milioni di effettivi. Rivolta a tutto e a tutti.
    Così sono passati nelle file della Repubblica Sociale vecchi repubblicani e socialisti e anche comunisti puri, cioè non asserviti alla plutocrazia.
    Chi non capisce queste rivolte dello spirito di fronte alla tragedia del nostro paese, non ha animo nè di italiano nè di rivoluzionario, e si mette allo stesso livello di colui che segue la corrente senza sapere perchè.
    Quanto ai principi segnati dalla sorte e alla guerra perduta ti si potrebbe obiettare che i principi hanno radici nella storia, come il fascismo non muoiono per cambiar di venti; che la guerra continua con furia sempre crescente e che la vittoria arriderà al più saldo di muscoli e di cuore, e al più modernamente armato. Ma qui non si tratta di vittoria e di principi, bensì di dignità umana, di onore e di cavalleria. Noi non apparteniamo alla malagente che segue le idee in voga nè alla plebaglia, scefala che corre plaudente dietro il carro trionfatore. Spregiamo i potenti e detestiamo i vili. Aborriamo i farisei e i ribaldi. Soltanto la bontà c'innamora e la fede nobilmente professata ci entusiasma. Per colpa o per merito di certo sangue donchisciottesco che ci ribolle nelle vene, abbiamo parteggiato sempre per i deboli contro i forti, per le idee ardite contro le idee della maggioranza. Siamo nati rivoluzionari e rivoluzionari moriremo. Ma appunto per questo ci ribelliamo all'idea che dei rivoluzionari collaborino direttamente o indirettamente alla conservazione della corona di Giorgio VI, L'inghilterra è il gendarme d'Europa, che da tre secoli intoppa le rivoluzioni europee a suo vantaggio rimettendo in piedi regni crollati e tenendo le file della reazione. Noi siamo convinti che l'Europa non avrà pace nè giustizia sociale finchè l'impero inglese non sarà distrutto. Il più bel giorno della nostra vita di rivoluzionari sarà quello in cui vedremo la corona di sua maestà britannica ridotta in mille pezzi.
    Per il resto sono d'accordo con te.
    La libertà come l'amor di Patria non è un privilegio nè un monopolio di una setta o di un partito o d'un gruppo di partiti, come pretendono i democratici senza democrazia che urlano a Roma.
    La libertà è di tutti o è una finzione. In ogni caso la libertà non esiste e non ha valore senza libertà sociale o senza indipendenza economica.
    Noi uomini di tutte le libertà, eccettuata quella di insultare e barattare la Patria, siamo dichiaratamente e decisamente italiani. Sulla nostra bandiera sono stampigliate tre sole parole: Italia, Repubblica, Socializzazione. Respingiamo tutte le filie: tutte, tranne l'italianofilia, spinta ai vertici della passione.
    Crediamo nel popolo e ci battiamoper la rivoluzione sociale:
    per la rivoluzione sul serio e non da burla come quella di cui cianciano borghesi e capitalisti, frati e clericaletti.
    Respingiamo altresì le manie autonomiste e federaliste che dominano alcuni cervelli bacati dell'Italia controllata dagli inglesi e dagli americani. Viva la repubblica!, certo ma la repubblica di cui parlava Mazzini, una repubblica unitaria, orgogliosa del suo passato, conscia della sua missione nel mondo. Niente fogge e mode e pose straniere. Ma fogge e pose e mode italiane. Tre quarti d'Italia sono ammattiti e fuorviati. Si ha presente la defezione di questo o di quel santone: si dimentica l'esempio di un grande Papa. Giulio II, l'empio di un Ferrucci, l'esempio di un Mazzini. Occorre rinsavire e darci, noi rivoluzionari, la mano nella speranza e con la certezza di rimettere in sesto e in moto questa povera Patria nostra dilaniata e schernita. Il cammino da percorrere è lungo e pieno di spine, ma se la smetteremo di sgolarci gridando viva l'Inghilterra e viva l'America e viva la Russia, ma se ci ficcheremo bene in testa che siamo solo italiani e che ogni possibile salvezza dipende da noi, e non da altri, arriveremo alla mèta, ricostruiremo il paese pezzo per pezzo e col tempo, riprenderemo il nostro posto, il posto che ci compete in seno alle Nazioni vive in una Europa rinnovata.
    Pecchiamo d'eccessive speranze? Vi è un solo grave fallo al mondo: il fallo di chi spera.




