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Non pioveranno milioni sui loro bilanci, eppure la legge sui piccoli Comuni è storica. In queste ore, l’aggettivo corre di bocca in bocca dalla Granda alle Madonie, ma non ha nulla di enfatico; a pronunciarlo sono sindaci e assessori che, sovente, rinunciano al proprio gettone per pagare lo stipendio dell’unico impiegato rimasto in Municipio. Come abbiamo più volte scritto, i piccoli Comuni sono quelli degli italiani che resistono sulle montagne, che coltivano le tradizioni e le capacità che hanno fatto grande questo Paese, che danno vita, con le loro esperienze quotidiane di fatica e di amore, alla difesa del suolo, alla coesione territoriale, a tutti quei valori di cui gli altri si limitano a parlare sotto al cono di luce della sostenibilità. Adesso, questi italiani esistono anche per legge.

Il provvedimento licenziato ieri dal Senato rappresenta una salutare novità per un Paese più incline a commiserarsi che a decidere. «Nel testo di legge per la prima volta si sanciscono princìpi da sempre sbandierati ma mai concretamente inseriti in un provvedimento»: il commento di Enrico Borghi, venendo da un parlamentare di maggioranza, lascerebbe il tempo che trova – cosa potrebbe dire di diverso un esponente della maggioranza? – se non fosse che Borghi è uno dei pochi politici che ha vissuto per decenni in trincea, saggiando fino in fondo la difficoltà di governare minuscoli Municipi senza soldi e isolati dal mondo.

Questa legge non farà sorgere autostrade dal nulla, ma qualcosa farà: un fondo per lo sviluppo strutturale, economico e sociale, misure per le attività produttive, a partire dal turismo, norme per la gestione associata di alcune funzioni nonché dei fondi europei; e poi banda larga, riqualificazione dei centri storici e agevolazioni nei trasporti. Persino – lo sottolineiamo, quasi increduli, con una soddisfazione che è (legittimamente) anche nostra – l’impegno di preservare la presenza dei servizi postali nei territori marginali. Qualcuno dice che si poteva fare di più. Vero. Ma l’esiguità dello stanziamento (cento milioni in cinque anni) non doveva essere e non è stato un alibi per traccheggiare. Verificheremo quanto è seria questa riforma in base alle prossime leggi di bilancio.

Per ora, non possiamo che condividere l’entusiasmo di un’Italia minore e migliore. Migliore di quella sgovernata da sindaci che, come documentano in questi giorni le cronache lombarde, ci ricordano come la politica possa essere la più alta forma di carità, come diceva Paolo VI, ma può pure diventare via più diretta per dare buio all’anima e alla città dell’uomo. Migliore perché prima di questa legge, per decenni, gli amministratori dei piccoli Comuni hanno lottato contro ogni evidenza e indifferenza per "trattenere" sul territorio i loro concittadini, inventandosi scuole e asili dove la contabilità pubblica certificava che non potevano esserci e "welfare di prossimità" dove i più deboli sembravano destinati all’abbandono. Questa "resistenza" ha attraversato tutte le stagioni – il Dopoguerra e la deindustrializzazione, la riforma agraria e l’intervento comunitario, la digitalizzazione e i terremoti – ma alla fine dodici milioni di italiani sono rimasti a vivere dove, secondo molti, non sarebbe rimasto più nessuno.

Questa legge, dunque, dice la verità. In ciò, a ben vedere, consiste la sua "storicità". Dice che il Paese dei mille campanili non è solo uno slogan turistico, che resiste un modello di coesione sociale ed economica, che può essere un’alternativa alla concentrazione dei popoli nei centri urbani, che affligge il mondo e la stessa Europa. Questa legge è storica perché lo Stato torna a farsi soggetto garante della scelta di vivere in un piccolo Comune e crea (deve creare!) le condizioni per renderlo possibile. È storica perché all’Europa delle rigide regole di bilancio manda a dire che si può anche ben vivere (senza scialacquare) a dispetto dei numeri. È storica perché è testardamente e civilmente italiana.