Norberto Bobbio e Gaetano Salvemini
La non-filosofia di Gaetano Salvemini, in Gaetano Salvemini nel centenario della nascita, atti della tavola rotonda, Roma 15 novembre 1973, Movimento Gaetano Salvemini, Roma s.d. ma 1974, pp. 12-24; poi in N. Bobbio, Etica e politica. Scritti di impegno civile, Mondadori, Milano 2009, pp. 235-254.
In una citatissima lettera a Piero Gobetti dell’11 agosto 1922, Salvemini scrisse che egli era un illuminista tempratosi nello storicismo di Cattaneo e di Marx, concludendo: “Illuminismo, storicismo, marxismo: queste le basi del mio pensiero”.[1] Confesso che per un nemico acerrimo di ogni filosofema, (o “filofesseria”, com’egli diceva), qual era il nostro Salvemini, tre “ismi” mi sembrano un po’ troppi. Soprattutto poi quando si tratti, come in questo caso, di “ismi” considerati spesso in contrasto tra loro: etichette, per quel che valgono, che ricoprono di solito bottiglie molto diverse tra loro. Troppi, e nello stesso tempo, a causa della loro genericità, troppo pochi. Manca infatti, fra quei tre “ismi”, quello che, liberato ormai da ogni significato deteriore, apparirebbe oggi forse il più appropriato: voglio dire “positivismo”. Personalmente, ho imparato da Salvemini e dal suo maestro Cattaneo a detestare ogni sorta di etichettatura. Credo quindi che il primo compito di un’analisi spassionata del posto che Salvemini occupa nella storia della cultura italiana nella prima metà di questo secolo sia di togliergli di dosso queste camicie di forza che egli stesso si era messo.
Salvemini fu, sì, un illuminista, ma anche il contrario di un illuminista. Illuminista, perché di fronte all’antitesi storica e filosofica illuminismo-romanticismo, che costringe ogni uomo di cultura a prendere posizione, egli si schierò sempre dalla parte del primo dei due termini. Nella sua Storia della rivoluzione francese ammirò l’opera rischiaratrice, riformatrice, preparatrice, dei “philosophes”, e avrebbe voluto tornarci su in una nuova edizione per metterla in maggiore risalto. Credette nella forza creatrice delle idee, della “intelligenza”, come avrebbe detto il suo Cattaneo. In polemica contro la tesi di Chabod, secondo cui l’idea di nazione era nata col romanticismo, delineò in alcune belle e dense pagine il contrasto tra concezione illuministica e concezione romantica dell’individuo e dello Stato, per combattere alcuni luoghi comuni idealistici circa la superiorità dello spirito romantico su quello illuministico.[2] Da buon illuminista concepì la sua azione politica come quella del riformatore di leggi e di costumi. Lottò contro l’arretratezza del suo amato-detestato Mezzogiorno, contro gli avanzi di antichi privilegi, contro ogni forma di fanatismo politico e culturale. Pur non essendo irreligioso fu avverso all’oscurantismo clericale. Però, a differenza dei suoi grandi ispiratori, non fu ottimista. Non credeva alle “magnifiche sorti progressive”: non mi pare sia stato molto notato, ma tra i quattro autori dell’Ottocento ch’egli prediligeva pose Leopardi.[3] Non so se si possa parlare di una filosofia della storia: certo non credeva nell’inevitabilità del passaggio dal regno delle tenebre al regno della luce, dal regno della necessità al regno della libertà. Non vedeva l’uomo uscire definitivamente dallo stato di minorità. Dell’idea del processo indefinito che aveva entusiasmato i filosofi del Settecento e dell’Ottocento disse che “era stata costruita su una base tenue di fatti, cioè sull’esperienza soltanto dei più civili paesi d’Europa nei secoli più recenti”, e pertanto lo storico avveduto non avrebbe dovuto fidarsene.