Daniele Brigadoi Cologna

Il 20 maggio 1940 la direzione generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni richiede a tutte le prefetture del Regno d'Italia di censire i cittadini stranieri che, in caso di entrata in guerra dell'Italia al fianco della Germania nazista, si caratterizzerebbero come «sudditi di Paesi nemici» o presunti tali. Tra questi paesi rientra anche la Repubblica Nazionale di Cina guidata da Chiang Kai-shek, il cui governo subisce da tre anni l'impeto dell'aggressione del Giappone, paese cui l'Italia è legata dal Patto Anti-Comintern sottoscritto nel novembre 1937. Il riconoscimento da parte del regime fascista dello Stato fantoccio filogiapponese del Manciukuò sancisce la prima incrinatura diplomatica che ben legittima l'ipotesi di considerare i cinesi residenti in Italia come cittadini di un Paese nemico. La rilevazione operata dalle prefetture scatta un'istantanea sulla presenza cinese in Italia, registrando 431 cittadini cinesi residenti o presenti sul territorio. Quasi il 50% di essi risiede a Milano e un 15% a Bologna. Seguono contingenti ridotti (20-30 persone) a Torino, Trieste e Napoli, mentre in ciascuna delle altre venti delle novantacinque province in cui si segnalano presenze cinesi, restano al di sotto delle 10 unità.

Sono persone prevalentemente emigrate dalla regione cinese del Zhejiang, da piccoli villaggi e paesi di montagna appartenenti al distretto di Qingtian, nell'entroterra della città portuale di Wenzhou. La maggior parte si è trasferita in Italia nel corso degli anni '30, anche se qualche pioniere vi si era stabilito già negli anni '20. Una minoranza risulta impiegata sulle navi che facevano mensilmente spola tra Italia e Cina, soprattutto quelle delle Linee Triestine per l'Oriente del Lloyd Triestino, dove sono impiegati principalmente come cuochi e lavandai. Ma è il commercio ad animare le aspirazioni di realizzazione personale di quasi tutti coloro che hanno lasciato il Zhejiang per l'Europa a cavallo dei due decenni. La Francia e i Paesi Bassi sono le mete più ambite, ma l'Italia comincia poi ad attrarre i migranti cinesi che l'hanno già eletta destinazione preferenziale. Si comincia dal commercio più elementare: quello ambulante, con merci portate con sé dalla Cina, più spesso acquistate da grossisti europei. Per questi apripista della migrazione, l'Europa è una fitta trama di mercati rionali, fiere di paese, mostre-mercato ed esposizioni universali: il passaparola tra migranti schiude nuove piazze, inusitate opportunità di commercio e profitto. Erano tutti uomini con rarissime eccezioni, perlopiù ventenni, alle spalle si sono lasciati famiglie di antico lignaggio contadino, ma che hanno diversificato le proprie fonti di sussistenza col piccolo commercio di villaggio: empori, farmacie e locande. Ad emigrare non sono i più poveri, ma i membri delle famiglie relativamente benestanti, in contatto col mondo dai porti fluviali e marittimi che dalla fine dell'Ottocento in poi sono andati vieppiù connettendo alle rotte internazionali. Grazie a conoscenti e amici, si sviluppano contatti con compaesani trasferitisi a Shanghai, in Giappone e in Europa. Alcuni hanno inizialmente intrapreso la via dell'emigrazione con l'intenzione di spostarsi in Giappone ma in itinere si sono poi trovati costretti a cambiare destinazione per ragioni di forza maggiore. Mutate relazioni diplomatiche, avverse condizioni di mercato o semplicemente migliori possibilità di guadagno.

