di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 20-21 maggio 1981.


L’iconografia repubblicana è sempre la più rara. Partito di opposizione, all’inizio catacombale e clandestina, poi dichiarata e spiegata, alle istituzioni monarchico-costituzionali scaturite dall’unità, partito di radicale alternativa al sistema, osteggiato e contrastato in tutte le forme, il repubblicanesimo non ebbe neanche la possibilità di esprimersi in una “grafica” popolare e capillare quale accompagnò, dopo l’abbandono dell’anarchismo, il movimento socialista. Già nell’agiografia iconografica del Risorgimento, Mazzini aveva avuto un posto di tanto minore a quello di Vittorio Emanuele II o di Cavour; fra le immagini popolari degli anni fra il ’59 e il ’70 (soprammobili, pipe, fazzoletti, allegorie, ritratti, “santini” laici) è rarissimo trovare il volto del profeta dell’unità, del “Mosè dell’unità”, come lo aveva chiamato Francesco De Sanctis, quel tanto della tradizione repubblicana che si inseriva nella cornice dell’unità faticosamente raggiunta si immedesimava con le sembianze di Garibaldi, proprio mentre più profondo si faceva il contrasto fra il nizzardo e il genovese, destinato a culminare nei giorni infuocati della Comune.
All’indomani della liberazione era pressoché impossibile trovare, nelle pubbliche biblioteche sopravvissute ai tagli o alle censure del regime, opere di documentazione relative alla storia del movimento repubblicano, già considerato nell’età giolittiana come un movimento sovversivo (in contrapposizione alla disponibilità transigente della “Monarchia socialista”) e poi del tutto espunto o cancellato negli anni della dittatura. Il vuoto sul repubblicanesimo era perfino più ampio e sconcertante di quello che riguardasse l’altra opposizione di versante opposto all’intransigentismo laico, cioè l’opposizione cattolica.
Il giovanissimo storico delle opposizioni, che allora si volle cimentare con la storia sconosciuta e segreta dell’Italia anti-monarchica e dell’Italia anti-sistema, incontrò difficoltà forse maggiori nel reperire il materiale, documentario o archivistico, sulla genesi del partito repubblicano nella diaspora dopo Mazzini, piuttosto che nel riordinare le fila del proto-partito cattolico, della revanche guelfa contro lo Stato unitario.
Ecco perché assume un particolare valore, un valore di testimonianza storica oltre che di fedeltà civile e politica, questo volume sulla storia del PRI attraverso le tessere del partito e delle associazioni contermini, promosso e raccolto con infinita pazienza e con caparbia tenacia da Sergio Gnani e dagli amici di Ravenna, fino al traguardo attuale: un traguardo ancora perfettibile per le lacune da colmare, particolarmente nell’età giolittiana (quel 1907, quel 1908) e tale quindi da legittimare una seconda edizione dell’opera figlia di tanto amore disinteressato.
Quando scrissi la prima storia del movimento repubblicano, oltre trent’anni fa, grazie all’aiuto generoso di Giovanni Conti e ai fondi della sua biblioteca privata, il vecchio senatore galantuomo, già “in gran dispitto” verso il partito, mi fece vedere talune tessere degli anni qui ricompresi, particolarmente il 1922, il 1923, il 1924, con fregi immaginosi alla De Carolis resistenti attraverso il flusso degli anni. Ma Conti ostentava quasi un disinteresse verso la “simbologia” repubblicana, che gli pareva confinasse con la retorica e con la liturgia commemorativa, da cui aborriva, per il suo spirito schietto, essenziale, concretistico, in cui riviveva una vena di Cattaneo, sia pure filtrata attraverso Arcangelo Ghisleri. Il partito, secondo Giovanni Conti, era in primo luogo un momento della coscienza, vorrei dire, con linguaggio mazziniano, “una scelta dell’anima”.
Eppure la ricostruzione dei segni grafici caratterizzanti dell’evoluzione repubblicana nel corso di un ottantennio ci aiuta a penetrare la storia del partito, costituisce un momento non secondario nell’approfondimento o meglio ancora nel ricupero di quella dimensione storiografica del movimento repubblicano che, intuita nell’immediato dopoguerra, registra oggi gli avanzamenti più significativi. Fu l’amico Oronzo Reale, non più tardi di un anno fa, pochi mesi dopo la mia elezione alla segreteria, a passarmi la tessera del 1903 intestata a Enrico Berlinguer, il nonno dell’attuale segretario del PCI, iscritto alla sezione di Sassari, n. 6193, perché ne inviassi la riproduzione al “leader” comunista forse interessato a tornare con la memoria alle scaturigini repubblicane di una famiglia legata, vent’anni più tardi, alla stessa parabola dell’ “Unione democratica nazionale” amendoliana (l’Unione dove militava il giovanissimo Ugo La Malfa).