[4] Era solito dire che i pessimisti avevano sempre ragione. Anzi, via via che procedette nella lotta e nella presa di coscienza della complessità dei problemi e della materia sorda su cui bisognava operare, il suo pessimismo diventò sempre più radicale. In una lettera ad Armando Borghi del 13 settembre 1945 scrisse: “Se credessi la umanità più intelligente e meno indifferente al suo stesso male che essa non è, sarei anarchico anch’io. Purtroppo la umanità, qual la vedo intorno a me, cioè i novecento novantanove millesimi, e forse più, dell’umanità, è interessata solo a mangiare, far figli e andare a scommettere alle corse dei cani”. E per questo, concludeva: “Tu sei anarchico, e io sono un povero disgraziato democratico della scuola antidiluviana dura a morire”.[5]
Storicista: in che senso? Più ancora che illuminismo, storicismo è una espressione dai molti significati, anche contraddittori tra loro. Così stra-usata, e mal-usata, da amici e nemici, che sarebbe ora di metterla da parte. Se per “storicismo” s’intende quel che s’intendeva nel linguaggio filosofico italiano, che egli aborriva, la concezione del mondo per cui “la realtà è la storia”, Salvemini, di questa “astrazione stratosferica”, come l’avrebbe chiamata se mai gli fosse capitata fra le mani, non avrebbe saputo che farsene, e se avesse saputo che per essere chiamati a buon diritto “storicisti” occorreva dichiararsene convinti, avrebbe rinunciato volentieri a fregiarsi di quel titolo. Gli idealisti avevano divulgato un altro significato di storicismo, secondo cui essere storicisti voleva dire tener fermo il primato della storia su ogni altra forma di sapere sino a giungere all’identificazione di storia e filosofia. A parte il fatto che anche questi concetti erano un prodotto tipico di quella “fabbrica del buio”, in cui, secondo Salvemini, consisteva la filosofia idealistica (e più passano gli anni e più gli do ragione), e quindi non erano comprensibili al “passerotto” che egli era, non condivideva affatto quella tesi, anzi aveva un’idea completamente diversa, per non dire opposta, della storia. Egli non aveva mai disgiunto – cosa abominevole per un idealista – la storia dalla sociologia. Se la storia doveva essere scienza non poteva esserlo se non nel senso in cui erano scienze le più progredite scienze naturali. Se la storia doveva essere credibile, doveva mettersi al passo con la metodologia scientifica più progredita. Insomma la concezione della storia cui egli aveva aderito e gli veniva per linea direttissima dal positivismo era proprio l’opposto della concezione idealistica, cioè di quella concezione donde era nato il nuovo termine “storicismo”. In una delle ultime pagine, che il Vivarelli pubblicandole ha chiamate il suo “testamento”, egli distinse due tipi di storici, gli empiristi, alla cui schiera egli sosteneva di appartenere, e i teologi. I primi guardano ai “risultati”, i secondi cercano anche i “fini”, perché sanno o credono di sapere che la storia ha un disegno oscuro ma perscrutabile.[6] Non c’è dubbio che in tutti i sensi possibili di “storicismo”, gli storicisti sono i secondi. I primi sono puramente e semplicemente degli storici. Salvemini non fu uno storicista ma uno storico, uno storico di razza, di sicuro intuito, di solido mestiere, che a ventisei anni scrisse un’opera di storia medioevale che ha fatto epoca, e trenta una storia della Rivoluzione francese – un argomento da far tremare – che fu elogiata da Albert Mathiez.
