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Discussione: Fornovo, 6 luglio 1495

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    Fornovo, 6 luglio 1495

    La battaglia di Fornovo, combattuta il 6 luglio 1495 dalla Lega Santa capeggiata da Venezia contro le forze del re di Francia Carlo VIII, non è tra le battaglie più note combattute in Italia. Eppure fu un evento di quelli che segnano la storia, la plasmano per i secoli a venire, indirizzandone il corso ben oltre la capacità di comprensione e le intenzioni di chi a quella battaglia aveva partecipato.
    Nei giorni immediatamente successivi lo scontro, Francesco Gonzaga, marchese di Mantova e comandante militare delle Lega, scrisse nero su bianco di averlo vinto, salvando l'onore e la libertà dell'Italia. Un'opinione condivisa anche dalla Serenissima Repubblica che si mostrò generosa nel riconoscere i meriti del Gonzaga e di coloro che, con lui, si erano distinti nei combattimenti, donando premi, pensioni alle vedove e doti alle figlie rimaste orfane.

    Meno convinti, anzi di opinione diametralmente opposta, gli umanisti come Paolo Giovio e Francesco Guicciardini che, mezzo secolo dopo la battaglia di Fornovo, non ebbero dubbi a considerarla una sconfitta e a vedere in essa la causa della condizione in cui si trovava l'Italia nel periodo di cui essi erano testimoni: una nazione assoggettata a popoli stranieri e un terreno di battaglia devastato fino al trattato di Cateau-Cambrésis del 1559.

    La verità, purtroppo, non sta nel mezzo. Più che una sconfitta militare, Fornovo fu la conseguenza anticipata del fallimento politico del Rinascimento italiano: l'Italia che usciva dal Medioevo verso la sua epoca più splendida, era in realtà politicamente misera e se "la guerra è la prosecuzione dell'intercorso politico con altri mezzi" non ci si poteva aspettare un esito diverso.

    Nel 1455, dopo decenni di ostilità, i principali stati italiani – Milano, Venezia, Firenze, il Papato e Napoli – avevano concluso un precario trattato di pace a Lodi. Benché conflitti e inimicizie perdurassero, i successivi quaranta anni furono relativamente tranquilli. Negli anni Novanta del secolo, però, nuove tensioni iniziarono ad affiorare, alcune interne, altre indotte dall'esterno, profilando credibili minacce alla pace e agli equilibri politici nella penisola. Nel continente, Francia e Spagna avevano avviato un processo di centralizzazione statale e ora entrambe potevano vantare ambizioni più grandi di quelle dei singoli stati italiani ed anche schierare eserciti più numerosi e potenti per realizzarle. Alla luce di questo loro rafforzamento, per quanto recente, saltava agli occhi la divisione in micro stati del territorio geografico italiano, ma ancor più la debolezza intrinseca e l'instabilità della situazione politica. Solo Venezia e per certi versi Roma erano realtà solide, mentre negli altri stati i conflitti politici facevano irrimediabilmente a brandelli il tessuto sociale. Gli oppositori di un regnante trovavano rifugio nel territorio di uno dei suoi tanti nemici e da qui potevano complottare indisturbati per far poi ritorno in patria da vincitori. Una terra di intrighi dove, benché un'idea di identità nazionale italiana fosse già viva, nulla e nessuno concorreva a renderla concreta.

    A questi problemi di carattere generale, in quegli anni se ne erano aggiunti altri contingenti: Ludovico Sforza si era illegalmente impadronito del ducato di Milano, acuendo disordine e tensioni. Nel 1492 era morto il più cruciale tra i garanti degli equilibri politici della Penisola, Lorenzo de' Medici, il Magnifico, seguito nel 1494, dal secondo regnante in ordine di importanza, Ferrante I di Napoli.

    Quando il re di Francia Carlo VIII invase l'Italia nel settembre 1494, non incontrò praticamente alcuna resistenza da parte dei principi italiani, paralizzati dalle diffidenze reciproche, dalle loro ambizioni e, non meno, dalla loro scarsa avvedutezza.

