Il sedicente “revisionismo del Risorgimento” pretende di porsi in contrasto ad una immaginaria “storia ufficiale del Risorgimento”, che però non esiste. Una “storia ufficiale” potrebbe essere soltanto una visione della storia stessa che sia imposta per legge, ciò che in Italia non è mai avvenuto.
La storiografia universitaria sul Risorgimento italiano è sempre stata differenziata al suo interno: per area nazionale (storici italiani e di molte altre nazionalità), per epoca, per convinzioni politiche (fascisti, liberali, cattolici, socialisti, ecc.), per metodo ecc. Questo avveniva sin dagli anni immediatamente posteriori all’Unità ed è proseguito senza soluzione di continuità sino ai giorni nostri. Il presunto unanimismo d’una “storia ufficiale” immaginata quale monolitica e “scritta dai vincitori” è un mito: non esiste una storia ufficiale e la storiografia universitaria è stata ed è scritta da storici diversissimi fra loro per tendenze e conclusioni. L’opera monumentale di Walter Maturi, “Interpretazioni del Risorgimento”, riporta dettagliatamente correnti, scuole, categorie interpretative differenti del periodo dell’unificazione italiana. I medesimi libri di testo scolastici presentano al loro interno la medesima differenziazione suddetta riguardo alla storiografia accademica e non hanno quindi neppure essi un carattere unanime.
Non esiste quindi una “storiografia ufficiale” sul Risorgimento. Esistono invece posizioni largamente od unanimemente condivise all’interno della storiografia su quest’epoca, il che è differente. Il fatto stesso che esse esistano, nonostante le grandi diversità di metodo, tematiche, ideologiche ecc. fra i vari studiosi è una conferma della loro attendibilità.
I sedicenti revisionisti contemporanei non dicono in realtà nulla di nuovo, poiché tutti i nuclei fondanti le loro riflessioni sono già stati discussi e dibattuti prima di loro: il brigantaggio; la genesi della questione meridionale e del dualismo economico Nord/Sud; l’ipotesi della conquista regia; l’ipotesi della piemontesizzazione giuridica; il ruolo della massoneria nel Risorgimento; la compresenza di una pluralità di progetti politici fra centralisti, federalisti, autonomisti; il peso delle classi popolari; la natura borghese dell’ordine sociale dominante nello stato liberale ecc. I loro libri sono scritti attingendo, direttamente od indirettamente, a quanto studiosi di altro livello avevano scritto prima di loro e meglio di loro. In fondo, si ritrova una linea divisoria fra questo tipo di storiografia e quella sedicente “revisionista”: la prima è opera abitualmente di storici di formazione universitaria e si serve dei metodi di ricerca delle scienze umane, la seconda è invece normalmente costituita da dilettanti ed autodidatti in storia, che molto spesso calpestano principi elementari della ricerca storica, a cominciare dalla cura nelle fonti e nella bibliografia.
Un esempio può aiutare a capire. Ricorre con relativa frequenza nella storiografia dilettantesca o nella pubblicistica il richiamo a quanto ebbe a scrivere Francesco Saverio Nitti in un suo saggio pubblicato nell’anno 1900, “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897”, ripubblicato successivamente in “Scritti sulla questione meridionale”. Ciò che asseriva il Nitti è noto, cosicché non è necessario riprenderlo per esteso: in pratica egli sosteneva che il Mezzogiorno fosse stato svantaggiato dalle politiche economiche dello Stato italiano per quasi un quarantennio, versando in tasse ed imposte più di quanto ricevesse come investimenti ed in generale risorse. Questa ipotesi era il cardine di quella, più ampia ed articolata, secondo cui la causa principale del dualismo economico Nord/Sud sarebbe stato proprio il drenaggio di risorse finanziarie dal Mezzogiorno al Settentrione.
Il sociologo, economista e statistico Corrado Gini, conosciuto in tutto il mondo per il suo “coefficiente di Gini” ancora oggi utilizzato per misurare le disuguaglianze socio-economiche, analizzò l’ipotesi di Nitti nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1910. Il Gini esaminò e smontò, pezzo a pezzo e con argomentazioni serrate di ordine matematico, quanto aveva sostenuto il Nitti. Questo illustre statistico ebbe modo di provare inoltre che lo scritto dell’importante politico e storico meridionalista era stato viziato da manipolazioni, per non dire falsificazioni. In ogni caso, il Gini poteva concludere che, dati statistici alla mano, il Mezzogiorno non aveva ricevuto dallo Stato meno di quanto avesse versato nel periodo 1862-1897, anzi era avvenuto il contrario.
Quanto sostenuto sul punto suddetto ne “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” non ricevette nessuna replica o contestazione, neppure dal Nitti stesso. Di fatto, chiuse la questione per quanto riguardava la distribuzione regionale delle risorse dello stato italiano nel suo primo quarantennio di vita. A distanza di oltre un secolo, si ritrovano però persone che riprendono i contenuti de “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897”, ignorando del tutto il successivo studio del Gini del 1910.
Zitara ad esempio, che è stato il tramite fra divulgatori puri e semplice quale Aprile o Del Boca ed il dibattito fra Nitti e Gini, si limita ad osservare in modo sibillino (in “L’Unità d’Italia: nascita di una colonia”) che gli è difficile stabilire chi fra i due avesse ragione, perché l’argomento non è più stato ripreso da specialisti di storia delle finanze. Questo pubblicista gramsciano non si rendeva conto, o fingeva di non rendersi conto, che nessuno aveva più esaminato di nuovo la questione poiché il Gini aveva detto la parola definitiva, giacché i dati ed i calcoli da egli presentati erano incontestabili e difatti sono rimasti da allora incontestati.
Il Gini, nonostante sia pochissimo conosciuto al di fuori delle università, è stato un personaggio di rilievo internazionale ed uno dei più importanti, se non il principale in assoluto, fra tutti gli studiosi italiani di statistica. Sono rilevanti anche i suoi contributi alla sociologia ed alla demografia.