Sul marxismo di Salvemini si è già detto tutto, e qualche cosa di più. Nel senso che oggi si dà a “marxista”, inteso come seguace di una dottrina più o meno compiuta e completa, che si fa risalire a Marx, Salvemini non fu un marxista, per la semplice ragione che egli non fu un dottrinario di alcuna dottrina.[7] Dei dottrinari diceva che erano le persone più pericolose del mondo, e se ne stava alla larga.[8] Com’è noto, dalla lettura giovanile di alcune opere storiche di Marx, trasse l’ispirazione a scrivere una storia delle classi sociali in Firenze nel secolo XIII. Ma quando poi si trovò ad affrontare la storia del fascismo, cui dedicò forse alcune delle maggiori sue opere di storico, non ne diede esclusivamente, come pur fecero altri, un’interpretazione rigidamente classistica. L’interesse per Marx e per il marxismo si andò attenuando lungo gli anni: né sembra avesse letto, prima o poi, le opere maggiori, che di fatto non cita mai. Anche negli anni giovanili, del resto, non prese alcuna parte alla disputa intorno al marxismo teorico, che scoppiò alla fine del secolo, e fu una disputa essenzialmente filosofica, di cui è difficile scorgere il nesso con il socialismo e con la storia del movimento operaio e delle lotte del lavoro. Salvemini fu, almeno nei primi anni della sua milizia politica, socialista, ma più socialista che marxista. Anzi, con l’andar del tempo il marxismo diventò per lui uno dei tanti “ismi”, da cui una persona di buon senso doveva fuggire come la peste, una forma d’indottrinamento che rendeva politicamente intolleranti e mentalmente sterili (e presuntuosi). “Il marxismo è un filtro meraviglioso per svegliare le anime dei dormienti. Ma chi ne abusa, rimbecillisce.”[9] (Sarà bene, però, non dimenticare che questa frase fu pronunciata nel 1949, quando il marxismo s’identificava con lo stalinismo). Com’è stato recentemente osservato dall’ultimo suo biografo,[10] egli arrivò al marxismo non tanto attraverso Labriola, che era (come dirà molto più tardi) “con rispetto parlando, un filosofo”,[11] ma attraverso Loria. Curiosamente il De Caro, che ha fatto questa osservazione, non cita il passo a questo proposito più significativo che si trova in Storia e scienza, opera della maturità, là dove si legge che “Marx […] formulò la legge che tutti i mutamenti sociali, economici, politici, giuridici, intellettuali, morali e religiosi, sono l’effetto di mutamenti della tecnica della produzione”.[12] Alla tesi marxiana della storia come storia di lotta di classi contrapposte, andò sovrapponendosi, sino a prevalere, con gli anni, a contatto immediato con lo svolgimento della lotta politica in Italia, la tesi paretiana e moschiana secondo cui la storia è il teatro dove si agitano non le classi sociali ma le classi politiche o élites in lotta per il predominio. Mosca aveva recensito con molti elogi, se pur con qualche riserva sulle conclusioni politiche, la Storia della rivoluzione francese,[13] poi, quando aveva pronunciato in parlamento il suo discorso contro il suffragio universale, aveva criticato garbatamente il “suo amico personale” Salvemini.[14] Il quale, d’altro canto, aveva trovato in Mosca un alleato nella campagna contro la guerra in Libia. In quel compendio delle sue riflessioni sul mestiere di storico, che è l’operetta scritta negli Stati Uniti nel 1938, Storia e scienza, dopo aver esposto la legge moschiana delle minoranze organizzate, commenta: “S’io non erro, tutta la storia corrobora la legge di Mosca”.[15] L’adesione alla teoria delle élites serve forse a far capire meglio il carattere delle sue battaglie che furono sempre dirette contro le classi politiche di volta in volta dominanti, quella giolittiana, quella fascista e quella post-fascista – i “politicanti” di turno, come paretianamente li chiamava[16] - e permette anche di comprendere meglio l’obiettivo principale delle sue battaglie culturali, specie quelle che egli combatté in prima persona dalle pagine dell’ “Unità”, volte alla formazione di una nuova classe politica fatta di esperti e non di ideologi, da sostituire a quelle corrotte che avrebbero condotto il Paese alla rovina (e lo condussero). Dopo la Liberazione, più esasperato che mai per tutti i compromessi in cui i partiti anche della sinistra si erano lasciati coinvolgere nel dar vita a una democrazia falsa, fragile e precaria, ripeté, con una ostinazione che gli stessi suoi amici trovarono esagerata e talvolta ingiusta, l’accusa che fosse necessario preparare un gruppo di giovani – ancora una volta un’élite – disposta all’astinenza dalla politica di oggi per la conquista del potere con accresciute esperienze e competenze, domani.[17]
