Gli Stati Generali

L’infelicissima uscita di Patrizia Prestipino sulla razza italiana ha scoperchiato il vaso di Pandora delle italiche piccinerie circa la nostra – vostra? loro? – supposta unità culturale e, in senso ampio, identitaria. Commentare il fatto in sé sarebbe l’ennesimo spreco di tempo e virtuale inchiostro ma, considerate le scomposte reazioni da parte di sedicenti difensori dell’italianità e il crescente impoverimento culturale, che ci porta a prendere per buona qualsiasi pessima opinione espressa in rete (dai vaccini alle scie chimiche), un po’ di blanda divulgazione culturale non credo possa farci male. In fondo a questo dovrebbero servire gli umanisti, ma poi ci sono le eccezioni, si veda appunto la Prestipino.

L’Italia, come entità politica unitaria, nasce “l’altro ieri”, ovvero il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia. In tale data, tradizionalmente indicata come culmine del Risorgimento italiano, il paese “torna” ad essere diretto da un’entità politica (la monarchia) sovraregionale (mi si perdonerà il termine generico, ma non posso elencare diffusamente le molte forme di governo che nei secoli si sono alternate nella penisola): era dal crollo dell’Impero romano d’Occidente che questo non avveniva. Ma sull’Impero romano tornerò a breve, restiamo ora al 1861. Prima dell’Unità l’Italia era governata da una serie di entità autonome che, a partire dal Congresso di Vienna, si potevano così identificare: regno di Sicilia, regno di Napoli, stato pontificio, granducato di Toscana, ducato di Modena e Reggio, ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, ducato di Lucca, regno Lombardo Veneto (sotto la corona d’Austria), regno di Sardegna. Queste realtà amministrative erano, a loro volta, fortemente frammentate al loro interno, complice una tradizione, di antica matrice semi-feudale, che accentuava, nella percezione culturale, dei commerci, della lingua, le differenze fra città e città, fra paese e paese. Ma limitiamoci a considerare le macro aree amministrative: un abitante del regno di Sicilia appartenente al ceto medio-alto difficilmente sarebbe riuscito a spiegarsi con un suo “simile” del ducato di Parma. Le loro lingue “d’uso” erano troppo differenti. Nelle corti e nei contesti diplomatici si utilizzavano, a seconda dell’occorrenza, il francese o il tedesco (questo con incidenza inferiore), lingue che non solo avevano una tradizione “politica” alle spalle, ma che si erano fortemente strutturate in senso centripeto (e quindi unitario) sulle corti dei grandi casati europei (Parigi, Vienna, etc).

I letterati italiani vivevano già da secoli l’empasse della mancanza di un terreno comune su cui confrontarsi. Nel 1525 il Bembo, con le sue Prose della volgar lingua, aveva tentato di dare una definizione di quello che, a suo avviso, doveva essere il vero “italiano” letterario e aveva preso a modello la lingua di Boccaccio per la prosa e Petrarca per la poesia. Dante no, Dante era troppo “peculiare” nel suo uso del toscano per essere preso a modello. Dal Cinquecento in poi i letterati (quindi una sparuta minoranza della popolazione), si cimentano nella creazione di questa lingua inesistente, basata sul toscano letterario, ma i risultati non sempre furono ottimali (Goldoni, ad esempio, ebbe un enorme successo con il suo teatro in lingua veneziana, molta minor fortuna – infatti nemmeno li ricordiamo – coloro che tentarono di produrre un teatro alto in lingua “italiana”) e soprattutto non incisero minimamente sull’uso linguistico. Pochissime persone erano infatti in grado di leggere e fra coloro che possedevano una cultura sufficiente per leggere qualcosa che andasse al di là della corrispondenza familiare (in dialetto) la maggior parte si esprimeva in lingua madre straniera. I rampolli della nobiltà “italiana” parlavano francese e, solo sui libri, si confrontavano con un italiano che, spesso, veniva percepito quale materia di studio al pari del latino.

Il latino in compenso godeva di ottima salute: lingua della legge e della chiesa rimase per secoli un passepartout irrinunciabile per chiunque, dotato di cultura, volesse viaggiare dentro e fuori il paese.

