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    Predefinito Gobetti: "I repubblicani" (1923)



    “La Rivoluzione Liberale”, anno II, n. 10, 17 aprile 1923, p. 41. Poi in P. Gobetti, “Scritti politici” a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1960, pp. 487-492.



    “La Voce Repubblicana” (7 marzo) ha ragione di protestare contro un nostro vecchio giudizio (settembre 1922)[1] di liquidazione sommaria dei repubblicani. Ma il nostro giudizio colpiva una mentalità del passato. Ora vi sono almeno due repubblicanismi e, se l’uno è ben morto, dell’altro è lecito studiare come stia nascendo.

    I.


    Senza ironia sarà concesso constatare che il partito repubblicano deve il suo rinnovamento attuale all’azione storica del fascismo, e all’esaurirsi in seno al fascismo dei motivi nazionalisti e retorici dell’interventismo. La guerra ha liquidato la questione dell’irredentismo, nella quale i repubblicani rimanevano rigidi e indifferenziati dai partiti dell’ordine. La monarchia, riconoscendo il colpo di mano fascista, ripresenta il problema istituzionale, come noi ci affrettammo di notare. Infine il fascismo ricollegandosi alla parte caduca e donchisciottesca del nostro Risorgimento si assume quel compito di rivendicazioni romantiche, di predicazione di esaltato patriottismo, di sentimentalismo sociale collaborazionista che dopo la fine del partito d’azione era stato il solo patrimonio continuato del mazzinianismo.
    Il ventennio antecedente al ’14 ci aveva dato infatti una caratteristica forma di psicologia di altri tempi: la camicia rossa “tendenziale”, non mai sazia di leggenda e di cortei, generoso sangue romagnolo, con l’avventura per ideale e la spavalderia per motto, irredentista per un ripicco a Francesco Giuseppe, rispettosa dell’ordine borghese come di quello che si lascia bestemmiare, sdegnata con la monarchia per potersi spiegare con semplicità la storia e il proprio perpetuo malcontento, oltre che per altissimi princìpi di eguaglianza sociale.
    La guerra, poverissima nel creare sfumature di idealità e di caratteri, ci divertì invece nella figurazione del repubblicano tirannello e del comitato di salute pubblica. Furono i repubblicani primissimi responsabili coi nazionalisti nel creare le famigerate leghe d’azione antitedesca e nell’esasperare quella campagna contro Giolitti, che resta, anche per spiriti non teneri verso il giolittismo, uno degli indici più sconsolanti della nostra immaturità durante la guerra.
    Del resto un partito che non ebbe altre risorse per decenni fuori di una banale campagna moralizzatrice e identificò la lotta politica con la lotta all’uomo e le accuse di disonestà privata, doveva logicamente esaurirsi nel modo più allegro con la rivincita delle cose, e darci lo spettacolo di Eugenio Chiesa, paladino di purità, implicato nel più disgustoso degli scandali[2]. Si sa che la storia difficilmente consente che le sfuggano le occasioni della più piacevole ironia: e ci volle riservare l’estrema prevista sorpresa di un Napoleone Colajanni, persecutore del proletariato e del bolscevismo, e di un partito rivoluzionario alleato alla monarchia per salvare i pescicani e le cricche di Montecitorio.
    Solo a questo punto, mentre la reazione fascista si stava sfrenando in Romagna con la complicità dei repubblicani, e da parte dei più dignitosi, come il Ghisleri e il Facchinetti, non si sapeva suggerire rimedio fuori di una rosea Costituente, alcuni giovani, O. Zuccarini, G. Conti, F. Schiavetti, G. Bergamo, riuscirono ad imporre la necessità di un orientamento rivoluzionario. Senonché l’occasione e il fondamento dell’opera, il movimento operaio sono mancati e ai nuovi repubblicani spetterà un mero compito di critica e di eresia d’avanguardia.

    (...)


    [1] Cfr. Nota sul sindacalismo di Alfredo Rocco in P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1960, pp. 1024 sgg.

