Rutger Bregman. Il ruolo dell?utopia nel perseguimento del futuro | Avanti!

Lo storico olandese Rutger Bregman, in “Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale” scrive che, sino alla fine del Settecento, il mondo era povero: “Per circa il 99 per cento della storia del pianeta, il 99 per cento dell’umanità è stato povero, affamato, sporco, terrorizzato, stupido, malato e brutto”, al punto che il filosofo Blaise Pascal, nel Seicento, poteva dire che l’umanità era grande perché si riconosceva miserabile; ciò, per affermare che la vita era un’unica gigantesca valle di lacrime, d’accordo col suo collega inglese Thomas Hobbes, anch’egli convinto che la vita umana fosse “solitaria, povera, pericolosa, brutale e breve”.

Nei due secoli successivi al Settecento, a partire dalla Rivoluzione industriale, le condizioni esistenziali dell’umanità hanno cominciato a cambiare, per cui – afferma Bregman – in una frazione minima “del tempo passato dalla nostra specie su questo pianeta, miliardi di noi sono divenuti tutto d’un tratto ricchi, ben nutriti, puliti sicuri, intelligenti, sani e ogni tanto addirittura belli”.

Se all’inizio dell’Ottocento, l’84 per cento della popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di povertà estrema, “nel 1981 questa percentuale è crollata al 44 per cento, e oggi, pochi decenni più tardi, viaggia sotto il 10 per cento”. Questo trend sicuramente è destinato a continuare, per cui è dato ipotizzare che, almeno potenzialmente, la povertà assoluta possa essere rimossa per sempre, nel seno che coloro che oggi sono ancora considerati poveri potranno godere “di un’abbondanza senza precedenti nella storia del mondo.

Il passato era un tempo difficile per l’intera umanità, per cui è logico pensare – sostiene Bregman – che essa nutrisse utopisticamente la speranza che prima o poi sarebbe venuto “il giorno in cui sarebbe stata meglio”. Era, questa, un’utopia molto diffusa nel Medioevo: oggi, però, mutatis mutandis, considerate le condizioni in cui versa l’intero mondo, nonostante la raggiunta abbondanza potenziale per tutti, esso (il mondo) non riesce a superare l’inconcepibile e ingiustificabile residua povertà, avendo smarrito la vecchia utopia medioevale.

Per tanto tempo, l’abbondanza creatasi negli ultimi secoli è stata riservata alle ristrette élite dell’Occidente; quei giorni però, almeno potenzialmente, sono finiti, e potranno essere superarli solo con un ritorno all’utopia, non per prevedere il futuro, ma per tentare “di aprire le porte” di un futuro in cui realizzare la libertà dal bisogno di tutti. A tal fine, a parere di Bregman, occorrerà che il nuovo “pensiero utopico” non sia condiviso in “termini di progetto”, ma solo in “termini di forza idonea a consentire di superare lo status quo”.

Quando l’utopia è espressa in termini di progetto, essa è espressa attraverso regole immutabili che non tollerano alcun dissenso; in questo caso, la discrezionalità umana è compromessa e racchiusa in una “camicia di contenimento”, mentre ogni sforzo dell’uomo è indirizzato acriticamente verso il conseguimento do obiettivi predeterminati. Per contro, quando l’utopia è espressa in termini di aspirazione a superare lo status quo, essa non offre soluzioni, ma serve a sollecitare le forze intrinseche ad ogni essere umano, perché siano indirizzate verso il supermanto del presente problematico. L’utopia, espressa in termini di aspirazione, secondo Bregman, non “offre risposte preconfezionate”, pone solo “domande giuste”.

Oggi, però, la speranza di un mondo migliore è divenuta un orizzonte quasi impensabile, avendo l’umanità smesso di domandarsi come ci si possa indirizzare verso di esso; mentre le “aspettative su quello che possiamo ottenere come società – afferma Bregman – sono state clamorosamente limitate, lasciandoci solo la dura, fredda verità che senza l’utopia rimane solo la tecnocrazia. La politica è stata annacquata fino a diventare gestione dei problemi e gli elettori oscillano non perché i partiti siano diversi, ma perché si stenta a distinguerli l’uno dall’altro”. Oggi, infatti, “destra e sinistra sono separate soltanto da uno o due punti percentuali di aliquota nelle imposte sul reddito”. Quello che conta per una simile politica è raggiungere l’obiettivo della crescita economica fine a se stessa, per cui pian piano la qualità politica è “scalzata dalla quantità”.

