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    Predefinito Bobbio: "La svolta di Gramsci" (1987)



    “Nuova Antologia”, a. CXXII, fasc. 2164, Ottobre-Dicembre 1987, Le Monnier, Firenze, pp. 79-86. Il 14 maggio 1987 è stato solennemente celebrato, nell’Auletta di Montecitorio, alla presenza del presidente della Repubblica, il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci. La figura e l’opera dell’intellettuale comunista, nonché il tormentato quadro storico nel quale egli operò, sono stati rievocati da Norberto Bobbio, col saggio destinato alla “Nuova Antologia”.



    Contrariamente a quel che si sostiene di solito, il fascismo non aveva soppresso del tutto ogni vestigio della cultura precedente. Il pensiero liberale, l’ideologia dominante nell’Italia prefascista, era sopravvissuta, grazie a personalità eminenti come Croce e Einaudi, e alle opere, sulle quali si formò la mia generazione, dei De Ruggiero, degli Omodeo, dei Salvatorelli.
    La Storia del liberalismo europeo, di De Ruggiero, apparsa nel 1925, era stata ristampata nel 1941; il Cavour di Omodeo era stato pubblicato in due volumi, avidamente letti, nel 1940; dal 1935 al 1943 Salvatorelli aveva pubblicato presso la nuova casa editrice di Giulio Einaudi, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, e il Pensiero e azione del Risorgimento, opere in cui veniva data della storia d’Italia una interpretazione opposta a quella ufficiale del regime.
    La tradizione culturale che il fascismo troncò, facendone scomparire i testi non solo dalle librerie ma anche dalle menti dei giovani, fu quella, che pure nel nostro paese era stata vivissima e originale, del movimento operaio e del marxismo. Insieme col comunismo, o, come si diceva allora, del bolscevismo, il grande nemico, il regime aveva cercato di cancellare ogni traccia del pensiero marxista.
    Le opere di Marx ed Engels non furono più pubblicate, se non, al mio ricordo, il Manifesto nel volume che raccoglieva le Carte dei diritti, curato da Felice Battaglia nel 1934 (una delle iniziative del gruppo pisano di Spirito e Volpicelli). Non era certo diminuito l’interesse dei giovani, ovvero la curiosità, verso questo frutto proibito, tanto più ricercato quanto più proibito, ma non era facile soddisfarla.
    Stranamente, chi diede il maggior contributo a colmare questo vuoto di conoscenza fu lo stesso Croce, ripubblicando nel 1938 i famosi saggi di Antonio Labriola su La concezione materialistica della storia, anche se li fece seguire da un saggio critico, che intitolò Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), per non lasciar adito al dubbio che con quella ristampa si fosse proposto di farlo rivivere.
    Ma nella prefazione non aveva mancato di rilevare la “rinnovata importanza politica del marxismo”, e di accennare alle “richieste e alle premure” che da varie parti gli venivano fatte perché l’opera di Labriola fosse rimessa in circolazione.
    Richieste e premure che derivavano, sono ancora parole sue, dal “regresso intellettuale accaduto nella conoscenza e nella critica del marxismo” e dalla “ignoranza… che ora regna tante parti della tradizione culturale e della storia stessa del trentennio precedente alla guerra mondiale”.
    Il primo segnale di una ripresa del marxismo teorico furono gli scritti di Galvano della Volpe, a cominciare dal Discorso sull’ineguaglianza del 1943 per giungere, attraverso La teoria marxista dell’emancipazione umana del 1945 a La libertà comunista del 1946. Ma si era arrivati ormai oltre le soglie del regime sconfitto, quando avvenne non solo in Italia una vera e propria esplosione nell’interesse rinnovato per Marx e il marxismo, e il materialismo storico divenne, insieme con il suo opposto, l’esistenzialismo, la filosofia del giorno. In quegli stessi anni saremmo venuti a sapere che durante il fascismo il marxismo teorico non era morto. Il più originale interprete di Marx, dopo Labriola aveva scritto le sue opere maggiori “fur exig”, com’egli le definì, proprio negli anni del fascismo trionfante. Ma non le scrisse su riviste del tempo né le pubblicò in una delle nostre case editrici. Le scrisse tra il 1929 e il 1934 su alcuni quaderni che il regio governo gli consentì di tenere, e di riempire delle proprie riflessioni filosofiche, storiche e politiche, in una cella del carcere di Turi.