    Stanis Ruinas



    http://www.fiammapavia.it/files/ruinas.html
    Ultima modifica di Avamposto; 03-08-10 alle 03:15

  5. #5
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    Paolo Buchignani -

    "Fascisti Rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943 -1945"

    Mondadori "Le scie", Milano 1998, pp. 316, lire 32.000



    (…) lucidissimo profeta di ciò che rappresenterà il MSI nella storia politica dell'Italia repubblicana, ovvero la ruota di scorta della DC e il serbatoio segreto del Ministero dell'Interno, delle Forze Armate e della CIA (…)



    Paolo Buchignani (cl. 1953), toscano, è uno storico il cui campo d'azione principale è la cultura italiana del ‘900. I Lettori forse già conosceranno le sue altre due opere importanti, ovvero “Un fascismo impossibile. L'eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio” e “Marcello Gallian. La battaglia anti*borghese di un fascista anarchico”. Sono due opere a loro modo «coraggiose» in un panorama editoriale e «culturale» come quello italiano, dove sino a pochissimi anni or sono ‑ed in parte anche oggi‑ qualsiasi indagine storica relativa al ventennio fascista ed alla guerra civile che non fosse puramente e ferocemente denigratoria e calunniosa veniva osteggiata o, nel caso migliore, ignorata.

    Ricci e Gallian furono due fascisti anomali per l'immaginario collettivo della republichetta democratica italiota ma non certo per gli autentici nazionalrivoluzionari, che anzi vedono in loro ‑fra tanti altri, del resto‑ il volto più somigliante a quello che avrebbe dovuto avere il Fascismo autentico. E se con Ricci e Gallian il Buchignani esplora il terreno a lui più congeniale, ovvero quello delle avanguardie artistiche e degli ambienti intellettuali che negli anni tra le due guerre tentarono di fare del Fascismo uno strumento di rottura dell'asfittica società liberal-borghese che ancora prosperava, con questo suo terzo libro, anch'esso «coraggioso», illumina invece una «storia sconosciuta» (come recita il sottotitolo) dell'immediato dopoguerra, in una Italia ancora insanguinata e devastata; e questa volta si tratta di una vicenda squisitamente politica e tenuta pressochè segreta per cinquanta anni.

