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Duurante il regime dittatoriale che è stato al potere in Uruguay tra il 1973 e il 1985, José Alberto Mujica Cordano che all’epoca era uno dei capi tupamaros, il Movimento di liberazione nazionale di ispirazione marxista-leninista attivo dagli anni 60, è stato detenuto in condizioni disumane, torturato e isolato dal mondo esterno insieme a diversi suoi compagni di lotta. Con il ritorno alla democrazia, divenuto leader del Movimento di partecipazione popolare, il raggruppamento maggioritario del Fronte Ampio (la sinistra uruguaiana), dopo essere stato eletto deputato e senatore è stato tra il 2005 e il 2008 ministro dell’allevamento, agricoltura e pesca. Sempre nel 2005 ha sposato l’attuale vice presidente della Repubblica e leader storica del Mpp, Lucía Topolansky. Il 30 novembre 2009 ha vinto le elezioni presidenziali. Alla fine del mandato è stato nuovamente eletto senatore ed è risultato il più votato. Vive in una piccola fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, la stessa in cui la nostra collaboratrice, l’avvocato Gabriela Pereyra, ha realizzato questa intervista esclusiva e scattato l’immagine in apertura.

Come vede lo stato di salute della “società del benessere”?

Siamo in un vortice. L’innovazione tecnologica sempre più veloce spinge sul pedale della produttività e cambia le forme di lavoro. E va di pari passo con una impressionante tendenza alla concentrazione della ricchezza. L’economia cresce ovunque, con enormi contraddizioni ma cresce. A livello globale la ricchezza aumenta ma è sempre più concentrata nelle mani di pochi, in primis nelle società più sviluppate. Ed è enorme la distanza tra chi è al vertice di questa piramide e il resto della società. Tutto ciò genera una sensazione di insicurezza e di frustrazione in ampi settori anche delle classi medie, non solo in quelle più umili. Questa incertezza è alla base del rigurgito di nazionalismi a cui stiamo assistendo. Avanza la destra che a sua volta alimenta la paura. Basta pensare a coloro che hanno votato Donald Trump. Contemporaneamente, nei Paesi avanzati, c’è uno smantellamento delle politiche sociali, indispensabili per garantire equità e benessere diffuso, per non dire della tendenza che notiamo ovunque a riformare il diritto del (e al) lavoro. Cercando di renderlo sempre più flessibile e meno tutelato, togliendo ogni sicurezza alle persone. E poi c’è il marketing. Un’arma formidabile per far aumentare nelle grandi masse la sete di consumo di novità. Uno strumento che confonde e ci fa illudere che la realizzazione di un’identità umana consista nel comprare cose nuove. Questo modello ormai è diffuso dappertutto. Con il risultato di un colossale indebitamento della gente comune che si trova a vivere alla continua ricerca di soluzioni economiche per far fronte alle rate. Anche questo produce disagio sociale. Togliendo peraltro tempo per gli affetti, per le relazioni personali, per i figli.

Come pensare e realizzare un nuovo modello di “benessere”?

Penso che confondere le persone facendo credere che la crescita economica sia automaticamente garanzia di benessere per tutti sia estremamente fuorviante e pericoloso. È necessario iniziare almeno a prendere in considerazione come la gente si sente. Bisogna cominciare, a livello politico, a considerare se i cittadini abbiano tutti gli strumenti a disposizione per realizzarsi come persone e non solo come consumatori. Non si tratta certo di fare apologia della povertà, né di tornare all’antico. Si tratta di capire che ciò che si sta sprecando non sono solo energia e mezzi materiali, ma tempo di vita e questo tempo non lascia spazio per la soddisfazione delle esigenze più personali, intime, degli esseri umani. Avere cioè tempo da dedicare alle relazioni personali (magari non invitando la fidanzata a passare il sabato pomeriggio in un centro commerciale), nelle relazioni con i figli, con gli amici, con la ricerca e l’approfondimento di interessi in ambito culturale. Indubbiamente bisogna lavorare per vivere. Chi non lavora vive a carico di qualcun altro che lavora. Ma la nostra identità non è solo quella che ci dà il lavoro. Deve esistere un tempo per lavorare e un tempo per vivere e realizzarci a pieno come persone.

È un problema che si sta verificando a qualsiasi latitudine.

Avendo molti soldi a disposizione si possono comperare molte cose. Ma non si può compare il tempo della vita, dei rapporti, quello che si passa alla ricerca della soddisfazione di esigenze che definiscono l’identità di ciascuno di noi. E la “vita” vera ci sfugge tra le mani. Allora in questo senso va fatta una battaglia culturale. Credo che la mia generazione abbia commesso…