Il prossimo bersaglio dei populisti? Le superstar della Silicon Valley - Il Sole 24 Ore
A volte le narrazioni forti impiegano molto tempo per salire alla ribalta. Nel 1981 l’economista Sherwin Rosen pubblicò il saggio The Economics of Superstars , in cui sosteneva che le scoperte tecnologiche dirompenti assegnano un potere sproporzionato a un ristretto numero di operatori all’interno di un certo mercato.
La televisione, per esempio, ha consentito agli atleti e alle popstar più pagati del pianeta di guadagnare cifre esponenzialmente più alte dei loro colleghi. Rosen sosteneva che l’ascesa delle superstar sarebbe andata a discapito di tutti gli altri. È una tesi che è tornata al centro della scena grazie a una lunga serie di ricerche che dimostrano come il motore economico principale della tendenza politica più importante della nostra epoca, il populismo, non siano i commerci e nemmeno la rapacità dei banchieri, ma la tecnologia.
Come sottolinea l’ultimo Global Outlook dell’Fmi , i cambiamenti tecnologici sono «il fattore dominante» dell’arretramento della quota del lavoro nelle economie dei Paesi avanzati. La fetta della torta che finisce nelle tasche dei lavoratori non è mai stata così piccola nell’ultimo mezzo secolo. Eppure gruppi della Silicon Valley come Google, la Apple, Facebook e Amazon stanno godendo dell’effetto superstar illustrato da Rosen.
Le ricerche del McKinsey Global Institute dimostrano che il 10% delle aziende raccoglie l’80% dei profitti, quota che sale al 90% se si prende in esame il quintile più alto. Non solo: queste aziende di vertice non sono più gruppi industriali ad alta intensità di capitale, ma imprese tecnologiche ricche di proprietà intellettuale.
Mentre i colossi della Silicon Valley prosperano, tutti gli altri perdono terreno. Le loro piattaforme hanno offerto ai consumatori nuovi prodotti e servizi efficacissimi a prezzi più bassi, ma il minor prezzo dei gadget non compensa neanche lontanamente il declino della quota del lavoro causato dal progresso tecnologico. E anche se queste aziende non violano necessariamente le leggi a tutela della concorrenza, è evidente che esercitano un potere di tipo monopolistico nel mercato, come dimostrano costantemente cose come i recenti tentativi di Google di lanciare un ad-blocker o la politica di Facebook di acquisire smaniosamente qualsiasi azienda più piccola possa in qualche modo profilarsi come concorrente.
L’aspetto forse più affascinante di tutto questo è che la Silicon Valley in generale è riuscita a sfuggire alla rabbia populista che si è riversata contro Wall Street o la manodopera cinese a basso costo. Come ha sottolineato il professore dell’Università di Chicago Raghuram Rajan, la ragione potrebbe essere che gli effetti dirompenti della tecnologia sull’occupazione sono meno visibili di quelli degli scambi commerciali. Dei quasi 6 milioni di posti di lavoro andati perduti nel settore manifatturiero statunitense tra il 1999 e il 2011, solo il 10% è direttamente riconducibile alle importazioni di prodotti cinesi, ma è concentrato in un ristretto numero di comunità della Rust Belt.
La natura dei cambiamenti determinati dalla Silicon Valley, meno eclatante e più sparpagliata, ne fa un obbiettivo meno scontato per la rabbia degli elettori. E poi, naturalmente, c’è il fatto che tutti adoriamo i nostri gadget: vi ricordate il senatore democratico Carl Levin che guardava rapito il suo iPhone mentre conduceva le audizioni in Senato sull’uso dei paradisi fiscali da parte della Apple, nel 2013?
Non si capisce bene in che modo la deregolamentazione della Commissione federale per le comunicazioni e della Commissione federale per i commerci operata dall’amministrazione Trump, con idee come il rovesciamento delle regole sull’utilizzo dei dati personali dei consumatori da parte dei fornitori di accesso internet in banda larga, possa migliorare significativamente le cose. Da un lato consentirebbe alle compagnie via cavo di competere più direttamente con colossi come Google e Facebook. Se questo innescherà maggiori investimenti, per esempio, nell’espansione della banda larga nelle zone rurali attualmente tagliate fuori dall’economia digitale, potrebbe essere un bene per le comunità locali. Ma il mio timore è che il risultato concreto sarà semplicemente che una manciata appena più ampia di grandi aziende tecnologiche disporrà di molti più modi di prima per monetizzare legalmente i nostri dati personali, dalla documentazione sanitaria agli estratti conto.
Nella storia «la conoscenza è il nuovo capitale» però c’è anche un aspetto alla «Davide contro Golia». Le piccole imprese che si digitalizzano più in fretta (e perfino i singoli individui) possono incrementare il loro reddito in modo esponenziale, godendo di una sorta di effetto «minisuperstar». C’è un motivo se è così importante mantenere l’autostrada digitale aperta a tutti (cosa che i tentativi di deregulation dell’amministrazione Trump potrebbero mettere a rischio) e applicare le leggi antitrust, che sono state deplorevolmente sottoutilizzate negli ultimi quarant’anni.
Un’altra cosa a cui si potrebbe pensare è come dividere il bottino prodotto dall’effetto superstar. Molti dei mastodonti tecnologici di oggi sono diventati ricchi grazie a tecnologie che in origine sono state finanziate dal Governo federale (internet, le tecnologie a schermo tattile e il Gps). Sembra giusto che il settore pubblico recuperi una parte di questi utili e li usi per diffondere i benefici della tecnologia. Paesi come Israele e la Finlandia conservano una partecipazione azionaria nelle imprese che nascono da ricerche di base finanziate dallo Stato.
Non solo: il Governo degli Stati Uniti in passato stabiliva che le aziende tecnologiche dovessero reinvestire i soldi nell’economia reale invece di ridarli a Wall Street. È così che nacquero i laboratori Bell, dopo che il governo federale insistette perché l’AT&T, che all’epoca era un monopolio, reinvestisse i suoi profitti in innovazioni di ampio respiro. Con le aziende statunitensi (soprattutto società ricche fondate sulla proprietà intellettuale) che detengono 2.100 miliardi di dollari all’estero per evitare di pagare le tasse e i salari che sono fermi al palo, questa tesi è destinata a guadagnare consensi.
I colossi tecnologici devono fare attenzione se non vogliono prendere il posto della Cina e di Wall Street come bersaglio dello sdegno populista.