Era opinione diffusa che la caduta del regime mussoliniano avrebbe notevolmente indebolito la posizione della Chiesa cattolica e restituito vitalità all’anticlericalismo militante. E in effetti, fra il 1942 e il 1943, nello schieramento antifascista si erano levate numerose voci per invocare la resa dei conti con il Vaticano. Fra i più oltranzisti figuravano alcuni esponenti dell’area che si andava raccogliendo intorno al nascente Partito d’azione, come Lionello Venturi e Riccardo Bauer. Persino Salvemini si irrigidì su una linea più intransigente rispetto a quella che aveva espresso negli anni precedenti e, pur dichiarandosi ancora favorevole al mantenimento del Trattato, invocò un suo ridimensionamento e misure punitive nei confronti della Chiesa.

Accadde invece che, limitatamente almeno al periodo fra il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945, l’attesa ondata di anticlericalismo non si verificò. Anzi, secondo un osservatore attento come Arturo Carlo Jemolo, i due anni circa trascorsi tra l’abbattimento del regime fascista e la liberazione dell’Alta Italia rappresentarono «il periodo della maggiore distensione tra clero e cattolici politici da un lato, estrema sinistra dall’altro». In quel periodo vi fu una forte sintonia fra gli uomini di governo italiani e la Santa Sede, la quale – giova ricordarlo – non riconobbe la Repubblica di Salò e, per l’intensa attività svolta in campo umanitario e assistenziale, vide la propria posizione alla fine della guerra notevolmente rafforzata sia a livello internazionale che nella considerazione dell’opinione pubblica italiana.

Il Partito comunista, nei confronti del Vaticano e dei cattolici, non ebbe difficoltà a proseguire nella politica della ‘mano tesa’, che era stata inaugurata da Togliatti a metà degli anni Trenta. Così, in una dichiarazione ufficiale del PCI datata 30 settembre 1944, si definiva la libertà di religione «una questione di principio» e si ribadiva che i comunisti erano «sempre stati avversari della lotta anticlericale che fu un tempo tradizionale in certi ambienti politici del nostro Paese». Persino l’«Avanti!» nel giugno 1945 parlava di «sepoltura dell’anticlericalismo» e, sul medesimo giornale, alcuni mesi prima Fausta Giani aveva scritto: «L’anticlericalismo che oggi ci si imputa è tramontato come è tramontato nel campo scientifico e filosofico, che ne erano imbevuti come quello politico quando il nostro movimento si formò».

Nondimeno, fin dalla vigilia del 25 aprile e soprattutto a partire dal 1946, quando si riaccese la competizione fra i partiti in vista delle varie scadenze elettorali e cominciò a profilarsi il ruolo centrale della Dc nel sistema politico italiano, si registrò una nuova fiammata anticattolica e antireligiosa, che in alcune località, come in Emilia-Romagna, assunse connotati estremi e dette luogo a vendette e violenze contro preti e vescovi. Già nel febbraio 1945 Igino Giordani, in un articolo apparso sul giornale dell’Azione cattolica, poté così parlare di «rigurgiti d’anticlericalismo», che si accentuarono dopo le istruzioni impartite ai vescovi dalla Concistoriale di Pio XII. Essa faceva obbligo ai cattolici di recarsi alle urne e di dare il loro voto soltanto a quei candidati e a quei partiti che si fossero impegnati a difendere «l’osservanza della legge divina e i diritti della Religione e della Chiesa nella vita privata e pubblica».

La massoneria, che avviò il proprio iter di rifondazione all’indomani del 25 luglio, cercò ancora una volta di farsi interprete degli umori laicisti che allignavano nel mondo liberal-democratico e socialista e di proporsi, come già era avvenuto per tutta l’età liberale, quale luogo d’incontro e di mediazione fra le varie forze politiche che in esso gravitavano. Anche il Grande Oriente d’Italia, peraltro, prese le distanze dalla tradizione anticlericale del periodo prefascista e il primo gran maestro eletto dopo la liberazione, Guido Laj, nel suo discorso d’insediamento del novembre 1945 si preoccupò anzitutto di smentire la «leggenda» di una massoneria «dipinta come un’accolta d’atei, di bestemmiatori, di senza-Dio, a null’altro intenti che a distruggere il sentimento religioso e la legge morale». Occorre dire, in ogni caso, che nel nuovo contesto sociale e politico del secondo dopoguerra la massoneria avrebbe giocato un ruolo tutto sommato marginale, e comunque non comparabile con quello che aveva svolto nell’età liberale. Il declino stesso della sua capacità di influenzare la sfera pubblica può essere interpretato come un indicatore del tramonto delle istanze anticlericali nella società e del venir meno del laicismo come tratto identitario di un ampio segmento del fronte politico, che andava dai liberali alla sinistra democratica e socialista. Come già in passato, inoltre, la massoneria del secondo dopoguerra non si identificò con un solo partito, né fu in grado di vincolare i propri affiliati al perseguimento di determinati obiettivi politici. A tal proposito, non pare irrilevante ricordare che tra coloro i quali votarono a favore dell’art. 7 della Costituzione, con cui nel marzo 1947 si sancì la «canonizzazione costituzionale» dei Patti Lateranensi, vi furono alcuni illustri costituenti che vantavano lunghi trascorsi massonici. Valgano per tutti i nomi del demolaburista Meuccio Ruini e del liberale Epicarmo Corbino.

