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    La strategia militare di Adolf Hitler

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    2 novembre 2009

    Autore: Luca Leonello Rimbotti



    È stato appena pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana il primo volume dei Verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra, 1942-1943, cui seguirà un secondo tomo, relativo agli ultimi due anni di guerra. Per la verità, tali rapporti, presentati come «prima edizione italiana dei verbali stenografici delle riunioni di Hitler», erano in buona parte già noti da decenni al lettore italiano. Di essi venne infatti pubblicata in Germania sin dal 1962 una sostanziosa raccolta, tradotta da Mondadori nel 1966 sotto il titolo Hitler stratega. L’introduzione era di Helmut Heiber, il curatore di tutto il materiale dattiloscritto, rinvenuto in gran parte bruciato nel maggio 1945 in una grotta a Berchtesgaden. Le risultanze di questa eccezionale documentazione erano dunque a disposizione degli storici da molto tempo anche in Italia: ma da noi non esiste una seria tradizione storiografica militare, e i giudizi sulla condotta tedesca nella Seconda guerra mondiale e sulle decisioni strategiche di Hitler vengono ostinatamente affidati, anziché ai documenti disponibili, per lo più ai soliti cliché propagandistici e a una divulgazione quasi sempre di infimo profilo.

    Il più classico di questi cliché, che cioè Hitler fosse un dilettante di pratiche militari e alla fine un povero pazzo che vaneggiava davanti alle mappe, è stato da un pezzo demolito dagli storici stranieri. A cominciare da quelli ostili – quasi tutti – come Hillgruber, che nel suo monumentale studio su La strategia militare di Hitler (uscito nel 1965) riconobbe tra i primi che, ad esempio, nel 1939 Hitler non volle affatto la guerra, impostagli dagli anglo-francesi. Risultava inoltre che era in possesso di un’organica strategia mondiale, fortemente realista nel considerare inevitabile non solo la resa dei conti con l’URSS, immediata, ma anche quella con gli USA, da attuarsi in un secondo stadio. E che, una volta costretto alla guerra, condusse le operazioni militari dando prova di ricorrenti «intuizioni geniali», che spiazzarono spesso il suo stesso Oberkommando, legato a concezioni tradizionali e sovente dedito a intralciarne gli ordini.

    Le considerazioni circa le capacità di Hitler al comando militare sono state espresse da molti decenni anche dall’illustre storico militare Percy Ernst Schramm, compilatore del “Giornale di guerra” dell’OKW e curatore, nel 1961, di una piccola parte degli stenogrammi di “conferenze sulla situazione” e di singoli colloqui di Hitler con lo Stato Maggiore, relativamente all’ultimo anno di guerra. Questi documenti vennero tradotti nel 1965 dalla Sansoni col titolo Hitler capo militare. Bene: nonostante l’aperta ostilità di Schramm nei confronti del dittatore tedesco, egli scrisse senza remore che «sarebbe errato sminuire Hitler come stratega. Non si può negare che durante la prima metà della guerra egli aveva concezioni ben determinate, che ottennero il riconoscimento anche da parte di esperti piuttosto scettici; senz’altro esse erano impostate in maniera più ardita di quanto i tecnici avrebbero considerato giustificabile». Fu Alfred Jodl, Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht, a testimoniare a Norimberga che si dovettero esclusivamente a Hitler almeno tre sensazionali imprese strategiche: la fulminea occupazione della Norvegia nell’aprile 1940, la travolgente vittoria sul fronte francese del maggio seguente, dovuta all’inedita combinazione tra mezzi corazzati e aviazione, e infine l’ordine draconiano di non indietreggiare a Est nell’inverno 1941-42, che risparmiò ai tedeschi una rotta colossale.

