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    Predefinito Il 20 settembre. Un esame di coscienza (1970)

    di Giovanni Spadolini - “Corriere della Sera”, 20 settembre 1970


    Rispetto alle previsioni possibili qualche mese fa, l’Italia celebra il centenario del 20 settembre in un clima di minore tensione fra le due sponde del Tevere, in un clima che adombra di nuovo convergenze di valutazione o di giudizio, pur parzialmente inconfessate. Il nodo del divorzio non suscita più le asprezze dell’inverno o della primavera, non sembra più capace da solo di interrompere la vita di un governo o di far naufragare la già precaria collaborazione fra partiti laici e cattolici, come avvenne nel marzo, nel momento del maggiore impegno di Moro in vista di risuscitare il quadripartito: se nuovi scogli non sorgono, se nuovi ostacoli non si presentano all’orizzonte, il progetto Fortuna-Baslini dovrebbe seguire il suo naturale iter parlamentare anche nell’alta assemblea, su un terreno di discussione realistica e non di crociata, evocante storici steccati.

    Un principio di adesione della Santa Sede alle celebrazioni del centenario si è avuto, sancito dal messaggio, così complesso e sfumato, di Paolo VI al presidente Saragat: non senza esitazioni e incertezze anche tormentose, magari dopo le polemiche intempestive o inopportune. La commissione episcopale ha deciso di indire preghiere in tutte le chiese della penisola per la ricorrenza di Roma capitale: preghiere che sono sembrate “vaghe” a molti cattolici, preghiere che hanno unito voti ed auspici legittimi per il Vaticano e per l’Italia ad un’invocazione ai poveri, in cui si riflettono i turbamenti e le ansie della Chiesa post-conciliare (magari con una vena di indiretta polemica verso lo Stato borghese e censitario del Risorgimento: il motivo di sempre dell’opposizione cattolica).

    È mancata, riti religiosi a parte, la concelebrazione fra cattolici e laici che invano era stata chiesta per il centenario di Mentana da un vecchio socialista anticlericale come Pietro Nenni, approdato dopo un lungo tormentoso periplo alle rive del Tevere più largo: ma il principio della “provvidenzialità” della caduta del potere temporale, un principio di origine laica che l’Osservatore romano aveva revocato in dubbio o in discussione in una non dimenticata polemica dell’agosto scorso, è tornato a farsi valere per vie dirette o indirette, è riaffiorato, perfino nelle colonne caute e ammiccanti dell’organo ufficioso della Santa Sede.

    Convegni di studio si sono svolti, su temi relativi a Porta Pia, con la presenza di eminenti studiosi della compagnia di Gesù, eredi di quella Civiltà cattolica che considerò il 20 settembre come opera del demonio: il filo della storia è riuscito talvolta a superare i dissidi della coscienza. Un padre scolopio, noto per il suo appassionato impegno riformatore, ha potuto parlare dei bersaglieri di Cadorna come dei bersaglieri della Provvidenza; e la tesi, avanzata tanti anni dalle sponde della storiografia laica, circa la necessità di “santificare” il 20 settembre, è rimbalzata nei gruppi più animosi del giovane clero fino a proporsi come rito di espiazione, magari in quei nuclei di sinistra che uniscono la tenace lotta ad ogni temporalismo ad una visione messianica ed avveniristica di un nuovo ruolo della Chiesa nel mondo del lavoro.

    Si è aperto, insomma, al di là delle celebrazioni ufficiali o dei ritorni oleografici, un esame di coscienza. Era quello di cui l’Italia aveva bisogno. I momenti più alti o più drammatici di tale esame di coscienza – quell’esame per cui una nazione conserva il diritto di restare tale – si prolungheranno nelle parole con cui un socialista credente nella religione del Risorgimento e della libertà, Giuseppe Saragat, ricorderà oggi il significato della storica breccia davanti alle due Camere riunite, davanti ai rappresentanti di tutte le forze politiche presenti od assenti cent’anni fa, nel Parlamento di Palazzo Vecchio che autorizzò la marcia di Cadorna e suggellò la legge delle Guarentigie. Sì: davanti ai rappresentanti delle forze di democrazia laica, liberali e repubblicani e socialisti già presenti in una forma o nell’altra (e per gli ultimi come gruppi sporadici e frammentari) nell’Italia del 1870 non meno che davanti a quel partito cattolico ritiratosi nelle catacombe della opposizione extraparlamentare, l’opposizione del “non expedit” e del rifiuto integrale dello Stato liberale laico, proprio all’indomani del 20 settembre.

