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    Predefinito Gaetano Salvemini (di N. Bobbio)


    Norberto Bobbio e Gaetano Salvemini





    La non-filosofia di Gaetano Salvemini
    , in Gaetano Salvemini nel centenario della nascita, atti della tavola rotonda, Roma 15 novembre 1973, Movimento Gaetano Salvemini, Roma s.d. ma 1974, pp. 12-24; poi in N. Bobbio, Etica e politica. Scritti di impegno civile, Mondadori, Milano 2009, pp. 235-254.



    In una citatissima lettera a Piero Gobetti dell’11 agosto 1922, Salvemini scrisse che egli era un illuminista tempratosi nello storicismo di Cattaneo e di Marx, concludendo: “Illuminismo, storicismo, marxismo: queste le basi del mio pensiero”.[1] Confesso che per un nemico acerrimo di ogni filosofema, (o “filofesseria”, com’egli diceva), qual era il nostro Salvemini, tre “ismi” mi sembrano un po’ troppi. Soprattutto poi quando si tratti, come in questo caso, di “ismi” considerati spesso in contrasto tra loro: etichette, per quel che valgono, che ricoprono di solito bottiglie molto diverse tra loro. Troppi, e nello stesso tempo, a causa della loro genericità, troppo pochi. Manca infatti, fra quei tre “ismi”, quello che, liberato ormai da ogni significato deteriore, apparirebbe oggi forse il più appropriato: voglio dire “positivismo”. Personalmente, ho imparato da Salvemini e dal suo maestro Cattaneo a detestare ogni sorta di etichettatura. Credo quindi che il primo compito di un’analisi spassionata del posto che Salvemini occupa nella storia della cultura italiana nella prima metà di questo secolo sia di togliergli di dosso queste camicie di forza che egli stesso si era messo.

    Salvemini fu, sì, un illuminista, ma anche il contrario di un illuminista. Illuminista, perché di fronte all’antitesi storica e filosofica illuminismo-romanticismo, che costringe ogni uomo di cultura a prendere posizione, egli si schierò sempre dalla parte del primo dei due termini. Nella sua Storia della rivoluzione francese ammirò l’opera rischiaratrice, riformatrice, preparatrice, dei “philosophes”, e avrebbe voluto tornarci su in una nuova edizione per metterla in maggiore risalto. Credette nella forza creatrice delle idee, della “intelligenza”, come avrebbe detto il suo Cattaneo. In polemica contro la tesi di Chabod, secondo cui l’idea di nazione era nata col romanticismo, delineò in alcune belle e dense pagine il contrasto tra concezione illuministica e concezione romantica dell’individuo e dello Stato, per combattere alcuni luoghi comuni idealistici circa la superiorità dello spirito romantico su quello illuministico.[2] Da buon illuminista concepì la sua azione politica come quella del riformatore di leggi e di costumi. Lottò contro l’arretratezza del suo amato-detestato Mezzogiorno, contro gli avanzi di antichi privilegi, contro ogni forma di fanatismo politico e culturale. Pur non essendo irreligioso fu avverso all’oscurantismo clericale. Però, a differenza dei suoi grandi ispiratori, non fu ottimista. Non credeva alle “magnifiche sorti progressive”: non mi pare sia stato molto notato, ma tra i quattro autori dell’Ottocento ch’egli prediligeva pose Leopardi.[3] Non so se si possa parlare di una filosofia della storia: certo non credeva nell’inevitabilità del passaggio dal regno delle tenebre al regno della luce, dal regno della necessità al regno della libertà. Non vedeva l’uomo uscire definitivamente dallo stato di minorità. Dell’idea del processo indefinito che aveva entusiasmato i filosofi del Settecento e dell’Ottocento disse che “era stata costruita su una base tenue di fatti, cioè sull’esperienza soltanto dei più civili paesi d’Europa nei secoli più recenti”, e pertanto lo storico avveduto non avrebbe dovuto fidarsene.[4] Era solito dire che i pessimisti avevano sempre ragione. Anzi, via via che procedette nella lotta e nella presa di coscienza della complessità dei problemi e della materia sorda su cui bisognava operare, il suo pessimismo diventò sempre più radicale. In una lettera ad Armando Borghi del 13 settembre 1945 scrisse: “Se credessi la umanità più intelligente e meno indifferente al suo stesso male che essa non è, sarei anarchico anch’io. Purtroppo la umanità, qual la vedo intorno a me, cioè i novecento novantanove millesimi, e forse più, dell’umanità, è interessata solo a mangiare, far figli e andare a scommettere alle corse dei cani”. E per questo, concludeva: “Tu sei anarchico, e io sono un povero disgraziato democratico della scuola antidiluviana dura a morire”.[5]