    [2] Per comprendere questo sferzante giudizio contro l’on. Chiesa, va ricordato che i repubblicani per opposizione alla monarchia non parteciparono mai ad alcun governo. Vi aderirono invece per dimostrare il loro appoggio alla guerra durante il periodo 1915-18. L’on. Chiesa presiedeva ad una commissione di forniture militari e fu coinvolto nello scandalo dell’Aereonautica. La Commissione d’inchiesta proverà la sua onestà, ma Gobetti non poteva ancora conoscerne il risultato dato che, mentre scriveva queste note, l’inchiesta era ancora in corso. Egli rivedrà questo suo giudizio quando i fascisti cercheranno di sfruttarlo a fini scandalistici contro l’on. Chiesa. Cfr. l’articolo Chiesa, in P. Gobetti, op. cit., p. 812.
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  2. #2
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    Predefinito Re: Gobetti: "I repubblicani" (1923)

    II.



    Ma resta da vedere se la dottrina mazziniana, su cui questi giovani continuano a fondarsi, non contenga già originariamente quei vizi di comprensione storica e di pratica dei quali Colajanni, Barzilai, Chiesa, Pirolini non sarebbero che naturali esemplificazioni. Si chiede se l’equivoco in cui si trovarono i repubblicani di fronte ai te punti 1) Dalmazia, 2) wilsonismo, 3) bolscevismo, potessero evitarsi o non corrispondessero a pericolosi errori di impostazione e di natura. Io non riesco intanto a dare tutti i torti al Gentile che in Mazzini cerca un esempio di nazionalismo, come non mi stupisco che l’amico Calosso giunga, del resto sulle orme di Oriani, alla dimostrazione del carattere imperialistico presente nel concetto mazziniano di missione nazionale. Ma se anche si fossero tolte tutte le nubi e trovato l’accordo nell’antimperialismo e antinazionalismo, lo scoglio della questione sociale non è facilmente evitabile.
    Quando Mazzini parla del problema sociale come di un problema di educazione delle facoltà umane egli è in una posizione reazionaria, in cui ricade il Ghisleri intendendo il Consiglio di fabbrica come uno strumento di conoscenze economiche per gli operai. E se il concetto d’associazione come l’intendeva il genovese ha avuto una grande importanza per creare lo slancio e lo spirito rivoluzionario non ha saputo poi estendersi al campo tattico e strategico e dare agli operai un ordine di lotta e una disciplina di intransigenza.
    La cooperazione e la mutualità, sorti dall’iniziativa di difesa delle classi proletarie, diventano una corruzione piccolo-borghese delle autonomie e un peso morto per la battaglia se sono alimentate con spirito riformistico come preludio alla società futura. Il movimento operaio ha la sua logica nella sua disperazione; il futuro non può essere compromesso con piani preconcetti. Ed ecco che invece Zuccarini, in pieno processo di rivoluzione italiana, mentre afferma che il problema politico è problema di forza e che i repubblicani sono rivoluzionari, pone di fronte all’esperimento russo la domanda: come deve essere organizzata la società dopo la rivoluzione. Preoccupazione caratteristica del dottrinarismo mazziniano che viene a introdurre nel momento in cui l’unità della difesa e dell’attacco deve essere conservata rigorosa la scissione delle ipotesi e delle previsioni. Il processo al regime accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa non si può fare a priori in nome di un ideale di autonomia, perché soltanto il futuro ci dirà l’organizzazione del futuro e in Russia Lenin ubbidisce al suo clima storico e ad esigenze non più astratte ma determinate da una dialettica quotidiana reale.
    Il problema del movimento operaio è problema di libertà e non di uguaglianza sociale; la critica allo Stato ha un valore dinamico, non ricostruttivo. La classe operaia si migliora tecnicamente da se stessa nella fabbrica; la sua capacità rivoluzionaria poi è data dalla sua forza morale, dallo spirito di sacrificio. Sono cose che la scuola non può insegnare, anzi l’idea sola di insegnarle, mentre non ha alcun grado di attuabilità, costituisce un’umiliazione per l’operaio. I doveri dell’uomo di Mazzini sono un libro immorale in quanto propongono all’operaio un ideale che non scaturisce dal suo stesso cuore, lo persuadono a tradire sé e i suoi per agire nell’atmosfera retorica della palingenesi democratica e della virtù piccolo-borghese. L’operaio deve educarsi da se stesso nella fabbrica, deve conquistare la sua coscienza morale del lavoro, che gli darà virtù di eroismo politico, deve, educato, rimanere operaio.
    L’uguaglianza sociale è l’ideale di tutte le preparazioni e di tutti i sogni ribelli, è l’aspirazione più tragicamente commossa dell’uomo di tutti i tempi, ma esaurisce la sua ricchezza nel creare lo slancio rivoluzionario: poi solo la differenziazione può alimentare una morale sociale e un senso dei limiti e una responsabilità di sacrificio. Mazzini non ha avvertito la logica di questo processo perché il suo Stato futuro vive in un’atmosfera romantica ed evangelica aliena da ogni esperienza di modernità: e i suoi seguaci non scorgono, al di là della nazione, il travaglio della coscienza statale. Solo per questa considerazione è spiegata la svalutazione dei capi che affiora anche qua e là negli scritti dello Zuccarini; e la assoluta incomprensione del compito delle aristocrazie dirigenti.
    Ma laddove il dottrinarismo mazziniano si rivela più inadeguato è nella completa assenza di cognizioni economiche e nella pretesa di subordinare la complessa realtà economica al semplicismo preconcetto di uno schema politico. Le idee fisse di Mazzini e dei suoi seguaci sono la cooperazione e la piccola proprietà concepite con una mentalità di primitivi, senza connessione con l’economia moderna e senza avvertire la cooperazione, come sistema produttivo, tende a diventare parassitaria e la piccola proprietà floridissima nel Monferrato non può svilupparsi in Basilicata o in Calabria.