Fu Salvemini un positivista? Da parte mia, non avendo più il complesso di inferiorità dei positivisti superstiti dopo il massacro fattone dagli idealisti e dagli irrazionalisti, nei primi anni del secolo, sarei tentato di rispondere di sì. Non tanto per la formazione ch’egli ebbe negli anni fiorentini, in quella università di Firenze, dove si celebrava negli studi storici un severo metodo positivo e dove uno dei suoi maestri, Pasquale Villari, grazie alla memoria La filosofia positiva e il metodo storico (1866), fu elevato a padre del positivismo italiano;[18] non tanto per le letture che egli dichiarò di aver fatto in quegli stessi anni di tutte le annate della “Rivista di filosofia scientifica”; ma perché egli rimase tutta la vita non filosofo di quella non-filosofia che era, mi si passi il bisticcio, la filosofia più genuina di un giovane che era stato educato al metodo positivo. Chi abbia una certa familiarità con la filosofia di Pareto, di cui Salvemini aveva letto il celebre Cours, istigato dai due paretofili, con i quali ebbe dimestichezza, Carlo Placci e Francesco Papafava,[19] troverà lo stesso atteggiamento di rifiuto delle metafisicherie, quasi le stesse battute, lo stesso, in parte infastidito in parte divertito, “non ci capisco niente”. Nella corrispondenza fra Pareto e Croce, testé pubblicata, sembra di assistere a un dialogo di sordi e lo stesso Pareto lo attesta: “Proprio tutte le parole da me usate, sono da voi intese in senso diverso da quello che hanno per me […] È proprio il dialogo: dove andate? vendo pesci”.[20] È il solito ritornello: voi siete un metafisico, io un empirico; voi avrete ragione dal vostro punto di vista ma io non capisco che cosa vogliate dire. Questa non-filosofia non era affatto, come si va ripetendo, l’aborrimento delle idee generali (dal canto suo Pareto d’idee generali ne aveva a bizzeffe, forse troppe), o la resa a discrezione dei fatti: Salvemini ha su questo punto idee molto precise. Coloro che vogliono fatti e soltanto fatti, sono gli eruditi, non sono gli storici. Chiunque scriva libri di storia senza idee generali è un raccoglitore di notizie, non uno scrittore di storia. Ciò che il metodo positivo gli aveva insegnato erano soprattutto due cose: primo, che le idee generali debbono essere messe alla prova dei fatti e se la prova non riesce debbono essere scartate anche se il loro autore per avventura fosse ad esse molto affezionato; secondo, che i fatti debbono essere accertati col metodo del “trial and error” che aveva fatto progredire le scienze della natura, e non dedotti dalle idee generali, come si diceva avesse fatto quell’hegeliano che, dovendo scrivere un trattato sul cammello, non si era recato sul posto a studiare i cammelli dal vero ma si era chiuso nel suo studio a dedurre i caratteri del cammello dalla natura delle cose. In un Paese di dottrinari, in un Paese in cui anche il marxismo era stato (ed è tuttora) una bella occasione per una disputa filosofica, questa non-filosofia che era poi la filosofia positiva, era, è stata e sarebbe stata se avesse trovato un terreno più accogliente, una salutare reazione. (Chi vive quotidianamente l’esperienza delle nostre università, specie in questi anni di effervescenza ideologica, sa che il discettare su ciò che ha veramente dello Marx sembra molto più importante che l’affaticarsi a conoscere come siano andate realmente le cose).
Salvemini scherzava volentieri su questa sua assoluta cecità filosofica, come quando racconta che Gentile, che egli conobbe nel 1907 al congresso napoletano della Federazione insegnanti scuole medie e con cui strinse subito una forte e calda amicizia,[21] voleva convincerlo che anche lui era filosofo perché ogni uomo è filosofo, se pure in forma incosciente, e commenta: “Se così stanno veramente le cose, io sono sempre rimasto alla fase dell’incoscienza. Dicono che la filosofia è il pensiero che pensa se stesso. A me il semplice pensare un pensiero costa tanta fatica, che dopo averlo pensato non mi resta più lena per costringerlo a pensare se stesso”.[22] Scherzava ma diceva in realtà cose molto serie.
(...)
