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Dav. c. G.
Bruxelles rivela: sulle riforme Roma meglio di Berlino
–di Morya Longo 23 maggio 2017
Riforme, riforme, riforme. Si potrebbe canticchiare il motivo della celebre canzone di Mina, «Parole, parole, parole», perché tra le «parole» e le «riforme» sembra esserci in Europa ben poca differenza: la maggior parte delle raccomandazioni che la Commissione europea rivolge a tutti i 28 Stati dell’Unione resta infatti lettera morta. Molte delle riforme che Bruxelles chiede ai Governi su finanze pubbliche, sistema bancario, mercato del lavoro, politiche strutturali e pubblica amministrazione, restano troppo spesso solo «parole».
E, a dispetto della retorica sui «compiti a casa» che narra dei i Paesi nordici più ligi al dovere riformista rispetto a quelli Mediterranei, tra i Governi che più si distinguono per il mancato recepimento delle raccomandazioni della Commissione europea ci sono due insospettabili: Germania e Olanda.
Molto meglio, seppur distanti dagli obiettivi posti da Bruxelles, Italia, Spagna o Francia.
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Lo spaccato dello stato di avanzamento delle riforme strutturali, quelle che dovrebbero riaccendere davvero il motore della crescita economica nel Vecchio continente, arriva dalla Commissione europea. Ogni anno Bruxelles rivolge varie raccomandazioni agli Stati membri (ad alcuni più che ad altri) e poi va a verificare quanto i vari Governi abbiano seguito le sue indicazioni. Il documento relativo al 2016 (che si trova a fianco solo per 4 Paesi e sul sito internet del Sole 24 Ore nella versione integrale) è impietoso. «In generale si evince un lento progredire delle riforme chieste ad ogni Paese dalla Commissione europea», osserva Lorenzo Codogno, capo economista di LC Macro Advisors e direttore generale al dipartimento del Tesoro italiano tra il 2006 e il 2015.
Ma quello che più colpisce è che gli ultimi della classe sono i Paesi che più spesso salgono sul pulpito. A guardare il documento della Commissione si scopre infatti che Bruxelles registra «sostanziali progressi» nel recepimento da parte dell’Italia delle raccomandazioni sulla politica fiscale e sulla governance fiscale. Sullo stesso tema, invece, i progressi della Germania sono «limitati» e quelli dell’Olanda addirittura «nulli».
È vero che quei Paesi hanno finanze pubbliche super-robuste. Nessuno lo nega. Ma è anche vero che hanno snobbato le raccomandazioni rivolte loro dalla Commissione europea. Per dirla con parole loro: non hanno fatto i «compiti a casa».
Implementazione delle raccomandazioni rivolte dalla Commissione europea agli Stati nel 2016 (Fonte Commissione Europea):
E non è l’unico campo.
La Commissione Ue registra in Italia «certi progressi» nella riduzione delle tasse sul lavoro, nelle politiche a sostegno del sistema finanziario, nella riforma del mercato del lavoro, nel miglioramento delle procedure di insolvenza e nella giustizia civile. Questo non vuol dire che l’Italia abbia risolto i suoi problemi in questi settori, che restano anzi i punti dolenti del nostro Paese. Ma almeno l’Italia - a giudizio della Commissione - ci sta provando. Su 15 raccomandazioni rivolte al nostro Paese, la Commissione registra in un caso «sostanziali progressi», in sei casi «certi progressi», in sette casi «progressi limitati» e solo in un caso «zero progressi» (nella lotta alla corruzione).
Per contro sulle 14 raccomandazioni rivolte alla Germania, la Commissione rileva «limitati progressi» in 10 casi, «zero progressi» in un caso e «certi progressi» in due. Peggio l’Olanda, altro Paese ritenuto virtuoso: su sei raccomandazioni ricevute, i progressi sono tutti nulli o limitati.
Che la retorica dei «compiti a casa» fosse alimentata da molti luoghi comuni, lo dimostra anche l’evidenza empirica. La Germania, Paese con le finanze pubbliche fortissime, non è mai intervenuta per sistemare il sistema bancario intriso di politica e di fragilità, non ha mai fatto seguito alla richiesta di ridurre il surplus commerciale o di investire. E non ha mai accettato pilastri importanti della normativa europea, come la garanzia comune sui depositi bancari.
Angela Merkel si prepara alle elezioni con tanta retorica, ma meno fatti concreti di quanto non si direbbe: le vere riforme, in Germania, risalgono infatti all’era di Gerhard Schröder.