    A questo si aggiunga quanto affermato più di recente dallo storico Bevin Alexander. Nel suo libro Hitler poteva vincere (pubblicato in Italia da Piemme nel 2002), in un contesto di radicale accusa a Hitler di aver compiuto imperdonabili errori strategici, pure si afferma che «è facile dire che Hitler era pazzo»: più realistico è dire che egli era «anche sensato, possedeva una grande intelligenza e un’abilità politica superiore», e che «aveva collezionato una serie di vittorie che non aveva precedenti nella storia mondiale». Lo studioso ha documentato che l’idea della “penetrazione in un singolo punto” coi Panzer e gli Stukas, allora ignota ai più, era sua, come suo era l’uso di intervenire anche in singoli dettagli operativi: come la presa del forte belga di Eben-Emael, che contribuì in maniera decisiva a scardinare il sistema difensivo alleato nel maggio del 1940. Tale azione di moderno commando venne attuata secondo un piano steso da Hitler in persona, fino al punto di scegliere uno ad uno gli ufficiali e il plotone di genieri da paracadutare sul posto. Sarà stato anche un “dilettante”, avrà avuto anche una “invasata” fiducia in se stesso, fatto sta che, come ha scritto Heiber, «non si possono che considerare fondati molti giudizi espressi da Hitler su questioni militari, sino alla fine della guerra… comunque più assennati di quanto lascerebbero intendere certe versioni date abitualmente da parti interessate». È noto infatti che la pratica di buttare sulle spalle del Führer tutto il peso delle sconfitte, e quella di minimizzarne il ruolo nelle precedenti vittorie, nacque nell’immediato dopoguerra con l’intensa memorialistica cui si dedicarono molti alti ufficiali tedeschi, nell’intento di sottrarsi a giudizi e di risparmiarsi critiche.

    I documenti mettono ordine in maniera definitiva in questa materia. Smascherano la fandonia di un Hitler-macchietta e ci restituiscono un personaggio storicamente credibile. Lucido e presente fino alla fine: «non conduce un monologo e non sottrae la parola a nessuno dei presenti», attesta il generale Fabio Mini, che firma l’introduzione all’edizione goriziana dei verbali… Ma come, non mordeva i tappeti? E non schiumava di rabbia? Niente affatto: «Hitler lascia parlare liberamente e ascolta attentamente». E sempre Mini aggiunge: «Dai verbali… Hitler appare come un gigante… si vede chiaramente che è di una spanna al di sopra di tutti i suoi interlocutori… ciò che viene detto ai generali tedeschi è di una perspicacia e di una lucidità eccezionali. Ai comandanti che sul terreno si confrontano con la disfatta Hitler impartisce lezioni di morale, di politica e di strategia pura…». Chiaro e tondo. Anche per quanto concerne il comportamento di Hitler negli ultimi anni di guerra, le cose vengono aggiustate. Nessun vaneggiamento, non più il paranoico che sbraita a casaccio: fino agli ultimi giorni si riconosce a Hitler – nonostante la spaventosa pressione psicologica, la vita da recluso condotta per anni, l’inevitabile declino fisico e le quotidiane notizie di rovesci – una fredda capacità di giudizio che è nota agli specialisti, ma ignorata dalla divulgazione di massa. Se Mini, sulla scorta di quanto detto da Heiber, scrive che «si può affermare senza timore di esagerare che Hitler fu uno dei più competenti e versatili specialisti di tecnica militare del suo tempo», tali attitudini appaiono intatte fino alle ultime ore nel Bunker di Berlino: «sa che la vittoria può essere perseguita fino all’ultimo, e lo spiega: la vittoria non è mai di chi conquista, ma di chi induce l’avversario a cedere… Per questo anche l’ultimo uomo e l’ultimo ragazzo chiamato a combattere può essere determinante. È una lezione tardiva che tuttavia non si basa sulla retorica o sulla lucida follia, ma su un calcolo razionale…».