[1] Citata nella Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Feltrinelli, Milano 1961, p. XXVIII, e riprodotta in facsimile innanzi all’edizione di La rivoluzione francese, a cura di F. Venturi, in Opere II, vol. I, Feltrinelli, Milano 1962.
[2] Il Risorgimento (Lezioni universitarie), in Opere II, vol. II, Scritti sul Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 542 e sgg.
[3] “Il popolo italiano – per quanto io possa giudicare – ebbe solo quattro uomini di genio nel secolo XIX: Leopardi, Cattaneo, Cavour e De Sanctis. Manzoni, Mazzini, Carducci li metterei fra gli uomini di second’ordine” (Premessa a Scritti sul Risorgimento cit., pp. 9-10).
[4] Storia e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1948, p. 36.
[5] Lettere dall’America, Laterza, Bari 1967, vol. I, pp. 170-1.
[6] Empirici e teologi, “Il Ponte”, a. XXIV, 1968, pp. 44-5.
[7] Anche Armando Saitta, che fra gli studiosi di Salvemini è colui che insiste maggiormente su una interpretazione marxistica per lo meno dei primi scritti, non giunge sino al punto di considerare Salvemini un marxista, come lo s’intenderebbe oggi (vedi L’ideologia e la politica, in AA. VV., Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959, in particolare pp. 46-55).
[8] Val la pena riportare tutto il brano di una lettera a Ugo Guido Mondolfo dell’11 gennaio 1947: “Beninteso che il tempo da voi perduto in questi ultimi diciotto mesi non doveva essere solamente impiegato a pestar l’acqua nel mortaio delle formule astratte. È questa una malattia endemica in Italia: la smania delle discussioni nel vuoto. Ti ricordi i bei tempi quando i congressi socialisti italiani discutevano a perdifiato se votare ‘sistematicamente’, no? Saragat continua tenace quella tradizione. (Guido Calogero ha portato quell’arte a eccelse cime, e si dovette anche a quell’arte la fine del Partito d’azione). I dottrinari sono la gente più rispettabile e più disastrosa di questo mondo” (Lettere dall’America cit., vol. II, p. 9. Il corsivo è mio).
[9] Una pagina di storia antica, “Il Ponte”, a. VI, 1950, p.131.
[10] G. De Caro, Gaetano Salvemini, UTET, Torino 1970, pp. 22-6.
[11] Questo giudizio su Labriola si trova in una lettera inedita a Leo Valiani, dell’8 gennaio 1954, citata dal De Caro, op. cit., p. 23.
[12] Storia e scienza cit., p. 54.
[13] Questa recensione apparve su il “Corriere della Sera” del 6 luglio 1908, ed è ora stata pubblicata da A. Lombardo in G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale, Bonanno, Catania 1971, pp. 592-7.
[14] G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale cit., p. 137. Salvemini parla di Mosca come di “un uomo di grande ingegno e di profonda cultura storica e osservatore acuto e spregiudicato dei fatti sociali” (Scritti sulla scuola, in Opere V, a cura di L Borghi e B. Finocchiaro, Feltrinelli, Milano 1966, p. 632).
[15] Storia e scienza cit., p. 97. Passi d’ispirazione moschiana se ne trovano parecchi nelle opere di Salvemini dal periodo dell’ “Unità” in poi. Due di questi passi sono citati da Saitta, op. cit., pp. 90, 92 e 94 (nota).
[16] Il problema dei rapporti tra Salvemini e Pareto meriterebbe una trattazione a parte. Notizie si possono trarre dal primo volume dei Carteggi, sinora pubblicati, che comprende il periodo 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Feltrinelli, Milano 1968. Salvemini entrò in rapporto con Pareto attraverso i due suoi amici paretiani, Carlo Placci e Francesco Papafava. Fu gradito ospite della villa di Céligny nel gennaio 1911. In Storia e scienza cita il Trattato di sociologia generale, nella traduzione inglese, il cui titolo, Mind and Society, viene ritradotto in italiano con Spirito e società, cioè con una traduzione che rende incomprensibile il riferimento (p. 50).