Il degrado della politica è stato causato dall’ideologia neoliberista, una ideologia che, per Bregman, è totalmente priva di senso; essa ha ispirato un’attività politica il cui unico compito è quello di “rappezzare la vita”, spostando sempre più la ragion d’essere del welfare State dalle cause dei disagi sociali, nascenti dalle ineguaglianze distributive, ai loro “sintomi”, cioè alla sensazione che i fruitori dei servizi sociali hanno del proprio star male, per via della loro debolezza economica; anziché risultare impegnata a rimuovere la causa delle disuguaglianze, la politica si è ridotta ad insistere nell’ampliare l’attività caritatevole, attraverso la realizzazione di pratiche assistenziali.

E’venuto il momento, afferma Bregman, che la politica si renda definitivamente conto che il capitalismo ha effettivamente condotto l’umanità al “Paese di Cuccagna” e a “spalancare i cancelli della Terra dell’abbondanza”; ma, ora, che il capitalismo, da solo, non è più in grado di funzionare stabilmente e neanche di poter conservare i traguardi raggiunti, è venuto il momento di ricuperare il pensiero utopico, per assicurare alla politica una “nuova stella polare, una nuova mappa del mondo, che ancora una volta comprenda un lontano continente dimenticato dalla carte: ‘Utopia’”. Con ciò, secondo Bregman, la politica non dovrà tendere al perseguimento degli “inflessibili progetti degli utopisti fanatici”, ma alla proposizione di “orizzonti alternativi”, che accendano l’immaginazione e promuovano la propensione ad agire, tenendo conto che gli orizzonti alternativi sono la “linfa della democrazia”.

Di che cosa ha bisogno oggi il capitalismo per continuare a sopravvivere e a tenere costantemente l’umanità in condizioni di abbondanza? Ha bisogno, risponde Bregman, della distribuzione di “soldi gratis”. E’, questa, un’idea che lo storico olandese ricorda d’essere stata già avanzata da grandi pensatori del passato e che, recentemente, è stata ripresa da economisti e filosofi, a sua dire “distribuiti lungo tutto l’arco che va da sinistra a destra, sino ai fondatori del pensiero neoliberista, Friedrich von Hayek e Milton Friedman”; tutti, indistintamente, affermano che un giorno l’umanità potrà disporre dei soldi gratis nella forma di un “reddito universale di base” o “reddito di cittadinanza”, la cui ora sarebbe arrivata, non già nella veste di favore ma in quella di diritto.

L’integrazione del capitalismo attraverso la distribuzione di soldi gratis, nella forma di un’erogazione mensile di un reddito universale e incondizionato a tutti i cittadini, senza che questi siano sottoposti a una qualche forma avvilente della “prova dei mezzi”, è sempre stata contestata da quanti temevano che con un reddito garantito sarebbe calata la propensione a lavorare. I numerosi esperimenti condotti in molti Paesi hanno dimostrato la non fondatezza del timore che i beneficiari del redito di cittadinanza preferiscano l’ozio al lavoro.

Gli esperimenti, infatti, hanno evidenziato che, con l’erogazione del reddito di cittadinanza, è successo l’opposto, mettendo in risalto tra l’altro, che uno dei bonus di questa forma di reddito è che esso, non solo libera i poveri e i disoccupati dalla “trappola del welfare”, ma li motiva anche a “cercare un lavoro pagato con reali possibilità di crescita e avanzamento”. Nelle attuali condizioni di operatività del capitalismo, il welfare, che dovrebbe garantire sicurezza e amor proprio a chi versa in stato di necessità, è – secondo Bregman – “degenerato, diventando un sistema fatto di sospetto a vergogna”, per via di un patto grottesco tacitamente convenuto tra destra e sinistra: la destra teme che la gente smetta di lavorare, e la sinistra teme che possa scegliere da sola.

Bregman sostiene che, per evitare l’instabilità del ciclo economico e gli enormi costi dovuti alla persistenza crescente delle ineguaglianze sociali, il capitalismo avrebbe dovuto accettare l’introduzione del reddito di cittadinanza già da tempo, ritenendolo, tra l’altro, oltre che un mezzo per garantire stabilità ed equità distributiva, “un dividendo del progresso propiziato dal sangue, dal sudore e dalle lacrime delle generazioni passate”, considerando che l’approdo alla “Terra dell’abbondanza” è stato reso possibile “grazie alle istituzioni, al sapere e al capitale sociale accumulati per noi dai nostri antenati”. Non avendolo fatto per tempo, il capitalismo si trova ora davanti alla necessità di un cambiamento radicale rispetto al modo in cui ha sinora funzionato. A tal fine, avrebbe bisogno del supporto di un’attività politica appropriata; la politica, però, non sembra all’altezza, né sembra disponibile ad un’azione favorevole al cambiamento del quale il capitalismo ha bisogno, per continuare a garantire un futuro certo e stabile all’umanità.