    Nel maggio 1947 fa la sua apparizione, a Roma, il primo numero della rivista “Il pensiero nazionale" diretta da tale Stanis Ruinas, pseudonimo di Giovanni De Rosas, nato nel 1899 ad Usini (SS) e morto nel 1984 a Roma, rivista che sopravviverà, sempre diretta da De Rosas-Ruinas, sino al luglio 1977. Di famiglia proletaria, Ruinas si trasferisce in gioventù a Roma ove aderisce al Fascismo ed inizia una spumeggiante attività di giornalista e pubblicista, scrivendo su vari giornali e riviste. Intransigentemente repubblicano, antiborghese ed anticapitalista, anticlericale (ma non comunque anticristiano) ed imbevuto, come era allora invalso, della «mistica» risorgimentale, laica, mazziniana e garibaldina, fu anche direttore di testate locali in Toscana ed Emilia senza perdere l'occasione di scontrarsi con le gerarchie del PNF (da cui fu espulso e poi reintegrato un paio di volte); fu anche corrispondente di guerra in Africa Orientale e in Spagna, poi in Nord Africa nel 1940 e successivamente a Berlino con incarichi di assistenza alla comunità italiana in Germania. Dopo l'onta dell'otto settembre aderì alla RSI e ricoprì anche, a Venezia, alti incarichi nella pubblica amministrazione. Con la fine della guerra, e dopo un breve periodo di detenzione, ritorna a Roma, in una Italia occupata dalle truppe americane e dove la reazione borghese si appresta a ridisegnare la mappa degli equilibri politici all'ombra degli USA. Ed è in questo preciso frangente storico che vede la luce "Il pensiero nazionale", nel quale si raggruppano, nelle povere stanze di una redazione di fortuna, tutta una teoria di personaggi reduci dalla RSI nella quale (ma ancor prima del ventennio) avevano incarnato l'istanza rivoluzionaria ed anticapitalistica del primo fascismo, combattenti che, fedeli innanzitutto alla più pura essenza politico‑sociale del pensiero mussoliniano, avevano dovuto combattere non soltanto contro i nemici esterni ma forse soprattutto contro quelli interni annidati nei centri di potere non solo del fascismo «savoiardo» ma anche di quello «erresseista», ovvero di quelle forze che trasformarono sin da subito il fascismo in una maschera di se stesso e che, nel tentativo di palingenesi della Repubblica Sociale lavorarono ancora «contro» (o almeno questa è la convinzione di Ruinas) isolando il Duce ormai impotente e ostaggio del «Granducato di Toscana» come Ruinas chiama ironicamente il gruppo dirigente della RSI, formato in maggioranza proprio da toscani.

    Saranno proprio questi personaggi che daranno vita, con "Il pensiero nazionale", a quel movimento che sia i simpatizzanti che gli avversari (ma prima di tutto loro stessi) definiranno con l'espressione «fascisti rossi» o, più prosaicamente, «fascisti di sinistra»; un grande movimento politico, culturale ed ideale che affonda le radici nei Fasci di Piazza S. Sepolcro, a Milano, nel 1919.

    Nel 1947, dunque, i sedicenti epigoni di quegli anni ormai lontani si ritrovano in una Italia che riparte dalle macerie sotto il tallone americano ma dove, anche, si sta velocemente riorganizzando quello che sarà il più potente partito comunista dell'Europa non sovietizzata, ovvero il PCI. Ed ecco che proprio in questi frangenti si delinea la «missione» di PN di concerto proprio con il PCI, o comunque con la segreteria del partito che appoggia pressochè totalmente la linea strategica tracciata da Togliatti stesso: recuperare, se non al comunismo, perlomeno al voto comunista ed allo schieramento che allora veniva definito dal PCI «democratico, popolare e progressista» centinaia di migliaia di ex-fascisti ed «erresseisti» che durante il Regime prima e (soprattutto) la Repubblica dopo si schierarono apertamente con la forte «corrente» socialista, anticapitalista ed antiplutocratica, più disposta alla guerra contro gli angloamericani che non contro l'URSS.

    È Togliatti stesso, ancora ministro della Giustizia, che si fa promotore di questo ambizioso disegno, spalleggiato da alcuni elementi della dirigenza del partito come ad esempio G. Pajetta, progetto peraltro malvisto da altri dirigenti (ad esempio P. Secchia, capo della fazione «insurrezionalista») nonchè dalla neonata ANPI. Togliatti però tira diritto, ma per poter abbattere il muro di diffidenza che logicamente separa il PCI dagli ex-fascisti ha bisogno in un intermediario che possa essere immediatamente identificato ‑da questi ultimi‑ come sodale ed «amico»: Ruinas, con altri giovani combattenti della RSI, provenienti in gran parte dalla Xª MAS, e la rivista PN sono esattamente ciò che occorre.

    Inizia così l'avventura di PN, che finirà per diventare una vera e propria cinghia di trasmissione del PCI, ricevendone anche dei finanziamenti, del resto mai dissimulati dal Ruinas anche se sempre piuttosto contenuti. PN non esiterà un attimo a fare da cassa di risonanza alla politica, sia interna che estera, del PCI mantenendo però sempre e comunque quella larga autonomia che doveva servire a rivendicare orgogliosamente il trascorso fascista della redazione, ma di un fascismo, come detto, movimentista e «sovversivista».