[17] Basti per tute questa citazione da una lettera a Franco Venturi, del 17 settembre 1946: “A me pare, caro Franco, che la sola cosa che possiate fare voi appartenenti alla generazione al di sotto dei quarant’anni è di riconoscere che cogli uomini che hanno più di sessant’anni non c’è più niente da fare in Italia. È una generazione assolutamente marcia e disfatta. D’altra parte, questa generazione spregevole non può essere sostituita da un momento all’altro. È necessario lasciar tempo al tempo. E bisognerebbe che i migliori della vostra generazione si rendessero conto che saranno necessari almeno dieci anni prima che sia possibile in Italia ad un paio di centinaia di persone fra i venticinque e i quarant’anni di farsi avanti e spazzar via tutto il vecchiume. Decidetevi una buona volta a riconoscere che occorreranno dieci anni di lavoro intellettuale, paziente, metodico, tenace, per preparare quelle due o trecento persone che debbono compiere nel secondo risorgimento italiano la funzione che compirono fra il 1859 e il 1875 le due o trecento persone le quali costruirono l’Italia. Bisogna che vi decidiate per dieci anni a rimanere a denti asciutti, a non diventare né consiglieri comunali né deputati. Ma bisogna che vi teniate pronti fra dieci anni a farvi avanti risolutamente e a diventare senza transizione primi ministri, ministri, ambasciatori, papi – tutto quello che è necessario per dirigere un Paese. Sappiate aspettare” (Lettere dall’America cit., vol. I, p. 381).
[18] Su questo aspetto della formazione di Salvemini vedi soprattutto E. Garin, Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo, nel volume di AA. VV., Gaetano Salvemini cit., specie pp. 154-73. Dello stesso Garin, vedi anche i saggi sulla cultura fiorentina dell’ultimo secolo nel volume La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Laterza, Bari 1962, ove è ristampato anche il saggio su Salvemini sopra citato.
[19] In una lettera del 14 ottobre 1896 Papafava invita Salvemini a mandare la sua memoria sulla dignità cavalleresca (La dignità cavalleresca del Comune di Firenze, 1896) a Pareto con queste parole: “Pareto non è socialista ma non si può dire davvero che faccia la corte alla borghesia. Le mando Il grido del popolo con un suo articolo. Pareto è fatto apposta per apprezzare tutto il valore economico del Suo lavoro” (Carteggi cit., p. 34). In una lettera del 16 novembre Salvemini chiede in prestito a Placci il Cours di Pareto (ivi, p. 38). Manda a Pareto in omaggio i Magnati e popolani, e ne riceve due cartoline con un giudizio lusinghiero (ivi, p. 106). Dal canto suo Pareto cita questo libro nell’articolo Un’applicazione di teorie sociologiche (1900), ora in Scritti sociologici, a cura di G. Busino, UTET, Torino 1966, pp. 265-6. Per un giudizio di Pareto sul libro (“quel tuo amico mi pare avere una fissazione colla sua lotta di classe! Se piove, sarà per cagione della lotta di classe!”) e per la difesa di Salvemini (“Se la pioggia fosse un fenomeno sociale e fisico, sarebbe anch’essa una manifestazione dell’eterna lotta economica fra i gruppi umani, divisi o verticalmente (popoli) o orizzontalmente (classi)”), vedi ancora i Carteggi cit., rispettivamente, pp. 44 e 48.
[20] G. De Caprariis, Trentadue lettere di Vilfredo Pareto a Benedetto Croce, “Revue européenne des sciences sociales”. Cahiers Vilfredo Pareto”, a. X, n. 27, p. 158.
[21] Di questa subitanea e calorosa amicizia vi sono parecchie testimonianze nel primo volume dei Carteggi, ma può bastare la seguente: “La nostra amicizia, caro Gentile, non è di quelle che sieno destinate a dissolversi, perché non si fondano né su un’intesa personale né su una semplice comunanza di opinioni. Essa è nata da una omogeneità di carattere morale, la quale non può mutare come mutano gl’interessi e le idee. E da essa noi riceviamo sempre il maggiore di tutti i vantaggi: un reciproco miglioramento morale” (p. 382).
[22] Una pagina di storia antica cit., p. 127.