    Quando queste note furono pubblicate da Einaudi in sei volumi tra il 1948 e il 1951, molti giovani che pur si erano ormai liberati intellettualmente e politicamente dalla cultura del regime, avrebbero avuto ragione di domandarsi “Gramsci chi era costui?”, se la pubblicazione dei quaderni non fosse stata preceduta dalle Lettere dal carcere, apparse nel 1947, destinate a provocare un’impressione enorme per la ricchezza delle idee, l’altezza dei sentimenti, il vigore dello stile.
    Non è un’esagerazione dire che la nostra storia letteraria aveva scoperto un nuovo scrittore. Furono recensiti dai maggiori scrittori del tempo, per fare alcuni nomi, Carlo Bo, Italo Calvino, Giacomo Debenedetti, Alfonso Gatto Muscetta, Leonida Rapaci, Luigi Russo, Giancarlo Vigorelli. Suscitarono immediatamente l’ammirazione di Croce che pure in quegli anni aveva inasprito il suo giudizio avverso al marxismo, e gli fecero scrivere che questo libro apparteneva anche a chi era di altro partito politico “per la rilevanza e l’affetto che si provano per tutti coloro che tennero alta la dignità dell’uomo e accettarono pericoli e persecuzioni e sofferenze e morte per un ideale”. Vi notava “apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse”, “scrupolo di esattezza e di equanimità”, “gentilezza e affettuosità nel sentire”, “stile schietto e dignitoso”.
    Via via che i sei volumi dei quaderni apparivano erano accolti da commenti, interpretazioni, dibattiti. La loro fortuna fu grande in quegli anni, nonostante l’allargamento improvviso degli orizzonti culturali, cadute le barriere censorie imposte dal regime e dalla guerra, il clamore suscitato da personaggi come Sartre e Merleau Ponty, e le loro controversie, lo sguardo sempre più curioso volto al pensiero americano, allora rappresentato da John Dewey (uno dei maggiori filosofi del nostro secolo). Comparabile soltanto alla fortuna che aveva arriso all’opera di Croce nel ventennio fra le due guerre.
    Una delle testimonianze più significative della penetrazione dell’opera di Gramsci nella cultura italiana può essere considerata la prima opera che un decennio dalla fine della guerra diede una compiuta e vivace e dotta rappresentazione della filosofia italiana nei primi decenni del secolo: le Cronache della filosofia italiana di Eugenio Garin, apparse nel 1955. Gramsci non è compreso nel volume, ma il suo giudizio su uomini e cose d’Italia è continuamente tenuto presente. Sembra che chi si accinga a scrivere di storia della cultura italiana non possa fare a meno di tener conto delle riflessioni dei quaderni.
    Quali sono state le ragioni di questa fortuna? Vorrei indicarne alcune. Anzitutto il pensiero di Gramsci, al di là del progetto politico che lo congiunge strettamente alla storia del partito comunista e in generale della sinistra, non solo italiana, è profondamente radicata nella storia d’Italia: l’humus da cui trae i maggiori stimoli, da Machiavelli a De Sanctis, a Croce, è il pensiero italiano. Le sue note di storia riguardano essenzialmente la storia d’Italia, dal Rinascimento al Risorgimento, sino al tempo presente.
    Quando per la prima volta si propone in carcere un programma di lavoro in una lettera a Tania del 19 marzo 1927, dei quattro temi enunciati tre riguardano l’Italia, una ricerca sullo spirito pubblico in Italia che è poi la ricerca sulle vicende dei nostri intellettuali dall’età dell’umanesimo a oggi, uno studio sul teatro di Pirandello, un saggio sui romanzi d’appendice, e al gusto popolare in letteratura, che pur prendendo lo spunto dal feuilleton francese, guarda soprattutto alla letteratura popolare italiana (sino a Carolina Invernizio, “l’onesta gallina della nostra letteratura”). Dei sei volumi in cui opportunamente, nonostante una certa inevitabile arbitrarietà, sono stati divise le note del carcere nella prima edizione, tre, Machiavelli, il Risorgimento, la filosofia di Croce, trattano argomenti di storia italiana.