    La prima campagna di PN è mirata al tentativo di riavvicinamento fra quelli che verranno definiti i «partigiani combattenti a viso aperto» e gli ex-fascisti repubblicani; l'ambiente partigiano era infatti, comprensibilmente, piuttosto refrattario se non apertamente ostile alla politica togliattiana di «pacificazione nazionale». Per contro, specularmente, anche da parte fascista le resistenze erano fortissime; è in questo frangente che giocheranno un ruolo importantissimo gli ex-appartenenti alla Xª MAS, un reparto militare che pur combattendo ‑dopo l'8 settembre‑ per la Repubblica Sociale al fianco della Germania, manterrà sempre un alto grado di autonomia dalle direttive politiche della RSI stessa arrivando al punto ‑in nome di una visione romantica e sentimentale della guerra in generale e di «quella» guerra in particolare‑ di minacciare dei veri e propri ammutinamenti nel tentativo di evitare il combattimento contro «altri italiani» ovvero i partigiani. I reduci della «Decima» diventeranno dunque la punta di diamante di questa avanzata verso l'ex-avversario, che comunque non sortirà (c'era da immaginarlo ...) risultati di rilievo.

    Altra importantissima campagna di PN fu quella scatenata contro il neonato MSI con il corollario di giornali e di riviste fiancheggiatrici. La polemica è violentissima, e riflette il timore di Ruinas (e del PCI) che questo partito ‑definito senza mezzi termini come al servizio della DC, degli americani, del Vaticano e sopratutto dei capitalisti e dei borghesi che già avevano voltato le spalle al Fascismo quando era giunta l'ora dell'azione ed ora tentavano di utilizzarlo in funzione anticomunista‑ potesse attrarre larghe fasce di gioventù sinceramente rivoluzionaria da abbacinare con la retorica nazionale e patriottarda. PN badò comunque sempre a tenere distinto il giudizio nei confronti della dirigenza (bersagli preferiti Almirante e Michelini) dal dialogo con la base sopratutto giovanile e popolare con la quale il contatto era continuo, come lo era con la frazione di «sinistra» dello stesso MSI e che, in alcuni casi, portò nuovi collaboratori a PN. Sul fronte opposto (quello del PCI) si distingue poi un altro personaggio destinato a raggiungere i massimi vertici del partito, Enrico Berlinguer, allora segretario del Fronte della Gioventù (come allora si chiamava l'organizzazione giovanile del PCI, poi diventata FGCI) il quale fu tra i più convinti fautori del dialogo non soltanto con gli ex-fascisti (come si solevano definire i seguaci di PN) ma anche con i giovani neofascisti (come invece venivano definiti gli affiliati al MSI).

    Dopo alterne vicende, in cui PN sarà comunque sempre «organico» al PCI e lealmente suo alleato, la parabola di PN si esaurisce di fatto nel 1953, quando il compito storico della rivista ‑portare gli ex-fascisti di sinistra con la loro identità e senza abiure e rinnegamenti, dietro la barricata dello schieramento anticapitalista ed antidemocristiano il cui bastione principale, piacesse o meno, rimaneva il PCI‑ appare di fatto concluso. I giochi erano stati fatti, e quello che doveva succedere era successo; alcuni collaboratori di PN, addirittura aderiranno al PCI ed al marxismo mentre il progetto (o forse il sogno) di trasformare PN in un partito politico viene definitivamente abbandonato dopo alcune sporadiche partecipazioni elettorali a supporto del blocco delle sinistre.