    Carlo VIII era diventato re a 13 anni nel 1483, alla morte del padre, Luigi XI. La natura non era stata generosa con lui: molto basso di statura, con gambe sproporzionatamente lunghe rispetto al corpo, occhi sporgenti, naso aquilino, non era considerato dai suoi sudditi nemmeno troppo intelligente, né adatto a governare un regno. Tuttavia, era un uomo di buon carattere, sostenuto da un enorme ambizione, che indubbiamente dimostrò con la sua invasione dell'Italia. Sorprese però i suoi uomini a Fornovo che, normalmente assai poco generosi con lui, constatarono invece la sua trasformazione, anche fisica, sul campo di battaglia, in un leader carismatico capace di ispirarli con energia verso la vittoria. Per ironia della sorte morì solo tre anni dopo Fornovo, nel 1498, quando lui, così basso, batté la testa contro l'architrave di una porta che stava attraversando a cavallo.

    La spedizione del re aveva origini italiane: il duca di Milano, spaventato dalla minaccia di Napoli, lo aveva invitato ad intervenire, sollecitato anche da esiliati napoletani che programmavano il proprio ritorno, mentre mercanti italiani avevano generosamente finanziato l'impresa. Cinque mesi dopo, ai primi di febbraio del 1495, Carlo aveva ottenuto il suo obiettivo, il regno di Napoli, sul quale vantava labili diritti ereditari dalla casa d'Angiò. Un successo di sorprendente rapidità, costellato da terribili stragi contro chi si opponeva alle armate francesi, che provocò il tardivo allarme tra le maggiori città italiane. Roma, Venezia e una pentita Milano si strinsero allora in una Lega Santa, con le nominali adesioni dell'Impero, della Spagna e persino del re d'Inghilterra, allo scopo di ristabilire lo status quo.

    Era un'illusione, perché il peggio era ormai già avvenuto, svelando inequivocabilmente all'Europa come l'Italia fosse solo una ricca preda incapace di difendersi.

    C'era solo una speranza, per quanto tenue, con la formazione della Lega Santa il 31 marzo 1495 e gli Italiani sembravano intenzionati a perseguirla: bloccare Carlo nel suo ritorno in Francia e distruggerlo in modo esemplare, come monito per quanti avessero intenzione di emularlo.

    Philippe de Commines, il principale diplomatico di Carlo e uno dei più affidabili testimoni degli eventi, inviato a Venezia chiese ai senatori della Serenissima i motivi per i quali stessero radunando un esercito tanto imponente. La risposta – che ovviamente non lo convinse affatto – fu motivata innanzitutto dal dovere di difendere la cristianità dalla minaccia turca, in secondo luogo garantire la libertà dell'Italia e per terzo difendere i confini della Repubblica: avrebbero attaccato Carlo solo se il re avesse minacciato Venezia o i suoi alleati.

    La Lega era però più apparenza che sostanza. Il papa vi partecipava solo pro forma, l'Imperatore Massimiliano I e il re di Spagna Ferdinando di Castiglia si distinguevano da Carlo solo per il minor spirito di iniziativa, ma non per le mire sulle ricchezze d'Italia. Milano, che per parte sua aveva molto da perdere, era paralizzata: Luigi d'Orleans, cugino di Carlo e futuro re Luigi XII, stava contribuendo indirettamente al ritorno in Francia del nobile parente, rinnovando le proprie pretese dinastiche sul ducato di Milano e, con l'assedio di Novara, lasciando allo Sforza ben pochi uomini da destinare a combattere Carlo.

    Solo Venezia, dunque, era a pieno titolo nell'impresa, ma la sua forza economica era talmente grande che poteva reclutare un esercito capace di schiacciare quello francese con il solo peso dei suoi numeri.

    La situazione strategica del re di Francia, oltretutto, non era obiettivamente delle migliori ma questi riuscì nella non facile impresa di peggiorarla, ritardando il proprio ritorno con lunghe soste nelle città italiane, disperdendo le sue magre truppe in guarnigioni e addirittura in un inutile tentativo di catturare Genova. D'altra parte portava con sé un treno di artiglieria forte di numerosi cannoni pesanti che rallentavano la sua marcia non meno dei 6.000 carri ricolmi dei tesori che aveva rapinato in Italia durante la spedizione.