    Esame di coscienza che interessa la nazione italiana non meno dell’intero mondo cattolico. Perché Porta Pia coincide sì con la nascita dell’Italia moderna, consacra sì lo Stato nazionale italiano e indipendente, ma apre anche una nuova fase, una fase “provvidenziale”, nella storia del Pontificato. L’episodio militare in sé e per sé irrilevante, in cui si specchiarono tute le incertezze e le timidezze della Destra storica, corona il sogno delle generazioni risorgimentali per l’unità con Roma capitale, sembra contraddetta o ritardata dall’esistenza del potere temporale, ma inaugura anche un nuovo processo di affrancamento della Chiesa dagli affanni e dalle compromissioni di un temporalismo degradante.

    “Il giorno più grande del secolo decimonono”: disse un grande storico che non era romano e neppure italiano. E mai definizione fu più giusta. Grande per l’Italia non meno che per la Chiesa. Grande per l’Italia, che in Roma puntò a risolvere le proprie contraddizioni municipali e federali, fissandovi quella capitale predestinata da uomini che non vollero mai visitarla, come Cavour e Manzoni. Ma grande anche per la Chiesa che, sotto la pressione delle forze di Cadorna e di Nino Bixio, era obbligata ad abbandonare i superstiti fantasmi di un potere civile contraddetto dalla logica della storia non meno che dalla coscienza dei credenti.

    E mai classe dirigente offrì prova più alta di moderazione nei mezzi congiunta a fermezza negli obiettivi. Cavour aveva tentato, tutti lo ricordano, di arrivare a Roma col consenso del Papa, il contraddittorio ma generoso Pio IX legato alle speranze svanite del neoguelfismo. Per quasi dieci anni i successori di Cavour si sforzarono, con poca fortuna e con mezzi diseguali, che non rinunciarono all’ambiguità, di raggiungere lo scopo. Lo stesso dramma, che caratterizzò il dibattito al Parlamento di Firenze nell’agosto 1870, non fu sull’andare o non andare a Roma, ma sul come andarci. Uomini come Visconti-Venosta preferivano la via delle trattative a quella delle armi. Si voleva evitare lo spargimento di sangue, che purtroppo non mancò. L’intransigenza vaticana, armata del “Sillabo” e del dogma dell’infallibilità, obbligò lo Stato italiano ad aprire quella breccia. Ma la suprema abilità degli eredi di Porta Pia fu di richiuderla con gradualità e con misura, senza nulla cedere nelle prerogative irrinunciabili dello Stato, fino alla conciliazione silenziosa che rappresentò il capolavoro di Giolitti.

    Fu il sessantennio della legge delle Guarentigie: un autentico monumento di equilibrio e di sapienza diplomatica che consentì di superare la prova tremenda della prima guerra mondiale, facendo convivere nella stessa città, senza urti, due poteri che ufficialmente si ignoravano e sconfessavano a vicenda. Lo stesso sessantennio in cui maturò il nuovo universalismo della Senta Sede, il ricupero pastorale del magistero romano destinato a concludersi nel secondo dopoguerra, nella grandiosa e rivoluzionaria esperienza del Concilio.

    No: non è più tempo di concordati. Se c’è un punto d’incontro nelle celebrazioni del 20 settembre, un punto di incontro cui certo Saragat si richiamerà nel messaggio di oggi, esso è uno soltanto: la conciliazione delle coscienze, molto più importante di ogni conciliazione giuridica o protocollare. E supremo scudo della stessa libertà religiosa.

    Non è senza significato che la scomunica del Risorgimento sia stata ritirata negli anni del Pontificato giovanneo, gli anni di maggiore apertura della Chiesa alla società civile. E chi se non un cardinale che si chiamava Giovanni Battista Montini, quasi alla vigilia del suo avvento al Pontificato, parlò di Roma italiana come “di una realtà storica e concreta e grande”? “Nessuna altra città fuori di Roma”, sono parole del cardinal Montini, “poteva dare alla nazione italiana la pienezza della sua dignità statale. Così fu e così è”. E sono parole veramente capaci, se consacrate dall’esperienza di ogni giorno, di allargare le rive del Tevere: secondo il sogno comune ad un secolo intero, il secolo che cominciò il 20 settembre e finisce oggi.