    Quale giudizio dare, dunque, dalle nostre (di «Avanguardia» ...) posizioni su questa esperienza? Certamente non è possibile estrapolare il particolarissimo momento storico in cui venne giocata quella partita. Stanis Ruinas era sicuramente un camerata divorato da una bruciante passione politica e sociale, un uomo secondo il quale il Fascismo avrebbe dovuto essere semplicemente «una variante del comunismo applicata all'anima nazionale italiana». Fu un uomo che non abiurò mai il proprio passato fascista e non fece mai il «gran salto» nel marxismo; non rifuggì parimenti mai dall'inchiodare l'esperienza fascista italiana, compresa quella «erresseista», alle proprie responsabilità: la capitolazione al capitalismo ed alla finanza, agli interessi dei grandi agrari padani, al nido di vipere di casa Savoia, al Vaticano ... Successivamente, come abbiamo visto, sarà lucidissimo profeta di ciò che rappresenterà il MSI nella storia politica dell'Italia repubblicana, ovvero la ruota di scorta della DC e il serbatoio segreto del Ministero dell'Interno, delle Forze Armate e della CIA; vedrà nel PCI, giocoforza, la sola forza rivoluzionaria e «proletaria», e persino vedrà nell'URSS lo Stato guida per una insurrezione mondiale degli oppressi. Resterà però sempre intransigentemente fedele alla memoria del Duce e mal acconsentirà ad accomunare la sua figura alla sconfitta morale del Fascismo, nonostante le pressioni dei comunisti.

    Certamente dobbiamo del rispetto a quest'uomo onesto e pulito, ma non possiamo, a distanza di cinquant'anni da quelle esperienze, non manifestare critiche anche serrate. Possiamo esemplificare: Ruinas e PN non esitarono ad attaccare anche violentemente la Germania Nazionalsocialista; nei ricordi di guerra i giudizi sull'alleato tedesco furono sempre fortemente negativi e del resto la fortuna che quel movimento incontrò tra i reduci della Xª MAS ci deve fare riflettere (anche se PN successivamente sconfessò il comandante Borghese dandogli ciò che si meritava ...); l'idea sociale fu assolutamente predominante nella elaborazione politica e teorica e non venne compresa la FONDAMENTALE DIMENSIONE SPIRITUALE CHE È ESSENZA FONDANTE DI TUTTE LE ESPERIENZE AUTENTICAMENTE «FASCISTE»; furono espresse critiche non sempre giuste nei confronti delle Brigate Nere e di uomini di (crediamo ...) assoluto rispetto come Alessandro Pavolini; venne esaltata (ma erano segni dei tempi ...) l'esperienza del Risorgimento e di personaggi come Mazzini e Garibaldi, con le cui idee noi oggi «non dovremmo nemmeno bere un caffè»; di conseguenza, e come conseguenza di un laicismo esasperato, PN non disdegnò neppure la collaborazione, sia pure saltuaria, di elementi massonici, finalizzata alla costituzione di un «fronte laico nazionale» inviso persino ai comunisti; la questione ebraica non venne minimamente dibattuta (almeno da quanto consta dalla lettura del volume) seppure si può comprendere come dovesse essere materia «off limits» per un movimento contiguo ad un PCI fortemente ebraicizzato; infine l'ossessiva autodefinizione di ex-fascisti lascia forse intuire l'intimo convincimento che quella esperienza storico‑politica non fosse più proponibile.

    Alla luce di quei lontani avvenimenti possiamo trarre degli insegnamenti per l'oggi? Quanto i «fascisti rossi» di “Avanguardia” potrebbero trasporre nell'azione concreta all'interno del «lager» euro‑americano‑giudaico*massonico‑mondialista? Non da ieri Avanguardia si è posta, appunto (potenza del nome ...), al di là e al di sopra delle concrezioni ammuffite dello schema destra-sinistra. Il socialismo è e sarà per sempre componente predominante ed irrinunciabile della nostra visione del mondo, componente anzi senza la quale tutta la nostra azione politica affonderebbe nel nonsenso. Come già PN anche noi continueremo a cercare, ossessivamente, il dialogo con quel che resta della discarica dell'estrema destra; come PN, a maggior ragione, continueremo ossessivamente, ad appellarci a quelle forze dell'estrema sinistra realmente rivoluzionarie ed anticapitalistiche nella misura in cui si rendano conto, e ce ne diano atto, che L'AVANZATA FURIBONDA DEL NUOVO ORDINE MONDIALE È STATA PRECONIZZATA PIÙ DALLE NOSTRE ANALISI «VISIONARIE» E «DELIRANTI» che dalle loro tonnellate di carta di analisi «scientifiche».