I primi cinesi del Zhejiang a intravedere il potenziale della «piazza» italiana per il commercio ambulante sono probabilmente commercianti che intervengono come espositori o visitatori alle prime esposizioni internazionali di Milano, dal 1906. Pur trattandosi di visite temporanee, queste esperienze collocano Milano nel novero dei possibili sbocchi di mercato per le esportazioni cinesi. Nel 1926-1927 si ha una prima esperienza strutturata di commercio ambulante cinese indirizzato all'esplorazione del mercato italiano. Una ditta sino-giapponese che fabbrica perle artificiali in vetro smaltato si avvale di una sua filiale parigina per distribuire su diversi mercati europei i propri prodotti. A tal fine, avvalendosi presumibilmente di agenti del Zhejiang, recluta in Cina e in Francia come venditori quasi esclusivamente migranti della regione, che da Oltralpe giungono in Italia in numero piuttosto consistente (dalle 150 alle 300 persone). L'improvvisa diffusione di questi esotici venditori di perle a buon mercato suscita grande curiosità e anche non poche proteste. La loro merce riscuote un immediato successo, ma la diffidenza delle autorità fasciste nei confronti di soggetti «politicamente sospetti» (si paventa addirittura siano spie bolsceviche), nonché la scoperta animosità della corporazione dei commercianti ambulanti, porta alla decisione del loro allontanamento dal Regno. Malgrado ciò, pare che almeno alcuni di questi primi ambulanti riescano ad evitare l'espulsione, stabilendosi a Milano, in una zona prossima ai terreni delle fiere e delle esposizioni più importanti della città, nonché allo scalo ferroviario principale per il traffico merci tra Milano e l'Oltralpe: lo scalo Farini. La zona in questione è il Borgh di Scigolatt, o «borgo degli ortolani», storica cerniera tra la cerchia urbana cinta dalle mura spagnole e il mondo delle cascine contadine. In alcune vetuste case di ringhiera di via Canonica, a pochi passi dall'antica parrocchia della Santissima Trinità, nelle quali è possibile trovare alloggio a pensione per poche lire, si insedia il nucleo iniziale di quella che diventa la più importante e numerosa colonia di immigrati cinesi nell'Italia del primo dopoguerra. Al numero 35 muore di tisi nel 1929 il primo di questi cinesi del Zhejiang, sepolto come molti altri al Cimitero Maggiore, a Musocco. Ma si parla di un flusso migratorio vero e proprio a partire dagli anni '30, quando nelle abitazioni popolari di via Canonica e delle adiacenti vie Morazzone, Rosmini, Bruno, cominciano ad affluire immigrati cinesi giunti da altri Paesi europei (soprattutto Francia e Germania), ma anche direttamente dalla Cina.

A fungere da snodo per questo primo consolidamento della colonia cinese di Milano sono quegli apripista che dalla vendita ambulante di perle finte sono passati alla produzione artigianale di articoli destinati allo smercio ambulante: articoli di pelletteria, cravatte ecc. Sono loro a richiamare a Milano, da altri Paesi europei o dalla patria lontana, i propri parenti e compaesani, dando loro l'opportunità di rifornirsi di merce da rivendere nelle piazze d'Italia. Chi comincia da ambulante negli anni '30 ha un proprio riferimento stabile nei propri parenti o conoscenti milanesi, ma si considera un imprenditore autonomo e spesso ricorre anche a grossisti non cinesi, soprattutto nelle città portuali di Genova, La Spezia, Venezia o Napoli. Negli stessi anni, gli imprenditori che si specializzano nella realizzazione di borse e portafogli, cominciano a trasferirsi a Bologna, dove godono di opportunità privilegiate di approvvigionamento e smercio, grazie alla maggiore prossimità del distretto pellettiero toscano e alle fiorenti località turistiche della Riviera romagnola, il cui sviluppo è promosso dal regime. Contemporaneamente, il progressivo deterioramento della situazione politico-sociale in Cina, innesca una nuova ondata migratoria dal Zhejiang verso l'Europa, che rafforza le filiere migratorie che cominciano a legare direttamente i contesti di emigrazione nel distretto di Qingtian con Milano e Bologna. Nel 1936 Milano conta già una popolazione di 133 cittadini cinesi residenti. L'emigrazione verso l'Italia è verosimilmente anche facilitata dalla «luna di miele» tra il regime fascista e il governo della Cina nazionalista di questo periodo, una breve stagione di intensi scambi diplomatici, politici ed economici, agevolata dalla nomina di Galeazzo Ciano a console italiano a Shanghai dal 1930 al 1933.

