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Un paziente 70enne malato terminale di Sla è morto a Montebelluna durante il sonno: aveva chiesto la sedazione profonda di fronte a una sofferenza acuta. Una notizia usata strumentalmente?

«Mio marito era lucido, ha fatto la sua scelta, e noi gli siamo stati accanto». La signora Bettamin racconta gli ultimi momenti del marito Dino, 70 anni, macellaio di Montebelluna (Treviso) da cinque malato di Sla, che dopo l’ennesima crisi respiratoria e in quadro clinico di terminalità ha chiesto di poter essere sedato: troppa la sofferenza fisica e psichica, tanto da far dire agli operatori dell’istituzione privata che lo assisteva a domicilio – Casa con Cura – che si trattava di «una chiara richiesta di sedazione basata su un chiaro sintomo refrattario, dato da angoscia incoercibile anche con farmaci e trattamenti psicologici, nonostante tutta l’umanità e la professionalità con cui è stato assistito nelle varie fasi della patologia».
Dopo una prima sedazione palliativa, si è dunque proceduto ad altre somministrazioni, con il paziente che ha confermato il suo desiderio di morire nel sonno. E così è accaduto. Sin qui, è la cronaca di un episodio come tanti se ne verificano in reparti ospedalieri, case private e hospice. Si chiama sedazione terminale, o profonda, e viene praticata quando la situazione del paziente non lascia alcuna speranza: la morte è prossima, e ogni intervento medico rischia di aggravare l’evidente sofferenza fisiologica ed emotiva. Dunque si sospendono le terapie, ormai inutili se non deleterie, e si cessa anche la nutrizione assistita (come nel caso del settantenne veneto) ricorrendo alla sedazione che però non è la causa la morte, sopraggiunta per il decorso della malattia non più arginata. Tutto secondo la legge, l’umanità, la scienza medica e le volontà del paziente, quando sia chiaro che non si tratta di una richiesta di suicidio (il malato di Sla non ha mai chiesto che gli fosse staccato il ventilatore che gli consentiva di respirare). Dov’è allora la notizia? Qui inizia un’altra storia.
Dov'è la notizia?

La morte del signor Dino infatti è rimbalzata dalla stampa locale sulle agenzie nazionali con un titolo equivoco («Malato di Sla muore facendosi addormentare») e con l’apparato grafico che segnala una notizia urgente. Di qui alle posizioni di maggiore evidenza nei siti dei principali media il passo è stato breve («Ha chiesto di morire facendosi addormentare», «primo caso in Italia», in qualche caso con l’apparato fotografico di manifestazioni radicali pro-eutanasia). Nel frattempo comincia ad affiorare qualche voce medica che ridimensiona il caso. È sufficiente consultarsi con qualche neurologo o palliativista infatti per capire che la sedazione palliativa viene normalmente praticata quando il quadro clinico è quello di pesante sofferenza in un paziente terminale descritto dalla situazione di Dino Bettamin, la cui famiglia non a caso, travolta da un interesse mediatico non voluto e inatteso, ha chiesto rispetto per il suo lutto. La fine di un uomo alla fine di una lunga sofferenza non tollera alcun uso strumentale, anche solo evocato, per tentare di farne l’oggetto di una contesa polemica. Resta allora il significativo equivoco su una morte che si è fatto credere provocata da un intervento attivo dei medici, e non – com’è accaduto – per cause naturali, senza prolungare una vita ormai purtroppo giunta al termine, alleviando il dolore. Come se a Montebelluna fosse andato in scena un caso di eutanasia "clandestina", la prima esecuzione di un testamento biologico con volontà del paziente di farla finita. Non è così, ed è appena il caso di ricordare che quando si tratta della vita e della morte di una persona è indispensabile muoversi con estrema cautela e rispetto prima di ingenerare idee fuorvianti.
Il caso Welby e la legge

Non è difficile peraltro identificare le differenze rispetto al caso Welby: allora infatti il paziente e militante radicale, che era malato di Sla ma non terminale, chiese di essere sedato ma per poter affrontare il distacco del ventilatore che l’avrebbe fatto morire soffocato e che fu praticato da Mario Riccio, medico e anch’egli attivo tra i radicali a favore dell’eutanasia, che oggi spiega come il caso di Montebelluna sia «perfettamente nei paletti della legislazione italiana».
Certo, esattamente nelle stesse ore in cui la notizia dal Veneto cominciava a circolare su scala nazionale in Commissione Affari sociali della Camera era in corso una discussione serrata sul rapporto tra volontà del paziente e doveri del medico, regolamentato dal controverso comma 7 dell’articolo 1 del disegno di legge sul fine vita, atteso a giorni all’esame dell’aula. Ma forse è solo una coincidenza...

Gigli (Movimento per la vita): forzatura a fini ideologici

"Il tentativo di far passare la vicenda di Montebelluna per il caso con cui viene sdoganata l'eutanasia in Italia è semplicemente una forzatura a fini ideologici", scrive in una nota il deputato Gian Luigi Gigli (gruppo Democrazia Solidale-Centro Democratico) e
presidente del Movimento per la Vita Italiano. "Il paziente ha continuato a servirsi del respiratore fino alla fine - scrive Gigli - Quando la morte è ormai imminente, l'idratazione e la nutrizione non hanno più molto senso, anche quando sono ancora tollerate dal paziente. Fare di questo caso un cavallo di troia dell'eutanasia è assolutamente improprio. L'eutanasia, seppure per ora solo nella sua versione omissiva, sta invece per essere legiferata con la legge sulle Dat".

Il parroco: ha portato la sofferenza con grande coraggio


Parole di affetto vengono dal parroco del Duomo di Montebelluna, monsignor Antonio Genovese: “Spero di sentire solo parole di vicinanza e rispetto in questi giorni, per Dino e per tutte le persone coinvolte, non giudizi sommari. Io stesso da Dino e dal suo modo di vivere la sofferenza sono stato edificato”.
“Ho seguito Dino in questi due anni e mezzo, da quando sono arrivato a Montebelluna – racconta il parroco -. Era una persona buona, che ha portato la propria sofferenza con grande coraggio, ha combattuto insieme alla moglie e ai figli, ma ultimamente soffriva moltissimo, per le crescenti difficoltà causate dalla malattia e per la perdita di alcune persone care. Di fronte a queste sofferenze crescenti e senza nessuna possibilità di migliorare, ha chiesto semplicemente di essere accompagnato attraverso il sonno verso l’incontro con il Signore, sempre sostenuto con fiducia e forza dalla sua famiglia. Era una persona di grande fede – sottolinea monsignor Genovese -, pochi giorni fa ha chiesto di ricevere il sacramento dell’Unzione degli infermi. Era lucido, abbiamo pregato insieme. Si è davvero fatto accompagnare alla Casa del Padre, con fiducia e abbandono. Non è stata staccata nessuna spina, la sedazione profonda è prevista dalle cure palliative per attenuare il dolore”.
“La morte per noi cristiani non è un rifiuto della vita, e non lo è certo stato per Dino – aggiunge il parroco, che domani, mercoledì, celebrerà il funerale di Bettamin – ma è un andare incontro al Signore. Chi gli è stato accanto ha potuto leggere, in questo suo desiderio di andare al Padre, lo stesso desiderio espresso da Giovanni Paolo II, al termine della sua vita, quel ‘lasciatemi andare’ frutto di fede e di abbandono nelle braccia del Signore della vita”.