Storicamente, osserva Bregman, la Politica, con la P maiuscola, “è sempre stata terreno di caccia della sinistra”; questa però, oggi, “sembra essersi dimenticata dell’arte della politica. Ancor peggio, tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per paura di perdere voti”, originando il fenomeno del “socialismo perdente”. Ciò, perché il socialismo si è ridotto ad essere portatore solo di un “sovraccarico di compassione”, limitandosi a trovare “profondamente ingiuste le politiche correnti”, nonostante che il welfare (conquista del socialismo) ormai abbia mostrato di non essere più idoneo a fare fronte al fenomeno della disoccupazione tecnologica strutturale. Anzi, aggiunge Bregman, nei momenti di maggior crisi il socialismo perdente “si piega alle tesi dell’opposizione”; ciò accade quando accetta acriticamente premesse del tipo: il debito nazionale è fuori controllo, è troppo costoso combattere la povertà e introdurre un reddito di cittadinanza, l’austerity va realizzata perché è l’Europa che la vuole; premesse, queste, tutte smentite dall’esperienza. In tal modo, il socialismo perdente si è ridotto a svolgere l’unica missione di tenere a freno l’opposizione.

Il socialismo, perciò, conclude Bregman, per riproporsi oggi come forza politica moderna e innovativa, aperta alla comprensione dei problemi posti dal capitalismo moderno, deve divenire “un faro non solo di energie, ma anche di idee, non solo di indignazione ma anche di speranza”, riconoscendo che il capitalismo attuale non può più essere governato con provvedimenti tampone, ma richiede scelte strutturali che valgano a renderlo operante in modo stabile ed equo sul piano distributivo. A tal fine, occorre che il socialismo si apra alle ragioni dell’istituzione del reddito di cittadinanza, assumendone l’introduzione e la desiderabilità anche come utopia contro tutte le opposizioni, ricordando che nel passato, anche quelli che, ad esempio, si opponevano all’abolizione dello schiavismo o alla adozione della democrazia, alla fine sono stati sconfitti dalla storia.

L’analisi di Bregman sul ruolo dell’utopia, sull’incapacità del capitalismo di poter continuare da solo, senza il supporto di un cambiamento istituzionale fondato sulla sostituzione dell’attuale welfare con l’introduzione del reddito di cittadinanza e del ruolo che in tal senso potrebbe svolgere il socialismo, è condivisibile; ciò che lascia molto perplessi è il fatto che egli abbia potuto affermare che l’idea di distribuire “soldi gratis” a tutti in modo incondizionato, al fine di far funzionare meglio il capitalismo, sia condivisa anche dai fondatori del pensiero neoliberista, Friedrich von Hayek e Milton Friedman; non è però così, perché l’idea neoliberale di distribuire soldi gratis a tutti non risponde alle ragioni di sinistra dell’istituzione del reddito di cittadinanza.

E’ vero che i neoliberisti sostengono la necessità dell’attuazione di politiche redistributive realizzate mediante l’erogazione di un minimo di risorse alle fasce più povere dei cittadini; essi però lo sostengono, perché convinti che la distribuzione dei soldi gratis servirebbe a rimuovere gli squilibri disfunzionali del mercato. Il favore mostrato dai neoliberisti per l’erogazione gratuita di risorse non dimostra la loro apertura verso l’istituzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, senza prova dei mezzi.

La motivazioni dei neoliberisti su questo punto sono infatti suggerite, oltre che dall’esigenza di un più corretto funzionamento del mercato, dalla necessità di rendere minimo l’intervento pubblico nell’economia, nonché di contenere la discrezionalità del potere politico riguardo alla costruzione di un sistema di welfare sempre più allargato, onde evitare che questo si traduca in uno strumento volto a realizzare una sconveniente distribuzione ugualitaria.

Al riguardo, non va dimenticato che i neoliberisti, pur di depotenziare il ruolo dello Stato nel governo dell’economia, non hanno esitato a teorizzare che i diritti umani confliggono con il libero funzionamento del mercato e che i regimi democratici sono largamente inadeguati nell’eliminare le ineguaglianze sociali, essendo tale inadeguatezza permanente perché strutturale. La sconfitta politica del neoliberismo deve costituire il “nocciolo duro” della nuova utopia socialista.