    La Lega, comunque, non era in condizioni per avvantaggiarsi degli errori di Carlo. Troppi equivoci ed errori la minavano dall'interno. Innanzitutto, Venezia non era mentalmente pronta a una guerra di questa entità e con un obiettivo tanto radicale come umiliare un re. Gonzaga ricevette l'ordine di mobilitazione solo due settimane prima della battaglia di Fornovo e gli ordini che il Senato gli diede furono contraddittori: doveva distruggere Carlo impedendogli di tornare in Francia, ma senza impegnare tutto il suo esercito, per paura che, così facendo, potesse lasciare Venezia indifesa. Uno speciale gruppo di rappresentanti del governo veneziano, i provveditori, avrebbe vigilato sul rispetto di questo mandato, minando alle basi lo stesso comando di Gonzaga. Da parte sua il duca di Milano, con i Francesi praticamente alle porte, non avrebbe permesso che l'esercito della Lega si allontanasse troppo dalla città, tanto più che, nei suoi possedimenti, anche Parma sembrava prossima a una rivolta filo francese. Di fatto Gonzaga non si fidava dei Veneziani e temeva le loro mire espansionistiche non meno di quelle dei Francesi.

    Il duca era un combattente coraggioso, ma non era certo un uomo capace di mettere ordine in una situazione tanto complessa e risolvere problemi strategici di questa entità.

    Fu così permesso a Carlo di attraversare gli Appennini tosco-emiliani, quando invece sarebbe stato più logico bloccarlo al di là di essi, in un campo di battaglia dove la superiorità numerica italiana potesse dispiegarsi efficacemente. Il terreno di Fornovo, diviso da nord a sud dal fiume Taro, fu scelto perché da lì si poteva impedire a Carlo di arrivare a Parma, che si trovava ad est, pur sapendo che la strada verso la salvezza dei transalpini correva verso ovest. La riva sinistra del Taro fu dunque lasciata aperta e disponibile ai Francesi che subito ne approfittarono attraversando incontrastati il fiume e lasciando agli italiani, sulla riva opposta, l'onere di attraversarlo per fermarli.

    L'esercito di Carlo assommava solo 10.000 uomini circa, dei quali un migliaio erano uomini d'arme, 5.000 altre cavallerie, 3.000 mercenari svizzeri, 1.000 artiglieri per governare i 37 cannoni del parco di artiglieria, il resto varie altre fanterie. 6.000 non combattenti erano al seguito con il bagaglio, carico di un tesoro che motivava più di ogni altra cosa alla battaglia ogni singolo soldato della Lega.

    Il piano di battaglia del Gonzaga, per quanto ben congeniato potesse essere, partiva dunque già in salita e la fortuna non fu dalla sua parte: nonostante l'Estate fosse iniziata, il tempo volse al peggio e una pioggia torrenziale gonfiò il Taro rendendo ancora più difficile il suo attraversamento. Il combattimento si sarebbe quindi svolto sotto la pioggia e, se questo poteva significare ridurre l'efficacia delle potenti artiglierie francesi, certo le conseguenze sugli Italiani sarebbero state peggiori.

    Gonzaga aveva a disposizione quasi 30.000 combattenti, dei quali 2.600 erano uomini d'arme, 5.000 cavalieri leggeri (tra i quali 800 Stradioti balcanici), e i rimanenti fanteria. Di questi i Milanesi erano circa 1.500, tra fanterie e cavallerie. Li suddivise in tre gruppi, ciascuno a sua volta composto di una prima e di una seconda linea, che avrebbero dovuto rispettivamente iniziare l'azione e sostenerla: il primo gruppo avrebbe attraversato il fiume per affrontare l'avanguardia nemica, guidato dagli Stradioti che dovevano aggirare completamente il nemico per prenderlo di fianco. Il centro italiano avrebbe svolto l'attacco principale con il maggior numero di uomini e sarebbe stato guidato dallo stesso Gonzaga là dove si pensava si sarebbe trovato il grosso nemico e probabilmente lo stesso re, mentre la retroguardia e il bagaglio francese sarebbero stati assaliti dal terzo e ultimo contingente.

    Come ogni buon condottiere, il Gonzaga pensava di vincere la battaglia per manovra, prima che per forza bruta, ma non era proprio l'occasione migliore, né lui forse l'individuo più adatto, per riuscirci.

    Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, era un soldato di professione: il suo esercito era anche la sua condotta, un'azienda che contribuiva alle entrate sue e della città. Lasciava il governo della città nelle mani sicure della moglie Isabella d'Este durante le sue numerose "trasferte" di lavoro. Era appena ventinovenne quando Venezia gli affidò il comando dell'esercito della Lega Santa: non aveva mai guidato un esercito tanto grande, ma nessun altro condottiere in Italia lo aveva fatto prima di lui. Questa sua mancanza di esperienza pesò decisamente sull'esito della battaglia: anziché controllarne l'andamento stando fuori dalla mischia, vi si gettò a capofitto come un qualsiasi irruente giovane cavaliere. Poi si distinse nel combattimento, facendo strage di nemici, ma non era per quel motivo che i Veneziani lo avevano ingaggiato.