E debbo dire che, scorrendo il complesso di tessere raccolte dagli amici ravennati, sono tornato con la mente alla polemica fra Ugo La Malfa e Gaetano Salvemini, dei primi del 1954, proprio nei mesi successivi alla crisi della formula centrista e al graduale e poi totale distacco del PRI dai superstiti governi dell’area centrista. Sulle colonne del “Mondo” di Mario Pannunzio, care a tutta una generazione, Salvemini aveva propugnato una specie di confederazione o fusione dei tre partiti laici (o “partitini”, come si diceva nel linguaggio arrogante del tempo, con qualche compiacenza degli opposti integralismi), dal PLI al PRI al PSDI, ma con particolare riguardo ai primi due – qualora nel terzo era sopravvissuto un residuo di ortodossia socialista. Masse per un partito [https://www.facebook.com/notes/ugo-l...8332694989056/, ndr]: fu la risposta, argomentata e meditata, che La Malfa affidò alle colonne di una rivista nascente ma dall’eco profonda proprio nella regione emiliano-romagnola, cioè il “Mulino” di Bologna (quella replica di La Malfa è integralmente ristampata nel “dossier” che ho curato per le Edizioni della “Voce”, Fra terza via e terza forza).
“Quello che contraddistingue il partito repubblicano – incalzava La Malfa – dai due partiti di democrazia laica che gli stanno a fianco, è di essere poco (assai poco) partito di ‘opinioni’, e quindi di élites, e molto partito di ‘iscritti’, come è in grande il partito comunista”. “Più partito degli altri”: lo definiva, con lucida percezione storica, con attento giudizio politico, l’ex-ministro del commercio con l’estero ancora lontano dalla conquista della leadership del partito, da misurare attraverso il travaglio del decennio imminente. “Più partito degli altri anche se limitatamente ad alcune regioni”: per quel sentirsi centro di militanza e di aggregazione politica, per quel rappresentare un punto di riferimento ideologico, per rispecchiarsi in una visione della vita, in un modello di società, con tutte le sue chiusure, le sue asprezze, le sue intransigenze, le sue ostentazioni, le sue speranze e anche le sue illusioni.
“Se il mio amico Salvemini – continuava La Malfa – per soddisfare la sua curiosità di storico, volesse prender parte ad un’assemblea di repubblicani nelle zone tradizionali, si accorgerebbe che la massa è presente in queste assemblee con le stesse caratteristiche sociali della massa comunista e con caratteristiche che nessuna assemblea del partito liberale e forse dello stesso partito social-democratico presenterà mai”.
“Piccolo partito di massa”: lo aveva chiamato Togliatti fin dai primissimi anni della liberazione, con un giudizio che coglieva nel segno, che entrerà facilmente nella pubblicistica politica. E questo volume è in realtà la storia, per immagini, di un piccolo partito di massa; di un partito che nasce nel segno dell’edera, cioè della “costanza”, secondo la simbologia greca, della fedeltà a una certa idea dell’Italia, tanto più sentita quanto più inattuale e impopolare. Un segno repubblicano che corrisponde a una tradizione politica, vissuta e sofferta come tale.
Fin dal 1897, dalla prima tessera del circolo “Giuseppe Mazzini” di Torino alla cittadina Villa Teresina, il movimento repubblicano non si accontenta dell’adesione distratta ma esige la militanza strenua e appassionata; non cerca il simpatizzante (secondo la logica della associazioni variamente digradanti verso il liberalismo, non partito ma Stato, non forza politica ma informe maggioranza parlamentare) ma vuole l’attivista, l’ “agitatore”, come un tempo si diceva. Ecco perché la tessera contiene tutto ciò che possa servire a rafforzare l’organizzazione, partendo da un proselitismo tenace, capillare, rischioso (l’immagine del 1899 non deve far dimenticare che quell’anno il congresso nazionale del partito si tenne a Lugano, e non solo in omaggio alla memoria di Carlo Cattaneo: la reazione imperante aveva strappato alla legalità quel movimento che solo da quattro anni era rientrato nell’ambito della dinamica istituzionale accettando gli strumenti della battaglia parlamentare-politica e rinunciando al non expedit laico, al “voto di castità politica”, come io lo chiamai un trentennio fa).
Proprio a partire dal 1899, sul retro delle tessere viene riprodotto il succinto ma essenziale programma del partito, approvato dal congresso di Firenze del 1897, insieme allo “statuto-regolamento”, sintesi dei diritti e dei doveri di ciascun iscritto; e mazzinianamente prevalenti i secondi sui primi.