    Noi riconosciamo, seppure a malincuore, che l'iniziativa antagonista non è oggi dalla parte che fu «nostra» (anni luce or sono) e che giunge a sventolare le bandiere a stelle e strisce nei raduni berlusconian‑finiani, ma di quella parte che, perlomeno, tali bandiere dà alle fiamme ...

    Graziano Dalla Torre




    Fascisti rossi

  6. #6
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    Parole dedicate a un Rivoluzionario

    Confesso candidamente che non capisco il tuo atteggiamento "d'uomo alla finestra" in attesa che l'orizzone si riscari. Attendere è un brutto verbo borghese, non rivoluzionario.
    Chi ha coraggio e dignità non se ne sta con le mani in mano, mentre i popoli di cinque continenti sono presi nel vortice cosmico delle gigantesche forze in urto per l'affermaizone della rivoluzione sociale bandita dalla Italia e dalla Germania o per il perpetuarsi della reazione borghese e capitalistica personificata dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti.
    La vita non è una finestra da cui si possa contemplare il mondo restando indifferenti ai suoi drammi, come pretendono i Romain Rolland di questa guerra, gli Erasmo e i Pilati moderni e certi intellettuali dal fiato corto e certi petini dal verso abracadico.
    La vita è qualcosa di meglio e di peggio: è un'incessante lotta rabbiosa tra il bene e il male, tra la luce e la tenebra, fra la libertà e la schiavitù. Con Cristo e Mazzini noi crediamo nel bene; combattiamo perciò la libertà, generatrice di colossi, contro la schiavità e la tirannia generatrici di lutti e di stragi e di mortidifame.
    E' una pazzia? Può darsi. Ma tu stesso hai esaltato la pazzia che è alla radice d'ogni rivoluzione, d'ogni moto della storia, d'ogni grande rivolgimento religioso. E, se non sbaglio, tu stesso hai definita "chiericale" la posizione del socialista estetizzante Romain rolland durante l'altra guerra.
    Tu vuoi giustificare il tuoateggiamento sostenendo che sei contro le dittature in favore della libertà e della personalità umana.
    La tua grande fissazione è la dittatura. La detesti e la concepisci solo in funzione antistorica. Anzitutto non ci furono mai e mai ci saranno rivoluzioni senza dittatori. La rivoluzione france ebbe i suoi Robespierre; quella russa ha Stalin. Le dittature s'accompagnano logicamente alle rivoluzioni e le rivoluzioni si sostengono con le dittature finchè non hanno compiuto il loro ciclo.
    Il tuo è un errore comune a molti. Ti fermi sbigottito dinanzi ai nomi evitando di scendere in profondità. Mussolini, Hitler e Stalin sono tre autentici rivoluzionari; hanno fatto tre rivoluzioni che sono costate ingenti sacrifici di Sangue. Si può avere più simpatia per l'uno o per l'altro; ma non si può negare che essi siano i genuini rappresentanti di tre rivoluzioni che hanno per meta lo scardinamento del sistema capitalistico e il benessere dei loro rispettivi popoli.
    Il nemico comune è il capitalismo; e il capitalismo è la peggiore dittatura. Churchill e Roosevelt non sono dittatori nel significato corrente della parola; ma il sistema che essi rappresentano, il capitalismo, anzi il supercapitalismo, è la più opprimente e mostruosa delle dittature.
    La storia dell'imperialismo inglese, dai tempi della Regina Elisabetta ai giorni nostri, non è altro che la storia di una dittatura aggressiva di rapinatori e di pirati mascherata coi nomi suggestivi e fascinatori di libertà e di progresso dei popoli. La potenza imperiale inglese ha inizio quando sale sul trano una donna: la regina Elisabetta, "dittatrice e assassina"; tocca l'apogeo quando crolla un imperatore: Napoleone.