    Storicista: in che senso? Più ancora che illuminismo, storicismo è una espressione dai molti significati, anche contraddittori tra loro. Così stra-usata, e mal-usata, da amici e nemici, che sarebbe ora di metterla da parte. Se per “storicismo” s’intende quel che s’intendeva nel linguaggio filosofico italiano, che egli aborriva, la concezione del mondo per cui “la realtà è la storia”, Salvemini, di questa “astrazione stratosferica”, come l’avrebbe chiamata se mai gli fosse capitata fra le mani, non avrebbe saputo che farsene, e se avesse saputo che per essere chiamati a buon diritto “storicisti” occorreva dichiararsene convinti, avrebbe rinunciato volentieri a fregiarsi di quel titolo. Gli idealisti avevano divulgato un altro significato di storicismo, secondo cui essere storicisti voleva dire tener fermo il primato della storia su ogni altra forma di sapere sino a giungere all’identificazione di storia e filosofia. A parte il fatto che anche questi concetti erano un prodotto tipico di quella “fabbrica del buio”, in cui, secondo Salvemini, consisteva la filosofia idealistica (e più passano gli anni e più gli do ragione), e quindi non erano comprensibili al “passerotto” che egli era, non condivideva affatto quella tesi, anzi aveva un’idea completamente diversa, per non dire opposta, della storia. Egli non aveva mai disgiunto – cosa abominevole per un idealista – la storia dalla sociologia. Se la storia doveva essere scienza non poteva esserlo se non nel senso in cui erano scienze le più progredite scienze naturali. Se la storia doveva essere credibile, doveva mettersi al passo con la metodologia scientifica più progredita. Insomma la concezione della storia cui egli aveva aderito e gli veniva per linea direttissima dal positivismo era proprio l’opposto della concezione idealistica, cioè di quella concezione donde era nato il nuovo termine “storicismo”. In una delle ultime pagine, che il Vivarelli pubblicandole ha chiamate il suo “testamento”, egli distinse due tipi di storici, gli empiristi, alla cui schiera egli sosteneva di appartenere, e i teologi. I primi guardano ai “risultati”, i secondi cercano anche i “fini”, perché sanno o credono di sapere che la storia ha un disegno oscuro ma perscrutabile.[6] Non c’è dubbio che in tutti i sensi possibili di “storicismo”, gli storicisti sono i secondi. I primi sono puramente e semplicemente degli storici. Salvemini non fu uno storicista ma uno storico, uno storico di razza, di sicuro intuito, di solido mestiere, che a ventisei anni scrisse un’opera di storia medioevale che ha fatto epoca, e trenta una storia della Rivoluzione francese – un argomento da far tremare – che fu elogiata da Albert Mathiez.

    Sul marxismo di Salvemini si è già detto tutto, e qualche cosa di più. Nel senso che oggi si dà a “marxista”, inteso come seguace di una dottrina più o meno compiuta e completa, che si fa risalire a Marx, Salvemini non fu un marxista, per la semplice ragione che egli non fu un dottrinario di alcuna dottrina.[7] Dei dottrinari diceva che erano le persone più pericolose del mondo, e se ne stava alla larga.[8] Com’è noto, dalla lettura giovanile di alcune opere storiche di Marx, trasse l’ispirazione a scrivere una storia delle classi sociali in Firenze nel secolo XIII. Ma quando poi si trovò ad affrontare la storia del fascismo, cui dedicò forse alcune delle maggiori sue opere di storico, non ne diede esclusivamente, come pur fecero altri, un’interpretazione rigidamente classistica. L’interesse per Marx e per il marxismo si andò attenuando lungo gli anni: né sembra avesse letto, prima o poi, le opere maggiori, che di fatto non cita mai. Anche negli anni giovanili, del resto, non prese alcuna parte alla disputa intorno al marxismo teorico, che scoppiò alla fine del secolo, e fu una disputa essenzialmente filosofica, di cui è difficile scorgere il nesso con il socialismo e con la storia del movimento operaio e delle lotte del lavoro. Salvemini fu, almeno nei primi anni della sua milizia politica, socialista, ma più socialista che marxista. Anzi, con l’andar del tempo il marxismo diventò per lui uno dei tanti “ismi”, da cui una persona di buon senso doveva fuggire come la peste, una forma d’indottrinamento che rendeva politicamente intolleranti e mentalmente sterili (e presuntuosi). “Il marxismo è un filtro meraviglioso per svegliare le anime dei dormienti. Ma chi ne abusa, rimbecillisce.”[9] (Sarà bene, però, non dimenticare che questa frase fu pronunciata nel 1949, quando il marxismo s’identificava con lo stalinismo). Com’è stato recentemente osservato dall’ultimo suo biografo,[10] egli arrivò al marxismo non tanto attraverso Labriola, che era (come dirà molto più tardi) “con rispetto parlando, un filosofo”,[11] ma attraverso Loria. Curiosamente il De Caro, che ha fatto questa osservazione, non cita il passo a questo proposito più significativo che si trova in Storia e scienza, opera della maturità, là dove si legge che “Marx […] formulò la legge che tutti i mutamenti sociali, economici, politici, giuridici, intellettuali, morali e religiosi, sono l’effetto di mutamenti della tecnica della produzione”.[12] Alla tesi marxiana della storia come storia di lotta di classi contrapposte, andò sovrapponendosi, sino a prevalere, con gli anni, a contatto immediato con lo svolgimento della lotta politica in Italia, la tesi paretiana e moschiana secondo cui la storia è il teatro dove si agitano non le classi sociali ma le classi politiche o élites in lotta per il predominio. Mosca aveva recensito con molti elogi, se pur con qualche riserva sulle conclusioni politiche, la Storia della rivoluzione francese,[13] poi, quando aveva pronunciato in parlamento il suo discorso contro il suffragio universale, aveva criticato garbatamente il “suo amico personale” Salvemini.[14] Il quale, d’altro canto, aveva trovato in Mosca un alleato nella campagna contro la guerra in Libia. In quel compendio delle sue riflessioni sul mestiere di storico, che è l’operetta scritta negli Stati Uniti nel 1938, Storia e scienza, dopo aver esposto la legge moschiana delle minoranze organizzate, commenta: “S’io non erro, tutta la storia corrobora la legge di Mosca”.[15] L’adesione alla teoria delle élites serve forse a far capire meglio il carattere delle sue battaglie che furono sempre dirette contro le classi politiche di volta in volta dominanti, quella giolittiana, quella fascista e quella post-fascista – i “politicanti” di turno, come paretianamente li chiamava[16] - e permette anche di comprendere meglio l’obiettivo principale delle sue battaglie culturali, specie quelle che egli combatté in prima persona dalle pagine dell’ “Unità”, volte alla formazione di una nuova classe politica fatta di esperti e non di ideologi, da sostituire a quelle corrotte che avrebbero condotto il Paese alla rovina (e lo condussero). Dopo la Liberazione, più esasperato che mai per tutti i compromessi in cui i partiti anche della sinistra si erano lasciati coinvolgere nel dar vita a una democrazia falsa, fragile e precaria, ripeté, con una ostinazione che gli stessi suoi amici trovarono esagerata e talvolta ingiusta, l’accusa che fosse necessario preparare un gruppo di giovani – ancora una volta un’élite – disposta all’astinenza dalla politica di oggi per la conquista del potere con accresciute esperienze e competenze, domani.[17]

