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La scelta delle tracce per la prima prova dell’esame di maturità sembra essere stata fatta da una commissione che la sera prima di consegnare il plico si sia trovata nel panico e abbia digitato su Google i primi temi che le sono venuti in mente. Facciamo un paio di esempi.

Per la cosiddetta tipologia A, l’analisi del testo, è stato scelto un autore come Giorgio Caproni, che praticamente nessun insegnante tratta. Non basta: tra le infinite bellissime poesie della sua opera si è scelto un testo intitolato Versicoli quasi ecologici, non particolarmente significativo né da un punto di vista formale né all’interno della produzione caproniana.

Cosa si deduce? Che gli studenti, che con tutta probabilità non hanno nessuna idea di chi sia Caproni – se non la striminzita nota biografica citata nel foglio a loro disposizione – si ritrovino senza strumenti per esprimere qualunque considerazione che non sia banale.

E infatti nell’analisi del testo gli vengono richieste nozioni elementari, al limite di un test Invalsi per la terza media: “Individua nella lirica i verbi che rappresentano le azioni dell’uomo nei confronti della natura”. Oppure informazioni a cui non potrà rispondere se non provando a buttare giù qualche suggestione a caso: “Il componimento fa parte di una raccolta di versi dal titolo latino Res amissa (Cosa perduta). In che modo il contenuto della poesia proposta può essere collegato al titolo della raccolta?”.

Come spesso succede, agli studenti viene chiesto di scrivere fuffa
Ma è per la cosiddetta tipologia B – ossia quel nonsenso della scuola italiana per cui studenti che per la maggior parte non leggono saggistica né giornali devono scrivere un saggio breve o un articolo di giornale – che le cose vanno peggio. Agli studenti vengono forniti, nelle fotocopie del plico, una serie di brani chiamati documenti a partire dai quali dovrebbero poi sviluppare il loro ragionamento.

Prendiamo l’ambito socioeconomico. L’argomento è: “Nuove tecnologie e lavoro”.

I documenti a corredo sono tre – già, solo tre – citazioni da giornali italiani. Nessun estratto da saggi, né accademici né divulgativi. Il primo è un articolo del Sole 24 Ore del novembre 2016 firmato da Enrico Marro, il secondo un articolo del giornale online Il corriere della comunicazione del gennaio 2017 firmato da Federica Meta, il terzo un articolo del 12 agosto 2014 uscito su Panorama di Stefania Medietti. Con tutto il rispetto per gli autori, quale autorevolezza hanno queste fonti? Quale rappresentatività? Non sono scienziati, non sono economisti, non sono analisti del capitalismo digitale. L’articolo di Panorama è di tre anni fa, che in un campo del genere è un po’ tanto.

Non basta: in tutti e tre i pezzi sono citati acriticamente degli studi. Nel primo uno studio dell’Unctad, che si intitola “Robot and industrialization in developing countries”, nel secondo una ricerca della Manpower intitolata “Skills revolution”, nel terzo un’inchiesta del Pew research center. Tre fonti, di cui solo la prima potrebbe essere considerata vagamente pubblica (Unctad sta per Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo). Manpower è invece una multinazionale privata del settore del lavoro interinale con sede a Milwaukee. Il Pew è un think tank statunitense. Davvero per riflettere sulla trasformazione del lavoro, gli studenti devono partire da articoli – anche datati – che riportano dei comunicati stampa, tra cui uno della Manpower?

Quale idea di saggio breve o di articolo di giornale uno studente dovrebbe far propria? Era troppo fornirgli qualche estratto da un qualunque buon saggio sulla quarta rivoluzione industriale? Era peregrino pensare di dargli qualche documento che affrontasse la situazione italiana o almeno europea più in specifico? Era troppo chiedere di essere più cauti a mettere nelle tracce di un esame di maturità il brano di una ricerca di un’istituzione economica, che dichiara: “Bisogna ridisegnare i sistemi educativi in modo da creare le competenze manageriali e professionali necessarie a lavorare con le nuove tecnologie”? Davvero non si potevano citare sociologi, economisti, studiosi del lavoro, o almeno giornalisti riconosciuti o storicamente importanti, da Karl Polanyi fino a Paul Mason o Evgeny Morozov? O magari con tesi profondamente opposte, come Karl Scwhab o Jeremy Rifkin?

Come spesso succede, agli studenti viene chiesto di scrivere fuffa. E così, a partire da questi brani, ecco gli articoli di giornali. Ci può essere quello (magari destinato al Corriere: perché già, bisogna scegliere anche la testata su cui pubblicarlo) che fa una dettagliata cronaca immaginaria di un convegno sulla robotica. Quello che si lancia in previsioni apocalittiche sul mondo conquistato dai robot. Quello che scrive la propria opinione sull’economia del futuro senza nessuna pezza d’appoggio. Pezzi non documentati, impressionistici, basati su fonti non autorevoli e poco chiare.

Ma non è colpa loro. Perché questa non è solo un’occasione perduta, ma un danno che viene fatto a chi affronta la maturità, o anche semplicemente a chi crede nel valore della scuola pubblica italiana.