    Sotto Elisabetta, nel 1588, unendo le proprie forze navali a quelle dell'Olanda, l'Inghilteraa vince l'"Invincibile Armada" di Filippo II. Quando, con la forza, sconfigge la flotta olandese, la sua potenza navale e coloniale è assicurata. Ciò avviene al tempo di Cromwel, altro cupo dittatore in veste di puritano, la aggressione commercale e coloniale continuata fondò l'impero.
    Fedele ad una politica contraria ad ogni egemonia che non fosse la propria, l'Inghilterra ha attraversato la strada ad ogninazione che minacciasse di predominare. Così alla Spagna ed alla Francia, come alla Russia e alla Germania. Dal 1688 al 1815, secondo i calcoli di Robert Seely, autore del celebre volume "l'espansione inglese", l'Inghilterra ha combattuto per complessivi sessantotto anni contro l'egemonia francese.
    L'imperialismo inglese, che ha per maschera la democrazia e il ribellismo, non èa ltro , giusta la definizione di Lenin, che una tappa superiore del capitalismo.
    I democratici e i liberali anglo-americani, in virtà del loro capitale finanziario, hanno lanciato la loro rete di affari su tutti i mercati del mondo. Il controllo viene esercitato dalle banche e dalle agenzie fondate nei posti conquistati al loro mercato. Attraverso la copiosa rete di questo mercato essi dominano il mondo e dettano legge.
    Per colpa dell'Inghilterra, la Europa, a furia di farsi la guerra di vencinquennio in venticinquennio, crollerà sotto il peso delle sue pazzie, o , per essere pià esatti, delle pazzie delle cricche finanziarie che settant'anni di guerra e di rivoluzioni non sono riuscite ad abbattere e che per i loro interessi spingono i popoli a scannarsi a vicenda. Gli imperialismi a sfondo punico, tali sono quelli che fanno il bello e il cattivo tempo nel nostro continuente, si combattono e si elidono, milioni e milioni di uomini soccombono, intere città vengono distrutte, nazioni spariscono dalla carta geografica, ma l'umanità continua e continuerà a sterilire nella miseria.
    Il sole della giustizia non splenderà sull'Europa finchè sarà in piedi l'impero britannico che rappresenta la roccaforte della reazione e il sistema capitalista nemico dei proletari.
    L'inghilterra fece di tutto per annegare nel sangue la rivoluzione francese; vinto Napoleone organizzò tutte le forze reazionarie d'Europa sotto il nome di Santa Alleanza la quale per vari lustri soffocò le aspirazioni di libertà e di indipendenza di tutti i popoli, compreso l'italiano.
    Nel 1919 Churchill sostenne che bisognava organizzare un corpo di spedizione contro la rivoluzione russa. Logica e conseguenziale è la sua condotta di "gendarme d'Europa" di fronte all'Italia e alla Germania proletarie e rivoluzionarie. Ciò che non è logica nè conseguenzialeè la posizione di certi rivoluzionari rispetto all'attuale conflitto. Ma codesti sono rivoluzionari senza rivoluzione: sono i difensori e gli alleati del capitalismo e dell'alta banca. In buona o in mala fede essi sono gli strumenti dei tentennanti re e dei potentati del denaro.
    Fedeli alle nostre premesse e ai nostri principi noi continueremo a lottare per la rivoluzione europea che dovrà stritolare i troni superstiti, rompere i ceppi, rovesciare le dinastie del privilegio e le ibride alleanze della reazione che fanno capo a Londra e Washington.
    L'altra guerra spazzò via corone di re e imperatori. Questa guerra rivoluzionaria dovrà sostituire alle oligarchie finanziarie i popoli liberi d'Europa che avranno una patria, che crederanno in questa patria e la difenderanno col sangue e con la vita contro gli eventuali assalti di tutte le potenze extraeuropee.
    Non capire tutto ciò è da stolti e da codini. Lasciamo pure che i blasonati e i signorini della borghesia ricca aspettino gli inglesi e si augurino la vittoria degli inglesi. Ma è assurdo e mostruoso che un rivoluzionario si allinei dietro codesta gente vile e miserabile che vuole continuare a vivere sul lavoro e sul sangue del popolo.