    Fu Salvemini un positivista? Da parte mia, non avendo più il complesso di inferiorità dei positivisti superstiti dopo il massacro fattone dagli idealisti e dagli irrazionalisti, nei primi anni del secolo, sarei tentato di rispondere di sì. Non tanto per la formazione ch’egli ebbe negli anni fiorentini, in quella università di Firenze, dove si celebrava negli studi storici un severo metodo positivo e dove uno dei suoi maestri, Pasquale Villari, grazie alla memoria La filosofia positiva e il metodo storico (1866), fu elevato a padre del positivismo italiano;[18] non tanto per le letture che egli dichiarò di aver fatto in quegli stessi anni di tutte le annate della “Rivista di filosofia scientifica”; ma perché egli rimase tutta la vita non filosofo di quella non-filosofia che era, mi si passi il bisticcio, la filosofia più genuina di un giovane che era stato educato al metodo positivo. Chi abbia una certa familiarità con la filosofia di Pareto, di cui Salvemini aveva letto il celebre Cours, istigato dai due paretofili, con i quali ebbe dimestichezza, Carlo Placci e Francesco Papafava,[19] troverà lo stesso atteggiamento di rifiuto delle metafisicherie, quasi le stesse battute, lo stesso, in parte infastidito in parte divertito, “non ci capisco niente”. Nella corrispondenza fra Pareto e Croce, testé pubblicata, sembra di assistere a un dialogo di sordi e lo stesso Pareto lo attesta: “Proprio tutte le parole da me usate, sono da voi intese in senso diverso da quello che hanno per me […] È proprio il dialogo: dove andate? vendo pesci”.[20] È il solito ritornello: voi siete un metafisico, io un empirico; voi avrete ragione dal vostro punto di vista ma io non capisco che cosa vogliate dire. Questa non-filosofia non era affatto, come si va ripetendo, l’aborrimento delle idee generali (dal canto suo Pareto d’idee generali ne aveva a bizzeffe, forse troppe), o la resa a discrezione dei fatti: Salvemini ha su questo punto idee molto precise. Coloro che vogliono fatti e soltanto fatti, sono gli eruditi, non sono gli storici. Chiunque scriva libri di storia senza idee generali è un raccoglitore di notizie, non uno scrittore di storia. Ciò che il metodo positivo gli aveva insegnato erano soprattutto due cose: primo, che le idee generali debbono essere messe alla prova dei fatti e se la prova non riesce debbono essere scartate anche se il loro autore per avventura fosse ad esse molto affezionato; secondo, che i fatti debbono essere accertati col metodo del “trial and error” che aveva fatto progredire le scienze della natura, e non dedotti dalle idee generali, come si diceva avesse fatto quell’hegeliano che, dovendo scrivere un trattato sul cammello, non si era recato sul posto a studiare i cammelli dal vero ma si era chiuso nel suo studio a dedurre i caratteri del cammello dalla natura delle cose. In un Paese di dottrinari, in un Paese in cui anche il marxismo era stato (ed è tuttora) una bella occasione per una disputa filosofica, questa non-filosofia che era poi la filosofia positiva, era, è stata e sarebbe stata se avesse trovato un terreno più accogliente, una salutare reazione. (Chi vive quotidianamente l’esperienza delle nostre università, specie in questi anni di effervescenza ideologica, sa che il discettare su ciò che ha veramente dello Marx sembra molto più importante che l’affaticarsi a conoscere come siano andate realmente le cose).

    Salvemini scherzava volentieri su questa sua assoluta cecità filosofica, come quando racconta che Gentile, che egli conobbe nel 1907 al congresso napoletano della Federazione insegnanti scuole medie e con cui strinse subito una forte e calda amicizia,[21] voleva convincerlo che anche lui era filosofo perché ogni uomo è filosofo, se pure in forma incosciente, e commenta: “Se così stanno veramente le cose, io sono sempre rimasto alla fase dell’incoscienza. Dicono che la filosofia è il pensiero che pensa se stesso. A me il semplice pensare un pensiero costa tanta fatica, che dopo averlo pensato non mi resta più lena per costringerlo a pensare se stesso”.[22] Scherzava ma diceva in realtà cose molto serie.