“Il Partito Repubblicano d’Italia, rievocando le gloriose tradizioni de’ suoi precursori e maestri, riafferma la indissolubilità del problema economico-morale dalla questione politica. Mentre non crede possibile il progresso morale senza il miglioramento delle condizioni economiche dei proletari, ritiene però che nel pauperismo e nella dipendenza economica non risiedano le sole cause dell’asservimento morale e materiale del popolo. Guarda al problema sociale, come ad un problema complesso, essenzialmente morale, e cerca nelle forme di un reggimento a base di libertà il mezzo primo di educazione dei cittadini alla dignità, alla fierezza, alla virtù civile, assicurando al popolo la costante e diretta partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica”.
È un testo che si ripeterà senza varianti, con inflessibile ostinazione, per tutto il corso dell’età giolittiana: quasi ad alzare le barriere della preventiva resistenza repubblicana al trasformismo giolittiano incline verso una specie di riformismo sociale, capace di svuotare i profondi motivi dell’opposizione istituzionale. Questione istituzionale e questione sociale finivano invece per identificarsi nell’ascesi repubblicana, che si proiettava verso un domani non prossimo, saltando a piè pari la fase progressista della Monarchia. Quella che si spezzerà nell’interventismo e poi, per via strettamente connessa, nel fascismo (non a caso, il 13 dicembre 1903, il neo-presidente del Consiglio Giolitti rispondeva a Barzilai che il suo massimo obiettivo era di dimostrare “con un regime di libertà e di riforme che il partito repubblicano non aveva ragione di essere, perché qualunque progresso può essere raggiunto col regime che abbiamo”).
Solo più tardi, quando la stagione giolittiana svolta verso la guerra di Libia e la prosa giolittiana si increspa con le prime onde limacciose del nazionalismo e del dannunzianesimo, alle lapidarie tessere dei primi anni si aggiungeranno le “norme per la costituzione dei gruppi e delle sezioni”; in quella del ’13 l’elenco degli organi direttivi del partito e le rispettive attribuzioni. Organi, specie quelli centrali, esigui, scarnificati, ridotti all’osso, in rapporto all’estrema povertà di risorse finanziarie, che non consentiva di mantenere veri e propri apparati (ammesso che a quei tempi le burocrazie di partito fossero concepibili!) e costringeva quasi ad identificare l’organo con la persona ad esso predisposta: “rivolgersi sempre – avverte la tessera del 1913 – per tutto ciò che riguarda il Movimento politico nazionale del partito al segretario della Commissione Esecutiva: Oliviero Zuccarini, via Pietro Cossa 13 – Roma”. Zuccarini, l’uomo così caro a Gobetti, il solo repubblicano o quasi che Gobetti salvasse dai giudizi severi sulla “Rivoluzione liberale”, era il precursore dei segretari di partiti del dopoguerra: e chi ne ricorda lo stile dimesso, schivo, salveminiano, ritrova un abito da cui i repubblicani, pure in mezzo a tante traversie, non si scosteranno mai.
Dalle tessere raccolte un altro elemento emerge: la concezione austera delle finanze del partito. Nel solco del mazzinianesimo di una volta; nello spirito di una cospirazione che aveva sempre vissuto col volontariato, controcorrente, nello spirito di un missionarismo venato da spirito di apocalisse laica (quel fermento etico-politico inseparabile dal “ruscello” mazziniano, come lo chiama Jemolo, e che fa del filone repubblicano il solo filone in cui respiri, nell’Italia moderna, una vena o vibrazione di “riforma religiosa”: Dio e popolo). “Tutti i repubblicani debbono abbonarsi e procurare lettori ed associati all’organo ufficiale del partito, ‘La Ragione’”: avverte la tessera del 1912, specificando le condizioni e le modalità dell’abbonamento. Le esigenze finanziarie si sposano con quelle della propaganda.
Non a caso la tessera dell’anno successivo – si avvicina il suffragio universale – fissa le norme di contribuzione degli iscritti fondandole rigidamente sul principio della progressività, che era un punto fermo del programma sociale repubblicano: “gli iscritti al partito debbono contribuire alla Cassa centrale con una quota volontaria progressiva corrispondente alle proprie possibilità economiche non inferiori a L. 1,30 l’anno” (si era cominciato, all’inizio del secolo, dalla quota minima di L. 0.60). Neppure manca nelle tessere una descrizione puntigliosa dell’uso che l’amministratore avrebbe fatto delle somme così raccolte. Gli impegni finanziari del PRI pubblicati addirittura sulla tessera! Bisognerà attendere oltre sessant’anni, e il regime del finanziamento pubblico, e gli emendamenti repubblicani fra 1980 e 1981, perché gli altri partiti, recalcitranti od ostili, si adeguino allo stesso criterio di pubblicità delle proprie finanze, e in forme che attendono ancora il suffragio dell’esperienza (senza rinunciare allo stimolo dell’esempio).