    I provveditori veneziani insistevano affinché Carlo venisse totalmente distrutto, ma al contempo pretesero che il Gonzaga tenesse a protezione del campo un quinto dei suoi uomini e che fosse comunque attento nell'impiegare gli altri con prudenza. Il marchese di Mantova si dimostrò un combattente coraggioso entrando nella mischia alla testa delle truppe, ma non era questo il dovere di un comandante in capo, che avrebbe fatto meglio a dirigere da posizione sicura una battaglia tanto complessa.

    Le cose, però, andarono storte per gli Italiani fin dal principio. Carlo aveva seguito i consigli di un esperto condottiere italiano, Gian Giacomo Trivulzio, nemico degli Sforza, che aveva recentemente ingaggiato per l'astronomica somma di 10.000 ducati l'anno, dopo averne valutato l'abilità quando era stato suo avversario al servizio di Napoli. Trivulzio aveva sempre sostenuto la necessità di avanzare con decisione verso nord, contro quanti suggerivano atteggiamenti più prudenti, e, in occasione della battaglia, coerentemente, consigliò al re di schierare la più decisiva forza d'urto dell'armata francese, i 3.000 mercenari svizzeri, all'avanguardia assieme al grosso dell'artiglieria e ad altre truppe di supporto. Forse sua anche l'idea di far marciare la lunga colonna dei carri del ricco bagaglio francese parallelamente allo schieramento dell'armata, ai piedi dei colli che dominavano la valle del Taro, anziché tenerla con la retroguardia. I guidatori dei carri, lasciati a se stessi, decisero chi di avanzare, chi di fermarsi, come se la battaglia non li riguardasse, disperdendosi disordinatamente lungo la strada.

    Lo schieramento che Gonzaga aveva immaginato prevedeva che il nemico concentrasse più tradizionalmente le proprie forze al centro, tenendo contingenti inferiori sulle ali, mentre i Francesi avevano al contrario un centro debole e le ali più forti, particolarmente quella sinistra, a settentrione. Qui lo scontro volse subito a favore dei Francesi. Gli Italiani infatti non avevano da contrapporre ai 3.000 Svizzeri fanterie comparabili per quantità e qualità e si trovarono subito in svantaggio. La superiorità numerica in cavalleria avrebbe comunque potuto portare Gonzaga a vincere quell'importante scontro sull'ala. Se nonché avvenne ciò che Trivulzio aveva probabilmente previsto: gli Stradioti, attraversato il Taro per primi e raggiunte le colline sul fianco dei Francesi, trovarono davanti a loro la testa della colonna dei carri carichi di bottino e non esitarono un istante a disinteressarsi della battaglia per saccheggiarli, restando poi semplici spettatori della sconfitta del proprio esercito.

    Le cose sarebbero potute andare meglio al centro dove la superiorità numerica italiana era schiacciante. Il Taro rigonfio dalla pioggia battente aveva però nascosto i guadi e le truppe di Gonzaga non riuscirono a dispiegarsi efficacemente, tanto più che in molti seguirono l'esempio degli Stradioti e, vedendo i carri francesi indifesi, abbandonarono il combattimento e si diedero al saccheggio. Nonostante questo, lo scontro fu comunque incerto e gli Italiani furono vicini a sopraffare i Francesi: lo stesso Carlo fu in pericolo di vita, assalito da numerosi cavalieri Milanesi che casualmente lo incontrarono mentre si ritiravano verso nord. Fu salvato, incredibilmente, non dalla sua guardia, che era troppo distante per intervenire con prontezza, ma da Savoy, il suo cavallo, e dai suoi valletti che lo difesero coraggiosamente. Il re fu violentemente colpito alla visiera e si difese con la spada a volto scoperto, prima che i suoi aggressori fossero finalmente sopraffatti dal sopraggiungere della guardia.

    Con il centro francese in grave difficoltà sarebbe stato il momento di far intervenire la seconda linea tenuta in riserva per questo scopo dal Gonzaga. Il suo comandante, Antonio da Montefeltro da Urbino, rimase però immobile: aveva ricevuto tassativi ordini da Rodolfo Gonzaga, fratello di Francesco, di non intervenire senza un suo preciso ordine. Ma Rodolfo era già morto in combattimento e i provveditori veneziani non si assunsero la responsabilità di autorizzare l'intervento di Montefeltro.