    (...)



    [1] Citata nella Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Feltrinelli, Milano 1961, p. XXVIII, e riprodotta in facsimile innanzi all’edizione di La rivoluzione francese, a cura di F. Venturi, in Opere II, vol. I, Feltrinelli, Milano 1962.

    [2] Il Risorgimento (Lezioni universitarie), in Opere II, vol. II, Scritti sul Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 542 e sgg.

    [3] “Il popolo italiano – per quanto io possa giudicare – ebbe solo quattro uomini di genio nel secolo XIX: Leopardi, Cattaneo, Cavour e De Sanctis. Manzoni, Mazzini, Carducci li metterei fra gli uomini di second’ordine” (Premessa a Scritti sul Risorgimento cit., pp. 9-10).

    [4] Storia e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1948, p. 36.

    [5] Lettere dall’America, Laterza, Bari 1967, vol. I, pp. 170-1.

    [6] Empirici e teologi, “Il Ponte”, a. XXIV, 1968, pp. 44-5.

    [7] Anche Armando Saitta, che fra gli studiosi di Salvemini è colui che insiste maggiormente su una interpretazione marxistica per lo meno dei primi scritti, non giunge sino al punto di considerare Salvemini un marxista, come lo s’intenderebbe oggi (vedi L’ideologia e la politica, in AA. VV., Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959, in particolare pp. 46-55).

    [8] Val la pena riportare tutto il brano di una lettera a Ugo Guido Mondolfo dell’11 gennaio 1947: “Beninteso che il tempo da voi perduto in questi ultimi diciotto mesi non doveva essere solamente impiegato a pestar l’acqua nel mortaio delle formule astratte. È questa una malattia endemica in Italia: la smania delle discussioni nel vuoto. Ti ricordi i bei tempi quando i congressi socialisti italiani discutevano a perdifiato se votare ‘sistematicamente’, no? Saragat continua tenace quella tradizione. (Guido Calogero ha portato quell’arte a eccelse cime, e si dovette anche a quell’arte la fine del Partito d’azione). I dottrinari sono la gente più rispettabile e più disastrosa di questo mondo” (Lettere dall’America cit., vol. II, p. 9. Il corsivo è mio).

    [9] Una pagina di storia antica, “Il Ponte”, a. VI, 1950, p.131.

    [10] G. De Caro, Gaetano Salvemini, UTET, Torino 1970, pp. 22-6.

    [11] Questo giudizio su Labriola si trova in una lettera inedita a Leo Valiani, dell’8 gennaio 1954, citata dal De Caro, op. cit., p. 23.

    [12] Storia e scienza cit., p. 54.

    [13] Questa recensione apparve su il “Corriere della Sera” del 6 luglio 1908, ed è ora stata pubblicata da A. Lombardo in G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale, Bonanno, Catania 1971, pp. 592-7.

    [14] G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale cit., p. 137. Salvemini parla di Mosca come di “un uomo di grande ingegno e di profonda cultura storica e osservatore acuto e spregiudicato dei fatti sociali” (Scritti sulla scuola, in Opere V, a cura di L Borghi e B. Finocchiaro, Feltrinelli, Milano 1966, p. 632).

    [15] Storia e scienza cit., p. 97. Passi d’ispirazione moschiana se ne trovano parecchi nelle opere di Salvemini dal periodo dell’ “Unità” in poi. Due di questi passi sono citati da Saitta, op. cit., pp. 90, 92 e 94 (nota).

    [16] Il problema dei rapporti tra Salvemini e Pareto meriterebbe una trattazione a parte. Notizie si possono trarre dal primo volume dei Carteggi, sinora pubblicati, che comprende il periodo 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Feltrinelli, Milano 1968. Salvemini entrò in rapporto con Pareto attraverso i due suoi amici paretiani, Carlo Placci e Francesco Papafava. Fu gradito ospite della villa di Céligny nel gennaio 1911. In Storia e scienza cita il Trattato di sociologia generale, nella traduzione inglese, il cui titolo, Mind and Society, viene ritradotto in italiano con Spirito e società, cioè con una traduzione che rende incomprensibile il riferimento (p. 50).

    [17] Basti per tute questa citazione da una lettera a Franco Venturi, del 17 settembre 1946: “A me pare, caro Franco, che la sola cosa che possiate fare voi appartenenti alla generazione al di sotto dei quarant’anni è di riconoscere che cogli uomini che hanno più di sessant’anni non c’è più niente da fare in Italia. È una generazione assolutamente marcia e disfatta. D’altra parte, questa generazione spregevole non può essere sostituita da un momento all’altro. È necessario lasciar tempo al tempo. E bisognerebbe che i migliori della vostra generazione si rendessero conto che saranno necessari almeno dieci anni prima che sia possibile in Italia ad un paio di centinaia di persone fra i venticinque e i quarant’anni di farsi avanti e spazzar via tutto il vecchiume. Decidetevi una buona volta a riconoscere che occorreranno dieci anni di lavoro intellettuale, paziente, metodico, tenace, per preparare quelle due o trecento persone che debbono compiere nel secondo risorgimento italiano la funzione che compirono fra il 1859 e il 1875 le due o trecento persone le quali costruirono l’Italia. Bisogna che vi decidiate per dieci anni a rimanere a denti asciutti, a non diventare né consiglieri comunali né deputati. Ma bisogna che vi teniate pronti fra dieci anni a farvi avanti risolutamente e a diventare senza transizione primi ministri, ministri, ambasciatori, papi – tutto quello che è necessario per dirigere un Paese. Sappiate aspettare” (Lettere dall’America cit., vol. I, p. 381).