    Stanis Ruinas




    Lettere di Stanis Ruinas Fascist

  7. #7
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    da "Fascisti immaginari" - Luciano Lanna e Filippo Rossi

    Fascisti di sinistra




    «La destra è censura, reazione, bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra, che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e socialisteggiante...»
    Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del "Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale. Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra».
    Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente. Non lo avevo dimenticato ...».
    E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50 avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione. Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...
    Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia" tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del 1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di «filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma, come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno 1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto, rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini».
    Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall'unità».
    E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace. Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci, trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto 1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata».
    Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti. E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del fascismo che del postfascismo.
    Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico, filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una rivoluzione proletaria».
    Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra».
    E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò ulteriormente le buone relazioni.
    Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica, pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla».
    Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana», tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a "sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre 1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista».
    In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"- scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"».
    E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale».
    Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu, viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro, c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale, libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica, decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!».
    Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia».
    E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della "rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata".
    In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti «fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che, persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI.
    Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che, nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni '50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI.
    In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un esponente di punta della sinistra interna.
    Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965 anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel 1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi.
    Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale", nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR (Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una "sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e "Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio" assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della loro lotta per l'indipendenza».
    Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al "fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968. E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico: "Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i futuristi.
    Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che «sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F. Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista Principio Federico Altomonte).
    Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso "rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi, fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni '80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo tricolore" attivato dalla svolta craxiana.
    Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio 1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa». Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare, l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani, dei disoccupati, del sottoproletariato».
    Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista, ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e antiproibizioniste.
    «Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati».
    Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle sue origini di sinistra».
    E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il vicesindaco di una giunta rosso-nera.
    La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al "socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit- potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai: fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature, intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere" per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920, combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera.
    Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel pensiero del grande ferrarese».
    All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria "bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale. D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di «laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana.
    Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31 ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni... Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito, e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo.


    Luciano Lanna e Filippo Rossi
    da "Fascisti immaginari"
    Vallecchi, 2003 - Vallecchi casa editrice Firenze Futurismo italiano



    Fascisti di sinistra

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    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    Ruinas UN VERO RIVOLUZIONARIO!

    Grande esempio di anti-capitalista coerente: la sua scelta di passare con tanti altri ex fascisti repubblicani al PCI nell'immediato dopoguerra può essere sicuramente una forzatura politica ma risponde a una visione radicalmente contraria agli interessi del capitale allora rappresentato anche dalla Destra nascente cioè quel Msi che sarà sempre il cane da guardia della borghesia italiana partito distintosi per l'adesione immediata alla NATO
    .

    Grande Ruinas

  9. #9
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    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    E' uno dei miei personali punti di riferimento.
    Ed è uno dei riferimenti fondamentali per un eventuale nuovo movimento politico di stampo socialista nazionale.

  10. #10
    Avamposto
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    Predefinito Rif: Pensiero Nazionale: Stanis Ruinas, il "fascista rosso"

    Citazione Originariamente Scritto da Antonio Visualizza Messaggio
    E' uno dei miei personali punti di riferimento.
    Ed è uno dei riferimenti fondamentali per un eventuale nuovo movimento politico di stampo socialista nazionale.


    Sicuramente un personaggio importante per costruire una Terza Posizione al di là della destra e della sinistra italiane.

    Assieme a Berto Ricci e a Nicola Bombacci probabilmente la figura più singolare tra gli intellettuali e i pensatori politici espressi nel Ventennio da quella Sinistra Fascista di cui non è possibile fare a meno per fuoriuscire dalla fogna della Destra e di ogni tipologia di "destrismo".

 

 
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