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    Predefinito Re: Il 20 settembre. Un esame di coscienza (1970)

    La gran giornata del cittadino Mastai (1970)


    di Giovanni Spadolini - “Corriere d’Informazione”, 19/20 settembre 1970



    Ci diceva, alcuni anni fa, un mite e bonario vescovo toscano, sullo sfondo di uno dei più incantevoli paesaggi del Senese, che la Chiesa avrebbe dovuto elevare a festa religiosa il 20 settembre: e non solo per sanare l’antico atto di rivolta e di eresia del giacobino Crispi, quanto piuttosto per affermare gli immensi vantaggi che alla Chiesa erano derivati dalla fine del potere temporale. Come sarebbe stato possibile – ci aggiungeva quel colto umanista e prelato – il rinnovato universalismo cattolico fra la fine dell’Ottocento e il primo cinquantennio del Novecento senza la liberazione del magistero ecclesiastico dalle cure, dagli affanni e dalle miserie della potestà politica e territoriale? Come sarebbe stata possibile l’iniziativa sociale della Chiesa, come sarebbe stata possibile la grande parola della Rerum novarum senza la rottura assoluta e totale fra la logica della Chiesa e la logica degli Stati? Come sarebbe stata possibile la stessa sopravvivenza dell’autorità politica e diplomatica del Vaticano nel mare tempestoso delle rivoluzioni e delle dittature moderne senza la riconsacrazione di un ministero spirituale e sacerdotale agli occhi dei cattolici di tutto il mondo?

    Quell’acuto vescovo era abbastanza vecchio per ricordare le manifestazioni che in campo cattolico avevano accompagnato l’elevazione a festa civile della breccia di Porta Pia. Con la sua memoria lucida e pungente, egli rammentava benissimo gli articoli dell’Osservatore romano nel settembre del ’95 in cui l’organo vaticano proponeva di celebrare separatamente le varie feste cui dava spunto l’anniversario del ’70, portando i pellegrini accorsi dalle province del Regno a visitare Montecitorio chiuso, l’università sprangata per i recenti disordini, gli uffici del domicilio coatto e le sezioni dei processi politici instaurati da Crispi per reagire ai moti dei Fasci italiani.

    Quanti segni di lotta! L’anziano presule ricordava il commento della Civiltà cattolica, che legava la festa crispina agli scandali della Banca Romana (“un bel cominciamento alle nozze d’argento della breccia”); tornava con la memoria alle invettive della stampa cattolica contro la profanazione del “sacro suolo dell’Urbe” rappresentata dal monumento di Garibaldi sul Gianicolo; sottolineava con una vena di accorata e distaccata malinconia i continui confronti fra Roma e la Bastiglia – le due “date del Terrore” – che dominavano gli ebdomadari clericali; si riportava con la mente agli ordini del giorno degli studenti cattolici che definivano i governanti della nazione come “i primi malfattori d’Italia” e maledicevano “il giubileo brecciaiuolo”.

    Erano passati settant’anni: e al vescovo toscano sembrava che si dovesse ormai chiudere per sempre il capitolo dell’ “opposizione cattolica”, l’età delle lacerazioni fra Stato e Chiesa. Non solo. Ma egli riteneva che un esame più approfondito degli ultimi anni del Pontificato di Pio IX avrebbe condotto ad una diversa valutazione, anche sul piano storico, della posizione della Chiesa romana di fronte al 20 settembre.

    Si parlava allora, con insistenza, del processo di beatificazione di Papa Mastai chiesto dai fedeli vescovi marchigiani; e quale migliore argomento per illuminare un aspetto altrettanto ignoto quanto anticipatore della politica di quel tormentato Pontefice! Qual era stato il vero atteggiamento di Pio IX di fronte al consumarsi di quello che la propaganda clericale aveva chiamato ostentatamente il “delitto sabaudo”? Si trattava veramente di una posizione di resistenza legittimistica e romantica o non piuttosto di un consapevole adeguamento alle realtà e alle esigenze di un mondo nuovo? E – se questa era la conclusione – quale senso avevano le reiterate e ritornanti proteste dei cattolici di fronte al 20 settembre? Quale senso le invettive dei cattolici, il silenzio della democrazia cristiana, la prudenza del governo, al viltà del Parlamento.