    [18] Su questo aspetto della formazione di Salvemini vedi soprattutto E. Garin, Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo, nel volume di AA. VV., Gaetano Salvemini cit., specie pp. 154-73. Dello stesso Garin, vedi anche i saggi sulla cultura fiorentina dell’ultimo secolo nel volume La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Laterza, Bari 1962, ove è ristampato anche il saggio su Salvemini sopra citato.

    [19] In una lettera del 14 ottobre 1896 Papafava invita Salvemini a mandare la sua memoria sulla dignità cavalleresca (La dignità cavalleresca del Comune di Firenze, 1896) a Pareto con queste parole: “Pareto non è socialista ma non si può dire davvero che faccia la corte alla borghesia. Le mando Il grido del popolo con un suo articolo. Pareto è fatto apposta per apprezzare tutto il valore economico del Suo lavoro” (Carteggi cit., p. 34). In una lettera del 16 novembre Salvemini chiede in prestito a Placci il Cours di Pareto (ivi, p. 38). Manda a Pareto in omaggio i Magnati e popolani, e ne riceve due cartoline con un giudizio lusinghiero (ivi, p. 106). Dal canto suo Pareto cita questo libro nell’articolo Un’applicazione di teorie sociologiche (1900), ora in Scritti sociologici, a cura di G. Busino, UTET, Torino 1966, pp. 265-6. Per un giudizio di Pareto sul libro (“quel tuo amico mi pare avere una fissazione colla sua lotta di classe! Se piove, sarà per cagione della lotta di classe!”) e per la difesa di Salvemini (“Se la pioggia fosse un fenomeno sociale e fisico, sarebbe anch’essa una manifestazione dell’eterna lotta economica fra i gruppi umani, divisi o verticalmente (popoli) o orizzontalmente (classi)”), vedi ancora i Carteggi cit., rispettivamente, pp. 44 e 48.

    [20] G. De Caprariis, Trentadue lettere di Vilfredo Pareto a Benedetto Croce, “Revue européenne des sciences sociales”. Cahiers Vilfredo Pareto”, a. X, n. 27, p. 158.

    [21] Di questa subitanea e calorosa amicizia vi sono parecchie testimonianze nel primo volume dei Carteggi, ma può bastare la seguente: “La nostra amicizia, caro Gentile, non è di quelle che sieno destinate a dissolversi, perché non si fondano né su un’intesa personale né su una semplice comunanza di opinioni. Essa è nata da una omogeneità di carattere morale, la quale non può mutare come mutano gl’interessi e le idee. E da essa noi riceviamo sempre il maggiore di tutti i vantaggi: un reciproco miglioramento morale” (p. 382).

    [22] Una pagina di storia antica cit., p. 127.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini (di N. Bobbio)

    Aveva capito benissimo che dietro la tanto esaltata reazione idealistica contro il gretto e pedestre positivismo stava in agguato la boria speculativa di una cultura pigra e chiusa su se stessa, che preferiva discutere di trascendenza e d’immanenza piuttosto cha arrampicarsi sui pendii impervi della matematica, della logica, della psicologia, della sociologia, dell’economia. Nei fedeli seguaci era la rivincita del vecchio umanesimo retorico sull’umanesimo scientifico, nato con Galileo, poi morto, rinato e sempre destinato a rimorire, ogni qual volta la schiera di coloro che chiosano Aristotele diventa più numerosa e più chiassosa di coloro che vogliono guardare nel cannocchiale. Scelgo una citazione fra mille. Dei piccolo-borghesi intellettuali meridionali diceva: “Tengono sulla punta delle dita Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giovan Battista Vico, Giovanni Bovio, Giovanni Gentile, Benedetto Croce. Ma nessuno si occupa di quanto succede, putacaso, nell’ufficio del lavoro del suo Paese, dove la povera donnicciola […] è trattata come il cane in chiesa”.[1] Molti anni più tardi, ripensando alla riforma Gentile, che aveva abbinato la filosofia alla storia, disse: “Quella indigestione di vuotaggini incomprese produce chiacchieroni presuntuosi, ai quali manca ogni senso della realtà, e che credono di poter risolvere tutti i problemi a furia di formule ventose, che spiegano tutto e non dicono niente”.[2] Poteva scherzare sulla sua cecità filosofica, perché, se la filosofia era la “fabbrica del buio”, come si poteva non essere ciechi? Ma non fece mai dell’anti-filosofia indiscriminatamente, senza introdurre le debite distinzioni: c’era filosofia e filosofia. In un articolo del 1907 espresse molto bene il proprio pensiero là dove, polemizzando contro i “guasconi dell’idealismo” che “tendono a dimenticare che fuori della rigida e metodica ricerca positiva non vi sono che nuvole”, protesta anche contro coloro che hanno visto nel positivismo “non uno sforzo felice per perfezionare i metodi e impedire gli sviamenti della speculazione filosofica, ma la negazione sistematica, incondizionata di ogni speculazione filosofica”.[3] Per due volte egli stesso si cimentò coi problemi di metodo della storiografia, che erano i problemi filosofici per eccellenza di una filosofia non speculativa, la prima volta all’inizio (La storia considerata come scienza, 1902), la seconda alla fine (Storia e scienza, 1938) della sua carriera di storico. E, per quanto entrambe le volte fosse stato strapazzato da Croce, che lo accusò, recensendo la prima memoria, di superstizione scientifica, recensendo la seconda di irriflessiva recidività,[4] espresse alcune idee semplici ma non futili (specie nella seconda memoria più completa e anche più matura) su alcuni dei problemi più ardui e più dibattuti della conoscenza storica, ponendosi immediatamente in quel solco di ricerche di metodologia della storiografia che, approfondite con successo in questi ultimi venti anni dalla filosofia neo-empiristica, si sono dimostrate più feconde e sono anche più accreditate di quelle di origine idealistica.