    (...)
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    Predefinito Re: Gobetti: "I repubblicani" (1923)

    III.



    Confesserò di riporre certa fiducia nell’intelligenza degli amici Conti, Zuccarini, Schiavetti, ma non saprei come essi siano per riuscire a conciliare la loro volontà rivoluzionaria con queste malsicure premesse della dottrina mazziniana. La loro critica al fascismo in nome della libertà coincide oggi con la nostra, ma nel momento in cui bisognerà scegliere tra uguaglianza e libertà la guida di Mazzini non li trarrebbe certo dall’equivoco, perché nel mazzinianismo mentre si trovano le idee più contraddittorie e confuse, il nucleo centrale resta una dottrina democratica conservatrice rispetto alla quale le sovrapposizioni rivoluzionarie sono una mera derivazione romantica, quasi una malattia del secolo che non è più il nostro.
    Il disagio di questo equivoco è avvertito dai nuovi repubblicani, nell’atto stesso che non riescono a individuare la loro azione in un senso determinato. I motivi polemici di “Critica Politica”, la bella rivista di O. Zuccarini, potrebbero essere accettati senza discussione da conservatori intelligenti.
    Tra Sud e Nord il partito non si è deciso. Le nostalgie rivoluzionarie lo avvicinano agli operai, il mazzinianismo fanatico per la piccola proprietà lo accosta ai contadini. In “Critica Politica” accade di ritrovare Fovel accanto ad Azimonti, il partito sardo d’azione con Bellieni, il sindacalismo con Pannunzio e il liberismo con Giretti. Qui si nascondono delle contraddizioni per l’azione futura del partito: se bisogna preoccuparsi della vita agraria in Italia prima di ogni altra cosa bisogna combattere non soltanto l’industria, ma anche gli operai e sognare una rivoluzione religiosa (di che altro saranno capaci i contadini del Sud?) invece di una rivoluzione politica. Che dire del pensiero repubblicano verso il Parlamento per cui li troviamo partecipi della comune aspettazione dal governo tecnico competente? La storia recente ha dimostrato in modo inconcusso la superiorità degli incompetenti sui competenti.
    Giunto a questo punto il nostro processo ai repubblicani apparirebbe tendenzioso e non metterebbe in chiaro la simpatia con cui noi continuiamo a seguirli se non rivelassimo il punto vivo dei loro pensieri e delle loro polemiche rendendo l’omaggio dovuto ai motivi che ereditano da Cattaneo. Il federalismo per spiriti non negati alla cultura conserva le suggestioni dell’eresia più accreditata che sia sorta nella nostra storia politica. Il vessillo dell’autonomia e del decentramento nasconde sfumature e risorse complesse ed impreviste; del regionalismo è facile rinnovare di fronte alle esigenze ricorrenti i sensi e le suggestioni; la modestia dell’insegnamento economico non è fuor di luogo nell’Italia moderna, il mito libertario sta per diventare laborioso e doveroso.
    In un regime intollerante di critica e di autonomia, sotto un governo paternamente dispotico, queste sfumature di indagini e delicatezze di metodo hanno un compito ben preciso di difesa per l’avvenire, anche se non ne scaturisca oggi un imperativo di azione tutto chiaro.
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