    Del resto, come scrisse Hillgruber anni fa, se la fanatica tenuta del fronte orientale permise a milioni di civili tedeschi di sfuggire alla mattanza dell’Armata Rossa, la strategia di resistere ovunque e comunque per guadagnare tempo aveva uno scopo: aerei a reazione, sommergibili a lunga percorrenza, missili del tipo “V” e soprattutto l’atomica erano argomenti concreti. Queste armi sarebbero state in grado di rovesciare l’esito della guerra se solo la Germania avesse potuto contare ancora su una manciata di mesi. Gli studi più recenti (si veda per tutti Rainer Karlsch, La bomba di Hitler) hanno documentato che gli scienziati tedeschi, nella primavera del 1945, erano a un passo dal completamento del lavoro, e che la bomba “americana” di Hiroshima, in realtà, era semplicemente la bomba tedesca di von Braun e Heisenberg, catturati nel maggio ‘45 e messi a lavorare per gli USA. Cosa c’era dunque di “folle” nella strategia della tenuta a oltranza su tutti i fronti? Cosa c’era di “demenziale” nel resistere in una situazione solo apparentemente disperata? E, alla luce di questi dati, non era logica la tattica dei “frangiflutti”, che dichiarava “fortezza” ogni città, rallentando così l’avanzata nemica? Ed era davvero così insensato aspettare, là sotto nel Bunker, che Wenck arrivasse a rompere l’accerchiamento di Berlino ancora il 27 e 28 aprile 1945, se i documenti dimostrano che veramente i resti della 12a armata arrivarono fino ai sobborghi di Berlino e dovettero fermarsi solo perchè mancò loro qualche tanica di benzina per i Panzer?

    Hitler pazzo, Hitler che muove divisioni inesistenti, Hitler che blatera di impossibili controffensive… quante volte abbiamo sentito martellare questa pedestre disinformazione storiografica… Poi si legge (è stato Schramm a scriverlo) che l’impensata ricostruzione del fronte occidentale dopo l’invasione della Normandia fu il frutto degli ordini impartiti da Hitler, che l’evacuazione miracolosa dei Balcani nel 1944 lo stesso, che lasciare una ventina di divisioni in Curlandia era giusto, che fermare i russi a Budapest nel ‘45 ebbe del prodigioso, che Berlino avrebbe potuto esser difesa… e poi gli storici militari riconoscono che il superamento della crisi del 1943 per la defezione italiana fu dovuto solo alla rapidità di decisione di Hitler, che sferrare l’ultima offensiva a Occidente (le Ardenne) e non a Oriente era sensato, che il successo tattico ad Arnhem nel settembre 1944 portava lo zampino di Hitler… che insomma questo “pazzo” che vaneggiava riuscì a fare per anni quello che a Napoleone non riuscì in poche settimane nel 1812 in Russia: evitare che una ritirata sull’onda delle emozioni si trasformasse in collasso rovinoso… considerare il terreno strumento bellico e dunque intendersi di tattica e di strategia. Hitler aveva le sue idee e commise certamente gravissimi errori: la mancata distruzione del corpo di spedizione inglese a Dunkerque (per romantica generosità verso gli inglesi, che non voleva umiliare), la sottovalutazione dello scacchiere nordafricano (anche per deferenza verso l’alleato italiano…), la sopravvalutazione della forza tedesca, che non poteva raggiungere tutti gli obiettivi in un colpo solo… Questi errori gli costarono la guerra. Ma Hitler era talmente preda dei suoi isterismi che, come scrive Mini, «quando si tratta di interessi nazionali e vitali e quando sono in gioco i parametri fondamentali della visione politica della Germania, Hitler dimostra di avere le idee chiare e soprattutto dimostra che nessun altro ha idee migliori».

    Quest’uomo fatto da sé, che non aveva frequentato le accademie militari, ma che aveva come unico riferimento quattro anni di prima linea da caporale, «conosce l’informazione come strumento di guerra, i generali no. Egli conosce l’antropologia sociale dei popoli che ha sottomesso, i generali non se ne curano». Questo “dilettante” aveva «efficaci qualità di comando: fermezza ed energia trascinante. A queste vanno aggiunti un talento quasi fenomenale per memorizzare la letteratura specialistica militare e la padronanza della teoria del sapere storico-militare. Egli possedeva anche intuito per le questioni tecniche e capacità di capire le possibilità d’impiego delle armi moderne…». Ce n’è abbastanza per finirla con la storiografia da rotocalco e per mettersi a riscrivere da cima a fondo la storia della Seconda guerra mondiale.

    * * *

    Tratto da Linea del 18 ottobre 2009.

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    Assolutamente da leggere.



 

 

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