    Noi oggi siamo diventati più cosmopolitici, anche perché siamo diventati più dipendenti, meno originali, tutto sommato meno consapevoli, meno convinti, della nostra identità nazionale (un lungo discorso che non è il caso di fare in questa sede). Il positivismo, filosofia non autoctona, era stato forzatamente proteso verso le nazioni in cui il positivismo era nato, Francia e Inghilterra in particolare. Non è mai stato rilevato, ch’io sappia, che tra i motivi della reazione idealistica contro il positivismo ci fu anche il ritorno dell’idea, se non proprio del “primato”, della genuinità, della continuità, del valore universalistico, della tradizione culturale italiana, dal Rinascimento, attraverso Vico, il grande sconosciuto, attraverso Rosmini e Gioberti, tratti all’onor del mondo da Gentile, sino alla hegelismo napoletano che con Bertrando Spaventa aveva proposto la tesi della circolazione del pensiero europeo che nato in Italia era destinato a tornarvi. Tanto Gentile quanto Croce si considerarono sempre eredi diretti dell’Italia del Risorgimento, se pure con diverse e alla fine anche opposte interpretazioni, e custodi dei suoi valori.

    (...)
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    Predefinito Re: Bobbio: "La svolta di Gramsci" (1987)

    Non si può capire Gramsci al di fuori di quella temperie. Gramsci fu marxista, fu leninista, ma rielaborò le sue idee cercando fruttuosi e originali collegamenti col pensiero italiano. Si pensi all’uso che egli face di Machiavelli, che proprio in quegli anni lo stesso Croce, e Russo e Chabod, tutta la scuola idealistica (idealistica in filosofia e realistica in politica), avevano ripreso a studiare, e in modo particolare dell’ultimo capitolo del Principe allo scopo di raffigurare il partito rivoluzionario come il novello principe, che come quello machiavellico avrebbe dovuto liberare l’Italia dal “barbaro dominio” (che non era più quello straniero ma quello di classe). Si pensi all’ammirazione per De Sanctis, che Croce ammirava, al De Sanctis che aveva contrapposto alla scuola liberale la scuola democratica, cui dichiarava di appartenere, e che, letterato, aveva sempre manifestato “il fervore appassionato dell’uomo di parte”, e in quanto uomo di parte aveva partecipato in prima persona “a un momento creativo della storia politica italiana”. È al De Sanctis, letterato militante, che Gramsci attribuisce l’indirizzo nazionalpopolare della cultura italiana, la continua battaglia “per la creazione ex novo in Italia di un’altra cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuitismo”. Spiegava che per cultura doveva intendersi una concezione della vita e dell’uomo, una religione laica, il che richiedeva un nuovo concetto di ciò che è nazionale, “diverso da quello della destra storica più ampio, meno esclusivista, meno poliziesco”. Citava con assenso la frase: “Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura”.
    Si pensi infine all’ininterrotto dialogo con Croce, nel quale io vedrei un ulteriore motivo della grande risonanza immediata dei Quaderni. Dopo la liberazione le giovani generazioni cercavano nuovi punti di riferimento, e li cercavano al di fuori di quella che era stata chiamata, a torto o a ragione, l’egemonia crociana: maestro di libertà, Croce aveva preso negli ultimi anni posizioni politiche che parevano troppo conservatrici, troppo legate a quella Italia che era precipitata, per colpa anche della classe politica liberale, nel fascismo. Sembrava che fosse giunto il momento di “fare i conti” con Croce. E Gramsci li aveva fatti meditando in solitudine sulla crisi nazionale. Ma li aveva fatti, ciò che è da mettere in particolare rilievo, non uscendo fuori dalla tradizione ormai dominante della filosofia italiana, lo storicismo. Uno storicismo rovesciato, ma pur sempre storicismo. Altri si rivolsero, negli anni della scoperta del mondo, a filosofie estranee alla tradizione italiana, come l’esistenzialismo, il neopositivismo, il prammatismo americano. Il pensiero di Gramsci, quale scaturì dalla contrapposizione diretta della filosofia della prassi alla filosofia di Croce, era iscritto in quella concezione del mondo, di cui Vico era considerato negli ambienti culturali italiani un precursore, Hegel il grande teorico, secondo cui la realtà è storia, una concezione che andava al di là della rigida contrapposizione, cui indulgevano molti marxisti, tra materialismo e spiritualismo. Gramsci cercò la sua strada tra due estremi, tra lo storicismo idealistico che aveva messo l’uomo sulla testa e il materialismo volgare che aveva trovato alcuni seguaci molto autorevoli anche fra le file del marxismo ufficiale. Interpretò la filosofia della prassi come “storicismo assoluto”, come la “mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero”, come “umanesimo assoluto della storia”, e in quanto tale “risultato e coronamento di tutta la storia precedente”. Una interpretazione di questo genere doveva suonare familiare alle orecchie degli intellettuali italiani, più familiare di quelle che andava proponendo Della Volpe, secondo cui Marx era stato il Galileo delle scienze sociali e il marxismo era la vera e nuova scienza della società. Il dibattito con Croce e a maggiore distanza ormai negli ultimi anni con Gentile rientrava perfettamente negli schemi concettuali della scuola filosofica italiana, donde era nata una interpretazione del marxismo come storicismo assoluto, che non ha l’eguale nel marxismo degli altri paesi.