    So bene, e ho avuto occasione di dirlo più volte, che il positivismo fu in Italia una cattiva filosofia, che diventò facile bersaglio degli idealisti (anche se mi par difficile si potesse inventare una filosofia più diseducativa di quella di Gentile). Ma Salvemini ne fu completamente immune. Se non aveva mai letto un rigo di Rosmini o di Gioberti o di Mamiani, lesse probabilmente poco o nulla di Roberto Ardigò di cui non si trova nei suoi scritti nessuna visibile traccia. Si può dire di Salvemini ciò che è stato detto di Carlo Cattaneo: tenne in pregio non il positivismo ma la positività. Che Cattaneo sia stato il suo grande maestro, una fonte inesauribile d’ispirazione è fuori di dubbio (o, almeno, a me pare indubitabile). Intendiamoci, non perché a una certo momento leggendo Cattaneo (come egli stesso racconta, nel 1899, quando era professore a Lodi, auspice Arcangelo Ghisleri) abbia scoperto il federalismo, in cui credette di aver trovato la soluzione della questione meridionale, o perché ne abbia tratto suggerimenti capitali per il saggio sui Partiti milanesi nel secolo XIX. Egli trovò in Cattaneo tutto quello che andava oscuratamente e faticosamente cercando, uno splendido modello da imitare, in cui si compongono armonicamente un’insuperata chiarezza d’intelletto e di stile, rigore morale e radicalismo politico. Salvemini sarebbe stato Salvemini anche senza l’incontro con Cattaneo; ma poiché l’incontro c’è stato e dopo l’incontro avvenne l’illuminazione – un’illuminazione durata tutta la vita – non ci si può sottrarre alla tentazione di un confronto. Anche Cattaneo combatté per tutta la vita le “scole braminiche” della filosofia italiana in difesa dell’empirismo lockiano e della filosofia civile di Romagnosi; preferiva discutere di ferrovie, di tariffe doganali, del monte delle sete, piuttosto che dei massimi problemi; credeva nella funzione progressiva della scienza e nella forza creatrice della libera intelligenza; era un “problemista” avanti lettera. Fu, più che un uomo d’azione, un intellettuale militante: la sua maggiore opera politica non fu, come accadde a Mazzini, una setta o un partito, ma una rivista attorno a cui adunò una schiera d’intelletti diversamente pensanti ma uniti nella studio di problemi concreti; si accese d’entusiasmo per tutte quelle riforme, per tutte quelle innovazioni istituzionali e tecniche che avrebbero dovuto svecchiare un Paese sotto tanti aspetti ancora arretrato. Intransigente sino alla diffidenza verso le iniziative politiche immediate, fece quasi sempre parte per se stesso e, all’infuori delle memorande giornate della insurrezione milanese, preferì dare consigli inascoltati agli amici che scendere in campo. Meno “pazzo” forse del suo discepolo, ma negli ultimi anni non meno “malinconico”. Fu anche lui, come disse di se stesso Salvemini, “un masso erratico abbandonato nel piano dal ghiacciaio ritiratosi sulle alte montagne”.[5] E in fondo in fondo si compiacque di esserlo.


    (...)



    [1] Dall’articolo La Mafia del Nord (1952), in Opere IV, vol. II, Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfè, Feltrinelli, Milano 1963, p. 645.

    [2] Da un articolo Storia e filosofia, pubblicato su “Il Mondo” del 20 marzo 1955, ora in Italia scombinata, Einaudi, Torino 1959, pp. 351-7. Il passo citato si trova a p. 354.

    [3] Il programma scolastico dei clericali (1907), in Scritti sulla scuola cit., p. 892.

    [4] La prima recensione fu pubblicata con lo stesso titolo del saggio salveminiano, La storia considerata come scienza, nella “Rivista italiana di sociologia”, a. VI, 1902, pp. 273-6, quindi in Primi saggi, Laterza, Bari 1919, pp. 171-5; la seconda in “Quaderni della critica”, n. 13, marzo 1949, pp. 93-5, quindi ristampata in Terze pagine sparse, Laterza, Bari 1955, vol. II, pp. 101-4.