E torniamo dunque all’antica Roma. Mentre con il crollo dell’Impero romano d’Occidente, in seguito a invasioni più o meno importanti da parte di popolazioni “straniere”, la penisola andò frammentandosi politicamente, giuridicamente, culturalmente e soprattutto nella percezione della popolazione, i romani avevano avuto un’importante intuizione dal punto di vista politico (non a caso erano riusciti a costruire un impero): dare a tutti i cittadini liberi la possibilità di appellarsi alla cittadinanza romana. Civis romanus sum (Sono cittadino di Roma), indicava l’adesione, da parte dell’individuo al sistema di valori romano, diritti e doveri. Da Caracalla in poi la cittadinanza romana si estende a tutti i liberi* presenti nei territori dell’Impero ma, anche in precedenza, era possibile per coloro che risiedessero in territori di diritto romano, ottenerla attraverso alcune procedure. Una legge, un governo, molte culture, ma “mediate” attraverso una sola lingua ufficiale, ovvero il latino. Le classi colte conoscevano anche il greco, lingua di cultura, ma il latino, pur a diversi livelli, era parlato e compreso dalla schiavo come dall’imperatore.

Tutto questo scompare con il crollo dell’Impero o – meglio – finisce “sottotraccia”. Il latino, conservato dalle classi colte e dal clero, diventa il sostrato su cui si mescolano le lingue dei popoli “invasori” dando vita alle cosiddette lingue neolatine di cui quasi tutti i dialetti italiani sono figlie. Quasi tutti perché, ad esempio, il sardo fa eccezione, possedendo un substrato più antico.

Da qui in poi la storia è semplice: i dialetti si diversificano e con i dialetti i riferimenti culturali e le tradizioni. Un atlante linguistico della penisola può darci un’idea immediata della situazione. Arriviamo, con un salto di secoli, alla fase pre-risorgimentale. Popolazioni che non possedevano gli stessi riferimenti politici, giuridici, che non parlavano la stessa lingua, che non scambiavano la stessa moneta, che cucinavano in modo molto differente, che vestivano alla moda dei paesi d’influenza (spagnola, francese, austriaca…), si ritrovano nel giro di un breve lasso di tempo sotto lo stesso tetto.

“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” dice qualcuno, ma la frase di Massimo D’Azeglio suona in modo un po’ diverso “Pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”. Al di là del giudizio di merito D’Azeglio aveva, almeno al tempo, ragione. Ancora negli anni ’60 del secolo scorso l’italiano non solo non era la lingua madre della maggioranza della popolazione, ma non apparteneva all’uso della popolazione italiana adulta, tanto che – all’epoca – ebbe un enorme successo il programma televisivo "Non è mai troppo tardi", condotto dal maestro Manzi, che insegnava agli adulti analfabeti le basi della lingua italiana scritta.

In questo contesto totalmente frammentato cosa si poteva ritenere unitario e identitario nel paese?

Per prima cosa la fede cattolica. La chiesa, per secoli, ha fornito all’Italia un collante – complice la presenza del Vaticano sul nostro territorio – dal punto di vista religioso, culturale e latamente sociale. L’unico vero collante popolare del paese. In secondo luogo la lingua italiana scritta, quella dei letterati. Per quanto anch’essa divisa e piena di localismi (il povero Manzoni fece della toscanizzazione della sua lingua un’ossessione, non meno di quanto Alfieri fu ossessionato dalla spiemontizzazione) la lingua letteraria era comprensibile ai colti della penisola e “studiabile” all’estero. Poi? Poi musica, pittura, scultura: tre grandi veicoli che però conservarono una loro tradizione locale (scuola veneziana, scuola toscana, scuola romana…) sempre molto forte. Poi? Poi basta. L’Italia restava un ricchissimo coacervo di patrimoni culturali locali, ma di una cultura e di un’identità forte comune non c’era alcuna traccia.

Il potenziale italiano d’altra parte, ben rappresentato dalla tradizione delle maschere, è sempre stato nella varietà e nel saper fare di questa varietà (di culture, di commerci, di tradizioni gastronomiche, di paesaggio) la sua forza. Rivendicare una purezza della cultura italiana, una tradizione unitaria mai esistita, impoverisce culturalmente e distrugge il vero potenziale di questo paese, che è sempre stato quello di saper estrarre e “digerire” il meglio delle culture con cui è venuto a contatto. E lo sapevano i romani che, pur avendo costruito un impero politico e amministrativo, non si fecero scrupolo ti trarre tutto il meglio dalla cultura greca con la quale erano “venuti alle mani”.