    Dopo aver subito due attacchi, l'avanguardia francese mandò in fuga le truppe della Lega, aprendo la via verso la salvezza all'armata, ponendo fine alla battaglia.
    Lo scontro era stato sanguinoso, soprattutto al centro, dove i combattimenti erano stati più accaniti: un migliaio i morti francesi, almeno il doppio quelli italiani. I cadaveri furono ritrovati fino a 11 giorni dopo la battagliaspogliati dai saccheggiatori di ogni cosa di valore e irriconoscibili: presentavano ferite al collo e al volto perché, una volta caduti da cavallo, venivano sopraffatti dagli uomini appiedati che colpivano le visiere degli elmi con mannaie e asce usate solitamente per tagliare la legna, finché non riuscivano ad aprire una fessura sufficiente a far penetrare una lama per assestare il colpo assassino. Lo stesso Gonzaga si salvò solo grazie al doppio collare di maglie di ferro che gli proteggeva quel punto debole.
    Agli Italiani, dopo la fuga francese, rimaneva il controllo del campo e il bottino che, per tradizione, equivalevano a una rivendicazione della vittoria: il verdetto della Storia sarebbe stato diverso.

    Nonostante la grande abilità dei condottieri italiani e la modernità delle loro tattiche di combattimento, a Fornovo esse furono superate da quelle dei Francesi. Le condotte erano composte principalmente da uomini d'arme a cavallo, abituati a sostenere combattimenti protratti nel tempo. Gli squadroni di cavalleria non attaccavano mai in un'unica soluzione, ma uno dopo l'altro, per distribuire lo sforzo tra i reparti. I Francesi, al contrario, impegnarono tutte le proprie forze contemporaneamente riuscendo in questo modo ad annullare la superiorità numerica italiana. L'esercito della Lega Santa, inoltre, non aveva fanterie di valore comparabile ai mercenari svizzeri al servizio di Carlo. Schierati in un blocco compatto avrebbero potuto essere sopraffatti solo se attaccati energicamente da più lati.

    A questo scopo sarebbero stati preziosi gli Stradioti, mercenari al servizio dei Veneziani provenienti dai Balcani: in particolare da Dalmazia, Albania e Grecia. Abituati alle guerre contro i Turchi erano cavalieri molto abili e combattenti temibili. Il loro nome deriva da "strada" e significa "viandanti", sottolineandone la vocazione nomade. Le loro tattiche di cavalleria leggera, pronti a colpire e a ritirarsi velocemente, furono una sorpresa per i Francesi, che non li avevano mai incontrati prima: favoriti dalla loro agilità e dalla loro aggressività avrebbero potuto rappresentare l'arma vincente per gli Italiani, che ne schierarono circa 800 a Fornovo, ma la passione di questi mercenariper il saccheggio li portò a disinteressarsi completamente della battaglia per dedicarsi anima e corpo a depredare il bagaglio francese.

  2. #2
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    Predefinito Re: Fornovo, 6 luglio 1495

    LEONARDO3 - Leonardo da Vinci | La battaglia di Fornovo -ricostruzione storica e fantastica

    E' ricordata anche da Ariosto (Orlando furioso, canto 13; 60) :
    [60]
    Dove onorato e splendido certame
    Avrà col suo dignissimo consorte,
    Chi di lor più le virtù prezzi ed ame,
    E chi meglio apra a cortesia le porte.
    S’un narrerà ch’al Taro e nel Reame
    Fu a liberar da’ Galli Italia forte;
    L’altra dirà: — Sol perché casta visse
    Penelope, non fu minor d’Ulisse. —

  3. #3
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    Predefinito Re: Fornovo, 6 luglio 1495

    Fu un'occasione perduta.

  4. #4
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    Predefinito Re: Fornovo, 6 luglio 1495

    anche fosse morto carlo il destino dell'italia non penso sarebbe stato diverso
    la discesa dei franzosi invece fu uno shock culturale notevole tant'è che boiardo chiude la narrazione (potenzialmente infinita) dell'innamorato con l'irruzione della storia
    tra parentesi la pratica di accoppare i cavalieri disarcionati è un'eredità della guerra dei 100 anni, in italia non si era usi, da qui anche il maggior numero di morti italiani sul campo di fornovo
    Garante del tessuto democratico del Paese

 

 

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