    [5] Una pagina di storia antica cit., p. 129.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini (di N. Bobbio)

    Cattaneo, memore di Galileo e del tutto ignaro di Augusto Comte, amava chiamare la sua filosofia non positivismo ma filosofia sperimentale. Ora, volendo chiudere il discorso iniziato sin dalla prime battute, se proprio si vuole incasellare anche Salvemini, preferirei parlare alla buona e anche per maggior proprietà di empirismo piuttosto che di positivismo. Del resto, verso la fine della vita, forse per influenza dell’ambiente anglosassone in cui trascorse molti anni, espressioni come “empirico” ed “empirismo” gli vengono più frequentemente sotto la penna. Nel “testamento” già ricordato chiama “empirici” gli storici alla cui schiera dichiara di appartenere. E dopo aver spiegato il carattere della loro storiografia conclude: “Questa è la dottrina empirica sul processo storico, disincagliata dai semplicismi e dalle spavalderie degli ‘illuministi’ (secolo XVIII) e dei ‘positivisti’ (seconda metà del secolo XIX)”.[1] “Semplicismi” e “spavalderie”: credo non si potesse dire in modo più appropriato e più chiaro quel che Salvemini rifiutava delle filosofie che gli erano più affini. Solo un povero empirista poteva accettare l’idea che la realtà fosse molto più complessa e quindi inafferrabile di quel che le filosofie sistematiche avevano sinora lasciato credere, e pertanto ogni inno di trionfo, compreso l’inno di trionfo alla scienza che illuministi e positivisti avevano elevato (e il nostro Cattaneo con loro), fosse ormai da mettere a tacere. Un giorno, discutendo l’eterno problema dell’insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie – problema che ogni generazione, che dico?, ogni congresso di filosofi ridiscute partendo ab ovo – disse che se fosse stato in lui avrebbe fatto leggere nel primo dei tre anni la Logica di John Stuart Mill, uno dei testi canonici dell’empirismo.[2] Dico e ripeto “empirismo” e non “positivismo” perché al positivismo siamo abituati ad associare l’idea dello scientismo cioè della scienza che non ha segreti e sfida il mistero. Salvemini aveva fiducia nella scienza, aspirava ad essere uno storico ferrato nelle regole del metodo scientifico, ma era ben consapevole dei limiti della conoscenza scientifica, specie quella storica. Accettava la definizione di John Stuart Mill, appunto, che chiamava la storia e le scienze sociali “scienze imperfette”.[3] Lasciava volentieri e senza invidia allo storico teologo la presunzione di conoscere il corso della storia. Allo storico empirico raccomandava l’esercizio di due virtù: l’umiltà e la tolleranza. L’umiltà di fronte alla propria fallibilità, la tolleranza di fronte alla fallibilità degli altri, anche se poi l’umiltà non doveva confondersi con l’indifferenza scientifica, la tolleranza con l’indifferenza morale. Franco Venturi in morte di Salvemini rievocò la metafora dell’uomo che avanza nella foresta con una candela, con cui Diderot aveva simboleggiato la fragilità e insieme la necessità dell’umana conoscenza. Ma sarà bene non dimenticare che questa metafora era stata usata già da Locke,[4] il principe degli empiristi, e, non a caso, il maestro del suo Cattaneo. Venturi osserva giustamente che Salvemini non pensò mai che la candela illuminasse tutta la foresta: “Era convinto però che quella era l’unica possibile lampada e che il fatto che fosse piccola, il fatto che in qualche momento fosse anche fioca, non toglieva che fosse anche l’unica”.[5] Dove la scienza non arrivava, gli soccorrevano quelli che egli chiamava “gli impulsi morali”. Della radice religiosa di questi impulsi morali non fece mai mistero. Anzi lo dichiarò e confessò più volte: “Le mie risposte [ai grandi problemi della vita morale]” diceva “sono vecchie quanto il mondo: esse possono tutte riassumersi nella vecchia massima di Cristo che noi dovremmo fare agli altri ciò che vorremmo che gli altri facessero a noi”.[6] Nell’ultima pagina del “testamento” confessa di essersi smarrito come un fanciullo nella indagine dei massimi problemi e alla fine di essersi acquietato comportandosi come la vecchiarella di Pascal che non riusciva a dimostrare l’esistenza di Dio ma si regolava come se Dio esistesse. Il suo laicismo fermissimo, aggressivo, intransigente, non fu mai l’espressione di spirito irreligioso e volgarmente anticlericale. Nelle sue memorabili battaglie per la laicità della scuola egli fu ben più intransigente di Gentile riguardo all’insegnamento religioso nelle scuole elementari, in antitesi al laicismo filosofico del teorico dell’attualismo, che aveva per effetto la sostituzione della religione dell’immanenza alla religione della trascendenza e come presupposto la concezione etica dello Stato. Il suo fu un laicismo metodologico, da perfetto empirista, in tutto e per tutto conforme alla concezione liberale dello Stato, per cui lo Stato cessa di essere religiosamente confessionale non certo per diventare confessionale filosoficamente. Cercando di fissare i punti di convergenza e di divergenza con Gentile disse con la solita chiarezza: “Mentre per me la libertà d’insegnamento è mezzo, è fine, tutto, per lui non è che la via necessaria a raggiungere l’unità”.[7] Quando venne il momento di scegliere tra la libertà dell’individuo e l’unità dello Stato i due amici presero strade opposte, e non si sarebbero mai più incontrati.


    ​(...)




    [1] Empirici e teologi cit., p.45.

    [2] Storia e filosofia cit., p. 352.

    [3] Storia e scienza cit., p. 93.

    [4] F. Venturi, Salvemini storico, “Il Ponte”, a. XIII, 1957, p. 1794.

    [5] “Il nostro spirito è come una candela che noi abbiamo davanti agli occhi, e che diffonde luce sufficiente a illuminarci in tutte le nostre faccende. Dobbiamo contentarci delle scoperte che possiamo fare per mezzo di questa luce” (Saggio sull’intelligenza umana, Introduzione, § 5).