    Tra i motivi del successo dell’opera di Gramsci, collocherei, al terzo posto, l’aver considerato come problema da trattare fur ewig il problema degli intellettuali. Più vivo che mai era in quegli anni il problema del compito degli intellettuali di fronte alla politica, il problema dell’impegno, dell’engagement. Nel 1927 era uscito il famoso libro di Henda, La trahison des Clercs, che additava al pubblico disprezzo i chierici che si erano messi al servizio delle passioni politiche tradendo la loro missione specifica di custodire e promuovere i valori eterni. Nel 1929 Karl Mannheim aveva elaborato la teoria degli intellettuali come classe a sé stante che ha il compito di comporre le sintesi o la mediazione fra le diverse ideologie contrapposte. Nel 1930 Ortega y Gasset, pubblicò la Ribellione delle masse, in cui ripeteva uno dei suoi concetti fondamentali secondo cui, da un lato, vi sono minoranze intellettuali destinate a elaborare la grande politica e, dall’altro, masse in attesa di essere plasmate da spiriti superiori. Negli anni della rinascita dopo lo sconquasso prodotto dalla seconda guerra mondiale, tutte queste interpretazioni del ruolo degli intellettuali sembravano diventare anacronistiche e profondamente errate. Dovere dell’intellettuale appariva sempre più quello di non estraniarsi, di fare la propria scelta e di dire chiaramente da che parte stava. Secondo questa veduta, gli intellettuali tradiscono quando si ritirano nella torre d’avorio e lasciano il campo libero agli dei degli inferi e alle loro zuffe.

    (...)
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    Predefinito Re: Bobbio: "La svolta di Gramsci" (1987)

    Per dare una risposta a tutte queste domande non sarebbe stato opportuno cominciare a studiare la loro storia, la loro diversa collocazione nei momenti cruciali della storia del nostro paese? Fu a questo studio che Gramsci si volse nelle riflessioni che l’ozio forzato del carcere gli consentiva. Ne trasse la conclusione di chiara impronta storicista che la funzione degli intellettuali era diversa secondo le diverse epoche storiche. Per quel che riguarda la storia d’Italia, ritenne di poterne ricavare la distinzione fra intellettuali tradizionali e intellettuali organici, che provocò un ampio dibattito, non ancora esaurito. Più che una proposta politica, come è stata di solito intesa, questa distinzione deve essere accolta come una constatazione storica, vale a dire come la constatazione che non c’è società, non c’è gruppo sociale, che non abbia i suoi intellettuali organici, il che ci è dato confermare ogni giorno, anche se rispetto alla storia in corso in cui ognuno di noi è immerso, siamo organici pur non sapendolo e credendo di non esserlo.
