Da G. Spadolini, “L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento”, Le Monnier, Firenze 1978, pp. 500-504.




È stato l’amico Giuseppe Galasso, sulle colonne della Stampa, ai primi di agosto del ’76, a parlare per primo dei risultati del 20 giugno come di una specie di 18 aprile comunista, domandandosi quali riflessi potrà avere tale svolta non solo negli schieramenti politici ma anche nella vita della cultura. L’egemonia democristiana sui partiti laici, derivata dal voto dell’aprile ’48, è destinata a ripetersi oggi – ecco l’interrogativo di Galasso – con una diversa e meno condizionabile forma di egemonia del PCI sulla sinistra non comunista?

Almeno per quanto riguarda il piano della cultura non ci pare giusto parlare di “egemonia” democristiana rispetto ai partiti laici né per il periodo centrista, succeduto al 18 aprile, né per quello del centro-sinistra, che per mille vincoli, di ispirazione ideale, di vibrazione pluralista, di mediazione “coalizionista”, si collega al centrismo. Lo stesso Galasso, da quello storico accorto e sagace che è, attenua subito dopo il suo interrogativo riconoscendo che sul piano della direzione della vita culturale e civile i laici “poterono contestare efficacemente e il più delle volte sopravanzare largamente gli sforzi di presenza e di elaborazione culturale della DC.
Io direi qualcosa di più. Nei governi a prevalente impronta democristiana, non ci fu mai una traduzione delle regole della maggioranza politica in termini, o in sforzi, di maggioranza culturale. Il tentativo di contrapporre una cultura cattolica ad una cultura laica durò poco e si limitò, fra il ’47 e il ’50, all’ambiente ecclesiastico, alle punte integraliste dell’Azione Cattolica, a qualche filone clericale, molto più che ai nuclei di credenti riuniti all’ombra dello scudo crociato, nel clima dell’arbitrato degasperiano.

È sempre stato difficile parlare in Italia di una cultura cattolica; ma quella che emergeva, all’indomani della liberazione, dal naufragio della guerra e della sconfitta era troppo legata agli schemi concordatari, alle collusioni o alle complicità col fascismo, ai crismi e alle benedizioni dell’Accademia d’Italia per potersi affermare con qualche diritto di cittadinanza nel gran travaglio e tormento di revisione che seguì alla Resistenza.

La cultura di Sturzo esule era più vicina a quella dell’antifascismo laico che non alle fonti del cattolicesimo indigeno (non a caso Pannunzio invitò Sturzo a collaborare al Mondo, e Pio XII si rifiutò sempre di riceverlo). I fermenti, autentici, del cattolicesimo sociale di Dossetti e del gruppo di Cronache sociali restarono limitati a settori minoritari di credenti, apparvero quasi una forma di eresia: rispetto alla cultura cattolica ufficiale, quella consegnata nei seminari, nelle case editrici ortodosse, in un mondo dove, con l’eccezione della “Morcelliana” tutto ristagnava in una ripetizione di schemi devozionali alternati a stanchi e logori schemi di potere.

Durante gli anni centristi, non ci fu neanche un serio confronto fra la cultura laica e la cultura cattolica. Fu la prima, nelle sue due versioni, la crociana e la gramsciana, che tenne il campo, che dominò la ripresa degli studi, nelle Università e non solo in quelle. Nessuna casa editrice importante era cattolica; non ci fu un grande giornale indipendente che avesse un direttore “cattolico”, almeno in senso democristiano. Perfino la “filosofia” del centrismo fu più laica che cattolica: talvolta la DC appariva come la maggioranza degli “ascari” giolittiani (e anche il rinnovato mito di Giolitti, fiorente negli anni cinquanta, ebbe matrici laiche, con avalli pure comunisti). Negli atenei solo i cattolici liberali – variante risorgimentale - erano rappresentativi e operanti: scarse, e quasi segnate a dito, le eccezioni “integriste”.

Il partito democristiano avvertì una certa insoddisfazione per una situazione che aveva radici lontane; lo scoppio della collera si tradusse nell’espressione scelbiana del “culturame”. Qualcuno sognò di ricostruire l’Accademia d’Italia (ricordo una polemica, asperrima da parte laica, sulle colonne del Mondo); qualche altro vagheggiò fondazioni mai nate o si chiuse in isolati fortilizi para-accademici, tipo la “Pro Deo”. Di fatto il potere politico, immenso, tentacolare, della DC centrista non si tradusse né in un conforme potere culturale né in uno scontro, diciamo ad armi pari, con la cultura laica (rigurgiti clericali a parte).