Il progressivo venir meno della prospettiva di un rapido ritorno a casa tra gli emigrati spinse molti di loro a metter su famiglia con donne italiane, generalmente operaie di estrazione rurale e di recente inurbamento, perlopiù conosciute nel contesto lavorativo. Questo anche a fronte di pregressi matrimoni contratti in Cina prima di partire: pratica accettata in Cina e legittimata dalla necessità di assicurare una discendenza al lignaggio. La conversione alla fede cattolica, premessa necessaria per sancire il vincolo matrimoniale e il riconoscimento dei figli, secondo il diritto canonico consente di annullare formalmente un matrimonio contratto fuori dalla fede, mettendo al riparo i promessi sposi da accuse di bigamia. In questo progressivo inserimento dei cinesi d'Italia nel contesto socio-culturale italiano è cruciale la mediazione di alcuni religiosi, che si prodigano in una sorta di missionariato in patria. A Milano fra i primi ad attivarsi in tal senso è Don Abramo Martignoni, che tiene a battesimo diversi cinesi convertiti e poi i loro figli. L'azione della Chiesa è motivata anche dalla necessità di assistere le donne italiane che hanno avuto figli da uomini cinesi e rischiano di vederli dichiarati illegittimi. Questa prossimità con le istituzioni ecclesiastiche, specie a livello di singola parrocchia, è di grande aiuto all'integrazione dei cinesi d'Italia nelle rispettive società locali e spesso permette loro di disporre di soggetti amici in grado di contribuire un aiuto esperto in situazioni irrisolvibili, soprattutto in guerra. Trattare con simpatia dalla stampa d'impronta religiosa, tali unioni suscitano sempre un certo scalpore. A partire dal 1937, col progressivo delinearsi della politica razziale del regime, i matrimoni misti finiscono nel mirino della cosiddetta «difesa della razza». Le prime disposizioni a carattere razziale sono varate all'inizio dell'anno proprio per impedire unioni pseudo-matrimoniali («madamato») tra uomini italiani e donne dell'Africa Orientale Italiana, ma è soprattutto nei mesi che seguono la proclamazione del cosiddetto «Manifesto della razza» nel luglio 1938 che i matrimoni tra uomini cinesi e donne italiane sono apertamente condannati e stigmatizzati, spesso con toni brutali e volgari. È l'entrata in vigore del regio decreto 17 novembre 1938, «Provvedimenti per la difesa della razza italiana» - il cui articolo 1 recita testualmente: «Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto tale divieto è nullo» - a bloccare, malgrado le proteste delle autorità ecclesiastiche, la celebrazione di ulteriori matrimoni tra cinesi e italiani fino al settembre 1944, anno della sua abrogazione da parte del primo governo Badoglio (regio decreto 20 gennaio 1944). In tali anni si hanno perfino isolati e ben documentati episodi di denuncia popolare a carico di uomini cinesi e donne italiane che intrattengono legami sentimentali o sessuali, che sfociano inesorabilmente nell'internamento dell'uomo e nel pubblico ludibrio della donna.

Il censimento del maggio 1940 è volto a determinare che tipo di trattamento le diverse prefetture consigliano nei confronti dei cittadini stranieri presenti sul proprio territorio in caso di guerra: espulsione/rimpatrio, allontanamento in contesti militarmente meno sensibili, confino o internamento in campo di concentramento. Nel caso dei cinesi, si propende generalmente per il rimpatrio o l'allontanamento, ma una serie di circostanze rende impraticabili queste soluzioni. Quando il 10 giugno 1940 l'Italia entra in guerra, le vie di comunicazione con l'Oriente sono irrimediabilmente compromesse a causa del conflitto col Regno Unito, che controlla Gibilterra, il canale di Suez e l'oceano Indiano. Dato che formalmente ancora non sussiste uno stato di guerra Italia e Cina, mentre sul territorio della seconda sono presenti numerosi missionari italiani, il Ministero dell'Interno opta per una politica tollerante (con costante vigilanza) verso quei cittadini cinesi che non danno adito a preoccupazioni di ordine pubblico, risultano domiciliati in una residenza stabile e che dispongono di mezzi adeguati per garantire se stessi e alle proprie famiglie il pieno sostentamento. Questo provvedimento mette al riparo la maggior parte delle famiglie sino-italiane che si sono costruite delle piccole imprese artigiane e commerciali dalla prospettiva del confino o dell'internamento. Tuttavia, per la gran parte dei cinesi presenti in Italia in questo periodo, costituita soprattutto da venditori ambulanti, il destino è segnato. Alcune prefetture in particolare sono inflessibili nell'indicare l'internamento come la soluzione più adatta per disporre di queste persone «senza fissa dimora», che passano intere giornate sui marciapiedi di strade e piazze, viaggiano nelle diverse regioni italiane e il cui comportamento appare «naturalmente sospetto». Le zone più sensibili militarmente, perché prossime al fronte francese, confini di Stato, aree industriali o piazzeforti marittime sono dunque ritenute fuori limite per tali soggetti. Le autorità fasciste non riescono a capacitarsi come gli ambulanti cinesi riescano a sostentarsi con poche lire che guadagnano smerciando cravatte, cinture e portafogli.