L’acme della mobilitazione anticlericale si raggiunse fra l’autunno del 1946 e la primavera del 1947, quando videro la luce anche alcuni fogli satirici che cercarono di rinverdire la tradizione de «L’asino». Il più noto di essi fu il «Don Basilio», che si stampò a Roma dal 12 settembre 1946 e nel volgere di un paio di mesi arrivò a tirare ben 130 mila copie, vendendone trentamila nella sola capitale. Quali fossero i suoi bersagli polemici apparve chiaro fin dal primo numero, su cui campeggiava il titolo a caratteri cubitali De Gasperi è un fantoccio manovrato dalla Compagnia di Gesù, seguito da articoli in cui si attaccava il clero e si insisteva sulla sottomissione del governo agli interessi del Vaticano. A questo settimanale, che cessò le pubblicazioni nell’aprile 1950, si affiancò dal dicembre 1946 «Il Mercante», che si stampò nella stessa tipografia del «Don Basilio» e a distanza di tre mesi vantava una tiratura di quarantamila copie. Lo stesso gruppo di collaboratori del «Don Basilio» e de «Il Mercante» dette poi vita nel novembre 1946 a «Il Pollo», un periodico socialista diretto da Ruggero Maccari che già il mese seguente fu condannato a due anni di reclusione «per offesa alla religione e al clero e per pubblicazioni oscene». Il successo di queste testate indusse il fronte clericale a correre ai ripari e a pubblicare a sua volta un giornale satirico, «Il Rabarbaro», che nel maggio 1947 tirava cinquantamila copie ed ebbe come redattore responsabile Lamberto De Camillis, giornalista dell’«Osservatore romano» e del «Quotidiano», organo dell’Azione cattolica.

L’importanza di questi fogli trascende la modestia dei loro contenuti e la trivialità delle argomentazioni. Tra il 1946 e il 1947 essi fecero infatti da volano alla diffusione di un movimento anticlericale, che assunse veste organizzata e si irradiò in quasi tutto il paese. In almeno 45 province e 55 località si costituirono in rapida successione circoli di «Amici di Don Basilio», intorno ai quali nacquero altre associazioni che svolsero un’intensa campagna anticlericale. Ad Acqui, per esempio, nell’autunno del 1947 si formò un’Unione proletaria sovversiva anticlericale; a Novara fu attivo un circolo dell’Associazione nazionale libero pensiero; a Carrara all’inizio del 1947 si costituì un Circolo Giordano Bruno che ammetteva come soci «gli anticlericali dai 15 anni compiuti»; a Firenze operò un sedicente Movimento d’azione anticlericale; a Livorno, fin dall’agosto 1945, ricomparve il Gruppo antireligioso Pietro Gori; a Volterra nell’ottobre 1947, per iniziativa del Gruppo libero pensiero «Amici di Don Basilio» si svolse una «settimana anticlericale». Uno dei nuclei più importanti fu il Movimento anticlericale per la laicità dello Stato, che sorse a Roma nel dicembre 1946 presso la sede del «Don Basilio». Ne raccolse l’eredità un sodalizio quasi omonimo, il Movimento italiano per la laicità dello Stato, che vide la luce a Milano, nel novembre 1947, nella sede dell’Associazione lombarda pro-divorzio.

Il voto sull’art. 7 sancì la bruciante sconfitta di queste frange anticlericali e al tempo stesso rivelò quanto esse fossero ormai marginali in un quadro politico nazionale, che proprio in quell’occasione vide chiudersi definitivamente la questione romana e i cattolici assumere un ruolo chiave nelle istituzioni e nel sistema politico del nuovo Stato repubblicano. Per quanto minoritarie, le correnti laiche esprimevano comunque istanze assolutamente legittime, che esse avvertivano come signacolo di libertà e di democrazia, e nella cui negazione videro una forma di perpetuazione dell’autoritarismo fascista contro la quale occorreva riprendere la lotta. Quel voto, che pure divise anche i partiti laici di matrice liberal-democratica e socialista, lasciò dunque una ferita aperta e non riuscì certo a colmare la frattura fra laici e cattolici che aveva caratterizzato tutta la storia dell’Italia unita. Rispetto al 1870 le parti si erano invertite, e gli sconfitti di oggi, gli anticlericali, rispetto ai cattolici di allora rappresentavano una quota affatto marginale della società. Ma negli anni Cinquanta essi sarebbero stati capaci di levare alta la propria voce, trovando forme di comunicazione molto efficaci e alimentando un movimento culturale e politico che si pose come duraturo punto di riferimento dell’opinione pubblica laica e democratica del paese.

Dietro il rilancio delle battaglie anticlericali degli anni Cinquanta vi fu indubbiamente un moto d’insofferenza verso la cappa di conformismo clericale che soffocò la società italiana. Un liberale non certo sospettabile di eccessiva indulgenza verso l’anticlericalismo di vecchio stampo, come Arturo Carlo Jemolo, parlò a più riprese di «regime clericale», di «società confessionale», di «Stato guelfo». In effetti, si discusse molto in quegli anni se lo Stato italiano avesse acquisito una fisionomia compiutamente confessionale. Piero Calamandrei, per esempio, in un numero de «Il Ponte» apparso nel giugno 1950 e dedicato a Chiesa e democrazia, arrivò a parlare di «Repubblica pontificia», denunciando la formazione in Italia di una «dittatura sorda», di un «vero e proprio stato pontificio» nel quale i cittadini erano ridotti a sudditi del papa, che agiva come un «sovrano assoluto». E «Il Ponte», specie sotto la direzione di Calamandrei (scomparso nel settembre 1956) fu una delle riviste che tra la fine degli anni Quaranta e la metà del decennio successivo dette maggior spazio alla battaglia per la difesa della laicità.