    [6] Scienza e storia cit., p. 89. Una delle pagine più interessanti sulla “religione” di Salvemini si trova in una lettera a Giovanni Modugno del 21 ottobre 1946: “Io stesso quando debbo spiegare quali sono le basi della mia fede morale, rispondo senza esitazione che sono ‘cristiano’. E se la gente mi domanda che mi spieghi meglio, dichiaro che sono cristiano perché accetto incondizionatamente gli insegnamenti morali di Gesù Cristo, e cerco di praticarli per quanto la debolezza della natura umana me lo consente; quanto ai dogmi, che sono andati sovrapponendosi nei secoli agli insegnamenti morali di Cristo, non me ne importa proprio nulla; non li accetto, non li respingo, non li discuto: la mia fede in certe norme di condotta morale non dipende dal credere che Cristo era figlio di Dio. Vi sono canaglie che credono alla divinità di Cristo, e galantuomini che non ci credono. Io divido gli uomini secondo che sono canaglie o galantuomini, e non secondo che hanno gli occhi neri o azzurri, o secondo che credono nella divinità di Cristo” (Lettere dall’America cit., vol. I, pp. 389-90).

    [7] Passo citato nella Introduzione a Scritti sulla scuola cit., p. XX-VIII, tratto dalle dichiarazioni di Salvemini al VI Congresso nazionale della Federazione fra gli Insegnanti delle Scuole Medie, Assisi 1908, p. 249.
    Ultima modifica di Frescobaldi; 25-09-21 alle 22:45
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini (di N. Bobbio)

    Insisto sull’empirismo salveminiano, perché ritengo vi sia uno strettissimo nesso tra mentalità empiristica e concezione democratica della vita sociale. Anche in quest’ultimo quarto di secolo la rinascita effimera dell’empirismo ha coinciso con il periodo di maggiore impegno (e illusione) democratica. Mi preme mettere in rilievo che Salvemini se ne rese conto benissimo. Scrisse:


    La democrazia – intendo per democrazia la democrazia dello stupido secolo XIX, e non le democrazie “progressive” o “popolari” di questo secolo intelligente – deve consumare un tempo prezioso nel persuadere maggioranze, spesso illuse e traviate da interessi non confessabili; deve diffidare degli esperimenti non riusciti; spesso si deve ricominciare a contare i nasi in ludi cartacei, come li chiamava il duce che aveva sempre ragione, mentre sarebbe stato più spiccio rompere le teste a manganellate; provare e riprovare; metodi da esaurire la pazienza anche dei santi. La scelta fra i due metodi è morale prima che politica, e dipende dalla dose di rispetto, che uno sente verso l’umanità dei propri simili e verso la umanità di se stesso.[1]


    Non mi è mai accaduto di trovare meglio espresso il rapporto che esiste tra metodo democratico e metodo scientifico, l’idea, che io credo giustissima, della democrazia come metodo o insieme di regole procedurali che sono poi le stesse cui obbedisce la ricerca scientifica, dalla convenzionalità dei postulati (è vero ciò su cui si è d’accordo) alla non assolutizzazione dei risultati (non c’è risultato che non possa essere sottoposto a revisione). L’empirista Salvemini fu un democratico convinto. Il nucleo essenziale del suo pensiero politico fu che al di fuori della democrazia non c’è salvezza per una nazione. I due maggiori momenti della sua azione politica furono la battaglia per il suffragio universale e il suo “no” al fascismo, due battaglie per la democrazia. Chi non capisce o non vuol capire l’anima democratica del pensiero salveminiano, com’è accaduto al suo più recente biografo, al quale forse non importa nulla che in Italia ci sia o non ci sia la democrazia, si preclude la possibilità di dare un giudizio storico sull’opera salveminiana e scade in una denigrazione sistematica che ha del grottesco (ed è anche noiosa). Con questo non abbiamo nessuna intenzione di cadere dalla padella della denigrazione nella brace dell’apologia. Lasciamo volentieri l’apologia alle chiese che hanno bisogno dei loro santi, o ai partiti che crescono all’ombra dei loro capi (più o meno) carismatici. Il Movimento Salvemini non è una chiesa né un partito, e, se Dio vuole, neppure una setta. Niente apologia, ma, ripeto, nei limiti del possibile, un giudizio storico. Orbene un giudizio storico sul pensiero di Salvemini non può prescindere dal tormentato corso della democrazia in Italia, di questo benedetto Paese in cui tutti gridano ai quattro venti democrazia, democrazia, ma pochi ci credono sul serio e pochissimi agiscono di conseguenza. Di questo corso Salvemini è stato un protagonista, con le sue passioni, con la sua impulsività, con la sua irruenza, talora esagerata, coi suoi giudizi talora affrettati (di cui onestamente si pentiva quando i fatti gli davano torto), anche coi suoi errori (“spropositi” o “corbellerie”, come li chiamava), che poi era il primo a riconoscere e a confessare, ma con una fermezza incrollabile, con una vitalità inesauribile, soprattutto con un’intransigenza di fronte a se stesso che resta un esempio per tutti coloro che credono, come noi crediamo, che la battaglia per un’Italia democratica sia una battaglia difficile ma non disperata. Se poi fosse davvero disperata, mi par di sentire la sua voce ad ammonirci: “Guai a coloro che, disperando, si danno per vinti prima di aver combattuto”.


    Norberto Bobbio

    https://www.facebook.com/notes/norbe...67825679927510


    [1] Italia scombinata cit., p.360.
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