La grande svolta, per la cultura cattolica, coincise col Concilio. Non a caso gli anni del Concilio sono gli stessi del centro-sinistra. Il dialogo fra laici e cattolici, esaurita l’esperienza centrista, riprese su nuove e più larghe basi. La cultura cattolica cominciò a secolarizzarsi; quella laica acquistò una nuova e più sottile comprensione delle esigenze del mondo della fede. Altro che l’incomprensione della cultura laica di cui si è parlato di recente da taluni cattolici del dissenso, opponendola a una specie di “comprensione del marxismo verso la Chiesa”, che arrivò tanto più tardi e per motivi tanto spesso strumentali. Vorrei rintracciare un solo segno di comprensione del mondo cattolico nella storiografia comunista degli anni stalinisti: perché ci fu uno stalinismo anche in Italia!

Solo nel ’60 si può parlare di un confronto fra le tre culture, la laica, o democratico-liberale, la marxista, la cattolica (che esce dalla retorica dei seminari o dei Comitati civici, che entra in un tentativo di revisione, con moltissime prevalenti influenze straniere ma anche con qualche apporto originale, di casa nostra). Fino e oltre la contestazione.

Non vorremmo che il pericolo, sfuggito allora, si ripresentasse adesso in altre forme. Il compromesso storico – non parliamo adesso in chiave politica – è una formula di alleanze e di schieramenti, larghissimi magari, ma schieramenti, i cui contenuti sono tutti da riempire, anzi da definire. Non ha niente a che fare col piano della cultura, non pone problemi di “direzione” culturale se non in una sua interpretazione “integralista”, anzi di “doppio integralismo” (da cui l’attuale partito di Berlinguer rifugge).

Il mondo laico, per esempio, ha infinite carte nella sua tradizione, nell’intatto fervore della sua ricerca, nella sua stessa concezione della storia, per resistere al tentativo di “egemonia” culturale del PCI, qualora questo fosse perseguito in maniera ancora più massiccia di quanto è stato fatto finora, con la tecnica degli “indipendenti” sottilmente illustrata da Galasso, tecnica proiettata in entrambe le direzioni, la laica e la cattolica.

Galasso teme che la sinistra laica non comunista non riesca a resistere né all’egemonia politica né soprattutto a quella culturale del PCI. Si domanda addirittura se il raccordo “con le espressioni della società differenziata, pluralista, occidentale – cito Galasso – non possa essere ottenuto attraverso la generalizzazione del “sistema” degli indipendenti, in modo da assicurare la rappresentanza di tutte quelle componenti all’interno dello schieramento comunista, anziché nell’ambito dello schieramento naturalmente pluripartitico.

È un dubbio che io non avrei. Con tutto il rispetto degli indipendenti di sinistra, la loro cooptazione in “un partito che non è un partito” (l’ha detto Anderlini, sempre sulla Stampa), con gli esclusivi voti del PCI, non assicura le condizioni di una dialettica né politica né culturale.

Esistono forze culturali in Italia che hanno avuto un peso decisivo nella stessa evoluzione e revisione, tutt’altro che conclusa, del PCI. Più di dieci anni fa, La Malfa domandò ai comunisti: “Come fate a conciliare le regole di un’economia collettivista e dovunque pauperista con la logica di una società industriale avanzata?”. Fu il famoso “confronto sulle cose”, che qualcuno ha scambiato e continua a scambiare per cedimento al comunismo. E sul piano ideologico? Il dibattito in corso sul “pluralismo” dimostra che c’è ancora un tratto di strada da percorrere per il PCI prima di approdare a quella logica integralmente pluralista che è tipica dei regimi occidentali e che è estranea non tanto al leninismo quanto al marxismo (come ha rilevato benissimo Gennaro Sasso).

È stato Norberto Bobbio a porre il problema con estrema lucidità nella sua penetrante relazione a Mondo operaio. “Il pluralismo, da qualunque parte lo si prenda, è un corpo talmente estraneo alla tradizione marxista-leninista che non lo può introdurre senza provocare uno scompaginamento in tutta la dottrina. A meno che anche il pluralismo non faccia parte della tattica politica e basta”.

Il confronto culturale deve prescindere dalla tattica politica; altrimenti è finito prima di cominciare. Al posto degli indipendenti avremmo allora “compagni di strada”: un ruolo cui non aspirano né il PRI né il PSI. Fra la cultura liberal-democratica e la cultura marxista, o marx-leninista, c’è un punto di differenziazione tuttora non superabile: è quello che Bobbio ha chiamato “il rifiuto delle soluzioni definitive” (oppure il divario fra “storia laica” e “storia totalizzante”).

In un convegno di intellettuali di terza forza, di cui sono usciti gli atti a cura delle edizioni della Voce (Cultura e democrazia), Leo Valiani ha detto: “La storia per noi è sempre incompiuta; se fosse totalmente compiuta non rimarrebbe nulla da fare”. Ecco perché l’aggettivo “storico” va usato con molta prudenza.


Giovanni Spadolini



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