L'internamento viene predisposto in strutture di carattere civile o religioso, in località remote del Centro o del Sud Italia, fino alla realizzazione di campi di concentramento veri e propri come quello di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. I primi cinesi a essere colpiti da provvedimenti di arresto e internamento nel settembre 1940 vengono principalmente indirizzati ai campi di concentramento di Tossicia e Isola del Gran Sasso in Abruzzo, ma negli anni successivi un contingente numeroso confluisce nel grande campo di Ferramonti. Non è un caso che gli internamenti di cinesi inizino nel mese in cui matura la stipula del Patto Tripartito, che istituisce formalmente l'Asse Roma-Berlino-Tokyo e sigla in modo esplicito il sostegno del regime mussoliniano al ruolo di propugnatore del «nuovo ordine» in Asia che vi si attribuisce al Giappone imperiale. Nel luglio 1941 Italia e Germania riconoscono formalmente il governo collaborazionista filogiapponese di Wang Jingwei (la cosiddetta «Repubblica di Nanchino»), rompendo le relazioni diplomatiche con la Cina nazionalista di Chiang Kai-shek. Ora i cittadini cinesi presenti in Italia sono a tutti gli effetti considerati «sudditi di un Paese nemico» e anche le disposizioni nei loro confronti si inaspriscono. Non sono più internati soltanto i venditori ambulanti, ma anche rispettabili artigiani e imprenditori che danno lavoro a decine di lavoratori e lavoratrici italiani: basta un'immagine di Chiang Kai-shek appesa alla parete, qualche giornale cinese stampato da esuli in Europa, a renderli sospetti di cospirazione antifascista. Complessivamente i cinesi avviati all'internamento nel periodo 1940-1943 sono circa 300, oltre il 65% totale dei residenti. A mettersi al riparo sono soprattutto i cinesi di Milano, in particolare quelli sposati con donne italiane e proprietari di botteghe, probabilmente grazie ai rapporti che sono riusciti a tessere nel tempo con la società locale e alcune delle sue figure più influenti. A Bologna invece le cose vanno diversamente. Più della metà dei residenti cinesi è internata, comprese alcune figure imprenditoriali in vista e di successo, che suscitano anche l'invidia degli artigiani italiani locali.
La maggior parte dei cinesi internati resta nei campi fino al 1945: tre, quattro e perfino cinque lunghi anni di privazioni, aggravate da vessazioni, dovute alla barriera linguistica, dalle incompatibilità ambientali e dietetiche, all'incomprensione e lo spaesamento sopravvenuti dopo il crollo delle proprie aspirazioni, all'angoscia di non ricevere più notizie dai propri cari e non essere più in grado di assisterli in alcun modo.

Nessuno degli internati cinesi d'Italia si riconosce nel governo fantoccio di Wang Jingwei, sono tutti patrioti convinti e fieramente antigiapponesi. Non riescono a capacitarsi del fatto che l'Italia, dopo aver intrattenuto rapporti così amichevoli con la Cina nazionalista, il cui leader è aperto ammiratore di Mussolini, abbia infine scelto di schierarsi con l'invasore giapponese. Anche dopo che gli Alleati, risalendo la penisola dopo gli sbarchi nel Sud Italia, riescono a liberare i campi di concentramento in Calabria e in Abruzzo, la maggior parte degli internati cinesi rimane nei campi, che vengono gestiti come strutture d'accoglienza per profughi di guerra. Non possono infatti raggiungere le proprie famiglie nelle città del Nord, ancora sotto occupazione tedesca. Condividono così lo stesso destino di migliaia di sbandati e di internati ebrei, rom e slavi, di diverse provenienze che dopo il lungo internamento non hanno modo di tornare alle proprie famiglie - e alcuni di fatto non possono tornarci mai più. Alla fine della guerra, molti cinesi che hanno perso tutto durante la prigionia fanno ricorso ai legami familiari e di solidarietà tra connazionali e compaesani per riparare in altri Paesi europei. Alcuni tornano in Cina, qualcuno sceglie perfino di portare con sé la moglie italiana e i figli (acquisendo la nazionalità cinese, rinunciando a quella italiana), che si scoprono così parte di una famiglia allargata che comprende altre mogli e altri figli. Ma in Cina la pace tanto duramente conquistata è terribilmente fragile, la fine della guerra col Giappone è solo il precario preludio di un conflitto devastante, la prosecuzione della guerra civile tra nazionalisti e comunisti che sfocia nella vittoria di Mao Zedong e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Una «liberazione» che suona come una condanna per molti ex-emigranti, che si vedono confiscate le terre acquistate con tanti sacrifici all'estero e si trovano costretti a riprendere la via dell'espatrio e dell'esilio.
Ma quasi la metà dei cinesi d'Italia sceglie di restare. Ostinatamente, vuole continuare a costruire qui quello che la guerra ha tentato di distruggere. Vogliono credere in un Paese che li ha derisi, insultati e traditi, spogliati dei propri beni e dei propri sogni, ma che scelgono comunque di chiamare casa per i decenni a venire. I loro figli e i figli dei loro figli sono ancora qui, eredi di un retaggio secolare che è parte integrante della nostra storia e che merita di essere ricordato con rispetto.