    Quarto motivo del successo considererei l’aver riaperto la questione dell’interpretazione del Risorgimento. Pur dissentendo, Walter Maturi in quel bel libro, postumo, che raccolse le sue lezioni sulle Interpretazioni dei Risorgimento, scrisse che le osservazioni gramsciane erano “vive, stimolanti” e riconobbe che avevano “ispirato tutta una scuola ed esercitato una influenza anche sui critici”. Questo aspetto del pensiero di Gramsci è troppo noto perché ci sia bisogno di soffermarvisi: respingendo sia la Storia d’Europa di Croce, sia L’età del Risorgimento di Omodeo. Gramsci accusa il partito d’azione di essersi lasciato guidare dai moderati che furono i veri artefici della proclamata rivoluzione nazionale, che non fu affatto una rivoluzione ma un conquista militare, in pieno contrasto con la rivoluzione francese che assurge, nel pensiero di Gramsci, a modello di rivoluzione per l’impronta che le diedero i giacobini. Una rivoluzione importata dall’alto, ovvero una “rivoluzione passiva” che non riuscì a sollevare le masse contadine e a immetterle nella vita del nuovo stato che fu lo stato liberale, non democratico, non popolare, lo stato del partito moderato che avrebbe ceduto il passo, quando fosse giunto il momento del pericolo, al fascismo. Federico Chabod spiegò che l’idea della mancata rivoluzione agraria del Risorgimento derivava probabilmente dall’esperienza profondamente vissuta da Gramsci nel biennio rosso, quando la rivoluzione socialista era fallita perché non era riuscita a trarre a sé le masse contadine (un tema di fondo della “questione meridionale”, come lo stesso Gramsci se lo porrà nell’ultimo suo scritto prima dell’arresto) fu dato a questo tema negli anni della ricostruzione, che furono pieni ancora di fermenti rivoluzionari, fu invece il riflesso tardivo di uno dei miti della Resistenza, un mito della sinistra duro a morire, secondo cui la guerra di popolo fosse stata possibile perché vi avevano partecipato per la prima colta da protagonisti i contadini.
    Un ultimo punto: espressioni come “rivoluzione passiva” che Gramsci aveva derivato ancora una volta dalla storiografia italiana, com’è noto, dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco, o come “giacobinismo”, assunto in un’accezione positiva per designare il partito rivoluzionario che affronta con estrema decisione ed energia il proprio compito di trasformazione sociale, espressioni che Gramsci contribuì a mutare da concetti storici in categorie di politica generale, sono venute a far parte del nostro linguaggio politico corrente. Nel volumetto pubblicato su Gramsci, le sue idee nel nostro tempo, per iniziativa di “L’unità”, le principali sono elencate e commentate. Molti di questi concetti sono disposti a coppie antitetiche, in cui uno dei termini ha una connotazione positiva, l’altro negativa, a cominciare da “rivoluzione passiva-giacobinismo”. Ma si potrebbe aggiungere, tra le più note, “egemonia-dittatura”, “società civile-Stato”, “intellettuali tradizionali-intellettuali organici”, “cosmopolitismo-nazional-popolare”, “guerra di movimento- guerra di posizione”, “classi dirigenti-classi subalterne”. Tra le espressioni più fortunate, alcuni “ismi” fortemente polemici, come “cadornismo”, “lorianesimo”, “brescianismo”, “cesarismo”, che sono entrati nei nostri dizionari.
    Non vi è prova maggiore dell’impronta lasciata da uno scrittore sulla “mentalità”, come si dice oggi, caratteristica di una certa società, che l’uso di parole da lui coniate o ridefinite. Molte di queste parole gramsciane non hanno perduto nulla della loro efficacia anche là dove non venga più accettato il significato positivo o negativo attribuito loro da Gramsci. Non è possibile prescindere da questa rete concettuale per comprendere una fase della nostra storia. Ma è ancora più sorprendente il rilievo che a questo sistema di categorie generali, come “egemonia” e “blocco storico”, attraverso le quali si ritiene che sia stata proposta una interpretazione nuova e meno dogmatica del marxismo, è stato dato in tutti questi anni fuori d’Italia. Mi è accaduto di affermare, alla fine di un convegno sulla filosofia italiana di questi ultimi decenni, che avevamo importato tutto e non eravamo riusciti ad esportare nulla. Nulla eccetto Gramsci, sul quale la letteratura inglese, francese, tedesca e americana, è amplissima, oserei dire, più ampia di quella su Croce.
    Per finire, non ho particolare predilezione per porre, nei riguardi di opere storicamente importanti dell’ingegno umano, il problema della loro attualità. Mi soccorre ancora una volta un pensiero di Croce, di quel grande saggio che fu il maestro di un’intera generazione. Ripubblicando dopo tanti anni gli scritti di Labriola, si difendeva dall’accusa di aver rimesso in circolazione un libro invecchiato, affermando che tutti i libri del passato per il solo fatto che sono vecchi sono invecchiati, non escluse la Repubblica di Platone, la Scienza Nuova e la Critica della ragion pura. L’importante di un libro, aggiungeva, è nel saper invecchiare, cioè “nell’aver promosso nuovi pensieri”. E in ciò consiste la loro eterna giovinezza. Credo che questo valga anche per Gramsci. Ed è il maggior omaggio che, trascorso ormai mezzo secolo dalla morte, possiamo rendere alla sua memoria.


    Norberto Bobbio
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