    C’è un fatto sul quale la storiografia cattolica non si è soffermata ancora con l’attenzione che meritava: e cioè l’opera di restaurazione dottrinale cui Pio IX si dedicò fra il 1860 e il 1870, un’opera così intransigente ed intrepida da sconvolgere tutti i calcoli della ragion di Stato e da lacerare la tela degli equilibri diplomatici.

    Nella mente di Pio IX, uno dei Papi meno politici che la Chiesa abbia avuto nei tempi moderni (nonostante i “clichés” del ’48 e i canti della Rivoluzione), la preoccupazione religiosa prevaleva di gran lunga sulle considerazioni diplomatiche. Il suo scopo principale era quello di irrobustire l’ideologia cattolica, di salvaguardare l’integrità del magistero pontificio dalle insidie e dalle minacce delle correnti revisionistiche ereticali e liberaleggianti che si erano diffuse in Europa dal 1830 in là. Ecco perché la vera risposta all’iniziativa italiana non fu tanto la polemica anti-Convenzione di settembre, quanto il Sillabo; ecco perché la vera reazione all’abbandono delle potenze cattoliche non fu tanto la lotta contro Garibaldi, quanto il Concilio Vaticano, la proclamazione dell’infallibilità, l’affermazione della supremazie pontificia sull’episcopato, la consacrazione solenne e sdegnosa dell’assolutismo e centralismo papale, contro tutte le indulgenze democratiche ed autonomistiche. In una tale prospettiva era difficile parlare di una politica estera del Vaticano; in una tale prospettiva era assurdo pensare di scongiurare la fatalità di un 20 settembre. E in effetti durante gli ultimi anni del regno di Pio IX la trama dell’azione diplomatica della Santa Sede si spezzerà e disperderà, le vecchie alleanze non saranno rinnovate, nuovi contatti non saranno intrecciati, l’isolamento non sarà rotto né in un senso né nell’altro e la stessa solidarietà temporalistica dei vescovi spagnoli o francesi resterà sempre nominale, decorativa e un tantino chisciottesca.

    Pio IX non mirerà, come Leone XIII, alla possibilità di avvalersi della questione romana per riaffermare il prestigio del pontificato nelle cancellerie europee, non si servirà della condizione di inferiorità verso lo Stato italiano per bandire una crociata contro la Monarchia “scomunicata” e “sovversiva”. La sua preoccupazione dominante sarà un’altra, di serrare le fila del cattolicesimo italiano, di riordinare e riorganizzare le forze, di rianimare gli spiriti spesso sfiduciati e depressi, e a tal fine alimentare tutto il vasto movimento associativo messo in opera dai cattolici. Per limitarsi all’Italia, sarà proprio in questi anni che il Pontefice riunirà le varie associazioni per la libertà della Chiesa sorte a Bologna e a Firenze e a Roma e darà vita alla “Federazione piana” ed incrementerà l’opera della “Gioventù cattolica” e promuoverà la prima organizzazione unitaria del cattolicesimo laicale, l’ “Opera dei Congressi”. Questa sarà, in fondo, la vera risposta di Pio IX al 20 settembre.

    Mai il Papa del ’48 guardò alla ricostituzione di un’ipotetica “Internazionale cattolica” fondata sulla forza degli Stati o dei governi. Le molteplici esperienze della sua vita lo avevano ormai convinto che le posizioni tradizionali avevano ceduto alla nuova mistica delle nazionalità e che pochi governi si sarebbero arrischiati a compromettere gli interessi nazionali per la difesa di un superiore interesse religioso (al momento del 20 settembre, l’unico Stato che aveva rotto i rapporti con l’Italia e si era posto a disposizione del Papa rispondeva al nome dell’Ecuador, col suo presidente mistico e visionario Garcia Moreno).

    Intuizione profetica. Pio IX, proprio il Papa che tollerò il cardinale Antonelli, ebbe il merito storico di iniziare lo “svincolamento” della Chiesa dalle ipoteche e dagli impacci del “temporalismo” ecclesiastico: in vista della “riconquista”, dall’interno, delle società e degli Stati. Non è forse questo un motivo sufficiente a favore della beatificazione chiesta dai vescovi delle sue Marche? E non è forse questa una ragione determinante a favore della consacrazione del 20 settembre, la grande giornata del “cittadino Mastai”?



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