Eppure per il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan tra il 2014 e il 2016 “abbiamo tagliato talmente tanto che è difficile andare oltre”. Insomma a sentire chi sta nelle stanze dei bottoni pare che i risparmi siano tanti e tali da garantire al Paese un futuro prospero. Al punto che nel confronto a SkyTg24 con Michele Emiliano e Andrea Orlando per le primarie del Pd,
Matteo Renzi ha dichiarato guerra al Fiscal Compact che impone ai Paesi Ue di convergere verso il pareggio di bilancio. Come a dire che la spesa pubblica potrebbe tornare a crescere e che i conti pubblici non sono un problema del nostro Paese.
Sono corsi e ricorsi della storia italiana: anziché aggredire l’enorme spesa pubblica – a cominciare da quella improduttiva – si è preferito far crescere le tasse. E’ scritto nero su bianco nei numeri certificati da Eurostat:
dal 1995 al 2015 la spesa complessiva, compresa di interessi passivi sul debito pubblico, è aumentata da 510 a 827 miliardi di euro. Le tasse, dirette e indirette, sono cresciute da 258 a 493 miliardi. In Italia a stringere la cinghia sono sempre stati i dipendenti, quelli che neppure volendo potrebbero evadere le tasse. Negli ultimi 20 anni le tasse sono calate solo in tre occasioni: nel 2008 e nel 2009 con il governo Berlusconi (19 miliardi in meno di due anni) e nel 2013 con il governo Letta (4 miliardi in meno rispetto al 2012). Tre isolate eccezioni, perché la freccia delle imposte è sempre rivolta verso l’alto. Come quella della spesa pubblica che è calata appena due volte: nel 2010 con il governo Berlusconi e nel 2013 con il governo Letta.
A fare impressione è l’assoluta incapacità di chi si è succeduto dal 1995 a oggi di trarre beneficio dal calo degli interessi sul debito pubblico per finanziare misure espansive. Nel 1995 la spesa per interessi era pari a 109 miliardi di euro, nel 2000 grazie all’avvento dell’euro che ha tenuto sotto controllo i tassi d’interesse è crollata a 75 miliardi di euro: da allora è rimasta stabile con un picco di 83 miliardi nel 2012, mentre lo scorso anno è calata al minimo storico di 66 miliardi di euro. Sono 43 miliardi di minori spese all’anno grazie alla moneta unica: un tesoretto che sarebbe stato più che sufficiente ad abbattere in maniera sensibile il cuneo fiscale, tagliando il costo del lavoro, rilanciando l’occupazione e i consumi. Invece, sono stati soldi ancora una volta sprecati.
Nello stesso periodo la spesa primaria, quella al netto degli interessi è cresciuta da 401 a 760 miliardi di euro e secondo la Ragioneria generale dello Stato arriverà a quota 793 miliardi nel 2019. Nel frattempo la Bce smetterà di comprare titoli di Stato italiani e il costo del debito tornerà a salire.
Per tagliare – o quanto meno migliorare – la spesa pubblica serve una forte volontà politica che ad oggi non c’è mai stata. Ma da sola potrebbe non bastare: nel 2008, la Commissione tecnica per la finanza pubblica ha provato a spiegare le difficoltà d’intervento con “un’organizzazione periferica dello Stato spesso troppo frammentata” che rende difficile persino capire quali sono le voci di spesa da aggredire, inoltre “la cultura della valutazione nella pubblica amministrazione appare ancora poco diffusa: manca generalmente—e appare comunque priva di effetti sui responsabili amministrativi—la valutazione ex post.” Basta guardare alla differenza tra i tagli promessi e quelli adottati per il 2016. I ministeri avrebbero dovuto subire una sforbiciata da 3-4 miliardi di euro, ma i tagli si sono fermati a 1,7 miliardi a cui si sono aggiunti altri 460 milioni di euro nella manovra di primavera. Il risparmio sui costi standard, invece, non arriva a 2 miliardi, mentre il piano Cottarelli solo per il 2016 ne prevedeva 7,2 miliardi.
Insomma, la spesa pubblica si conferma un moloc inattaccabile eppure ci hanno provato in tanti. Piero Giarda aveva individuato 100 miliardi di “spesa aggredibile nel breve periodo”, ma fu subito sostituito da Enrico Bondi: l’ex commissario presenta un piano da 4,2 miliardi di risparmi immediati destinati a salire a 10 l’anno seguente, ma lascia l’incarico a inizio 2013 per dedicarsi al partito di Mario Monti. Dopo le elezioni Enrico Letta chiama al capezzale Carlo Cottarelli, il supertecnico del Fondo monetario italiano che a inizio 2014 presenta un piano monstre: subito 7 miliardi di risparmi, quindi 18,1 nel 2015 (poi ridotti a 16) e 33,9 (quindi scesi a 32) nel 2016. Cottarelli vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu. Ovviamente non se ne fa nulla, o quasi: dopo Letta arriva Renzi e Cottarelli torna a Washington.