Ma anche una storia del costume e della società italiana non potrà prescindere dal frutto paziente e amoroso delle ricerche degli amici ravennati. Le tessere repubblicane, non solo del partito ma anche della federazione giovanile o delle associazioni collegate, a cominciare da quella, patetica, che Arcangelo Ghisleri fondò a Cremona nel 1902 nel nome del Libero Pensiero e che raccolse l’adesione di Ada Negri e si batté per la riforma della scuola italiana per l’emancipazione della donna, quelle tessere – dicevo – ritmano, coi i loro messaggi grafici, le evoluzioni, le trasformazioni, le stesse contraddizioni del gusto nazionale. Nella tessera del ’99, nella solitudine della rinnovata cospirazione, nello stato di semi-illegalità collegato alla parentesi Pelloux, l’edera indica l’amicizia costante, la solidarietà operosa contro il pericolo liberticida, per i più passionali “l’amore che non conosce distacco”.
Nel 1902 comincia ad affiorare l’effige di Mazzini (non è lontana l’adozione dei Doveri dell’uomo nelle scuole regie, non è lontana la svolta dell’edizione nazionale del grande animatore dell’unità, con tutte le relative infuocate polemiche parlamentari). I brividi del sindacalismo rivoluzionario, così vicini al filone repubblicano, si avvertono nei fasci rivoluzionari della tessera del 1909; le vanghe, le incudini, i martelli da fucina confermano la sensibilità del PRI verso la questione sociale, il suo costante collocarsi a sinistra del PSI, troppo inserito nella logica corruttrice del riformismo monarchico regolato dalla demiurgia giolittiana. E poi i berretti frigi, le catene spezzate, le spade e i pugnali sulle tessere della federazione giovanile: ecco tutto ciò che rievoca il passato insurrezionale del partito in previsione della prova, non positiva e non decisiva, della Settimana rossa.
“Ricostruire”: è il motto della tessera dell’ “Unione italiana del Lavoro”, la UIL del 1919. E la grafica repubblicana, abbastanza simile a quella della maggiore componente sindacale ispirata al partito, perde il carattere rituale del rivoluzionarismo un po’ stereotipo che si richiamava sempre agli esempi di Barsanti, senza fare seguire le parole ai fatti: sono gli anni delle animose “Avanguardie repubblicane”, contrapposte ai fenomeni di cedimento allo squadrismo fascistico registrato soprattutto in Romagna.
E il partito prepara, con le tessere dispiegate e coraggiose del ’24 e del ’25, il suo futuro, futuro che dall’Aventino lo condurrà alle battaglie dell’emigrazione antifascista congiunte alla resistenza in patria. Creando le condizioni per la ripresa del dopoguerra (e le “Brigate Mazzini”, amico Biasini, costituiscono un momento significativo non meno in questa raccolta che in questa storia). Fino alla cesura netta che possiamo fissare nel 1965, quando il segno grafico della tessera si asciuga, perde ogni vaporosità romantica. Comincia ad avvertirsi l’impronta della leadership lamalfiana, volta a imprimere il segno di un rinnovamento politico, il nuovo PRI, che si traduce anche nella veste esteriore, che supera forme di liturgia devozionale nel momento in cui raccoglie il depositum fidei, al servizio di una certa idea della democrazia e dell’Italia, di una integrale riforma democratica della società.
La modernità è ostentata e assume talvolta forme avveniristiche: là dove si avverte l’influenza delle correnti di avanguardia che mettono a frutto la lezione appresa dai mass media, dalle tecniche di comunicazione proprie della società industriale avanzata. Il partito repubblicano si allarga fino a identificarsi col “partito della democrazia” intravisto e auspicato, sulle colonne della “Nuova Europa” nel luglio 1945, da Luigi Salvatorelli. Tornano in meno le parole finali della replica di Ugo La Malfa a Salvemini, in quel lontano 1954: “il compito di chi guarda alla democrazia come problema angoscioso della vita italiana è di non perdere le sementi democratiche e socialiste risorgimentali e post-risorgimentali che ancora esistono e di costruire su di esse il partito di una più civile e moderna Italia”. Cioè dell’altra Italia.


Giovanni Spadolini



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