Stalin - Problemi economici del socialismo nell'URSS
1° febbraio 1952
Ai partecipanti alla discussione economica
Osservazioni sulle questioni economiche relative alla discussione del novembre 1951
Ho ricevuto tutti i documenti sulla discussione economica svoltasi per giudicare il progetto di manuale di economia politica. Ho ricevuto, tra l'altro, le "Proposte per migliorare il progetto di manuale di economia politica'', le "Proposte per eliminare gli errori e le imprecisioni'' nel progetto, la "Nota informativa sulle questioni in discussione''.
Su tutti questi materiali, come pure sul progetto di manuale ritengo necessario fare le seguenti osservazioni.
1. - Questione del carattere delle leggi economiche nel socialismo
Alcuni compagni negano il carattere obiettivo delle leggi della scienza, in particolare delle leggi dell'economia politica nel socialismo. Essi negano che le leggi dell'economia politica riflettano le leggi di sviluppo di processi che si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Essi ritengono che, data la particolare funzione assegnata dalla storia allo Stato sovietico, lo Stato sovietico e i suoi dirigenti possano abolire le vigenti leggi della economia politica, possano "formare'' nuove leggi, "creare'' nuove leggi.
Questi compagni si sbagliano profondamente. Essi come si vede, confondono le leggi scientifiche, che riflettono i processi obiettivi che si svolgono nella natura o nella società indipendentemente dalla volontà degli uomini, con le leggi che vengono emanate dai governi, create per volontà degli uomini e che hanno solo una forza giuridica. Ma non si può in nessun modo confondere queste leggi.
Il marxismo intende le leggi della scienza, - si tratti di leggi delle scienze naturali o di leggi dell'economia politica, - come un riflesso di processi obiettivi che si svolgono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle, studiarle, tenerne conto nelle loro azioni, utilizzarle negli interessi delle società, ma non possono cambiarle o abolirle. Tanto meno essi possono formare o creare nuove leggi della scienza.
Significa forse questo che, per esempio, i risultati delle azioni delle leggi della natura, i risultati delle azioni delle forze della natura siano in genere irreparabili, che le azioni distruttive delle forze della natura abbiano sempre e dappertutto luogo con una violenza elementare e implacabile, che non possa venir sottoposta alla influenza degli uomini? No, non significa questo. Se si escludono i processi astronomici, geologici e alcuni altri, dove gli uomini, anche se conoscono le leggi del loro sviluppo, sono effettivamente impotenti a influire su di esse, in molti altri casi gli uomini sono lungi dall'essere impotenti per quanto concerne la possibilità di influenzare i processi della natura. In tutti questi casi gli uomini, conosciute le leggi della natura, possono, tenendone conto e basandosi su di esse, applicandole e utilizzandole abilmente, limitare la sfera della loro azione, dare alle forze distruttive della natura un altro indirizzo, rivolgere le forze distruttive della natura all'utile della società.
Prendiamo uno degli innumerevoli esempi. Nella remota antichità lo straripamento dei grandi fiumi, le inondazioni, la distruzione che ne conseguiva delle abitazioni e dei campi seminati erano ritenuti una sciagura irreparabile, contro la quale gli uomini erano impotenti. Tuttavia, col passar del tempo, con lo sviluppo delle conoscenze umane, allorché gli uomini impararono a costruire dighe e centrali elettriche, si rivelò possibile allontanare dalla società le sciagure delle inondazioni che prima sembravano irreparabili. Non solo, ma gli uomini impararono a imbrigliare le forze distruttive della natura, a metter loro, per così dire, il morso, a rivolgere la forza dell'acqua a vantaggio della società e a utilizzarla per l'irrigazione dei campi, per ottenerne energia.
Significa forse questo che gli uomini in questo modo abbiano abolito le leggi della natura, le leggi della scienza, abbiano creato nuove leggi della natura, nuove leggi della scienza? No, non significa questo. Il fatto è, che tutto questo sistema di prevenzione delle azioni delle forze distruttive dell'acqua e di utilizzazione di esse nell'interesse della società si attua senza che vi sia alcuna violazione, modificazione o abolizione delle leggi della scienza, senza che si creino nuove leggi della scienza. Al contrario, tutto questo sistema si realizza sul preciso fondamento delle leggi della natura, delle leggi della scienza, perché qualsiasi violazione delle leggi della natura, la loro minima violazione porterebbe a una disorganizzazione dell'impresa, al crollo del sistema.
Lo stesso si deve dire delle leggi dello sviluppo economico, delle leggi dell'economia politica, - non importa se si tratti del periodo del capitalismo o del periodo del socialismo. Anche qui come nelle scienze naturali, le leggi dello sviluppo economico sono leggi obiettive, che riflettono i processi di sviluppo economico che si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle, e basandosi su di esse utilizzarle nell'interesse della società, dare un altro indirizzo alle azioni distruttive di alcune leggi, limitare la loro sfera di azione, dare spazio ad altre leggi che cerchino di aprirsi un varco, ma non possono distruggerle o creare nuove leggi economiche.
Una delle particolarità dell'economia politica sta nel fatto che le sue leggi, a differenza delle leggi delle scienze naturali, non sono eterne, che esse, o per lo meno la maggior parte di esse, vigono nel corso di un determinato periodo storico, dopo di che cedono il posto a leggi nuove. Ma esse, queste leggi, non si distruggono; bensì perdono la loro forza a causa delle nuove condizioni economiche e scompaiono dalla scena per lasciare il posto a nuove leggi, che non si creano per volontà degli uomini, ma sorgono sulla base di nuove condizioni economiche.
Si cita l'Antidüring di Engels, la sua formula secondo cui, con la liquidazione del capitalismo e la collettivizzazione dei mezzi di produzione, gli uomini avranno il potere sui loro mezzi di produzione, conseguiranno la libertà dal giogo delle relazioni economico-sociali, diverranno "signori'' della loro vita sociale. Engels chiama questa libertà "necessità cosciente''. Ma che cosa può significare "necessità cosciente''? Significa che gli uomini, avendo preso conoscenza delle leggi obiettive ("necessità''), le applicheranno in modo pienamente cosciente nell'interesse della società. Proprio per questo Engels dice nello stesso punto che:
"Le leggi della loro attività sociale, che sino allora stavano di fronte agli uomini come leggi di natura estranee e che li dominavano, vengono ora applicate dagli uomini con piena cognizione di causa e quindi dominate'' (1).
Come si vede, la formula di Engels non parla affatto a vantaggio di coloro i quali pensano che nel socialismo si possano abolire le leggi economiche esistenti e crearne di nuove. Al contrario, essa non richiede l'abolizione, ma la conoscenza delle leggi economiche e una loro abile applicazione.
Si dice che le leggi economiche rivestano un carattere elementare, che le azioni di queste leggi siano irreparabili, che la società sia impotente di fronte ad esse. Ciò non è vero. Questo significa fare delle leggi dei feticci, rendersi schiavi delle leggi. È provato che la società non è impotente di fronte alle leggi, che la società può, dopo aver conosciuto le leggi economiche e basandosi su di esse, limitare la sfera della loro azione, utilizzarle nell'interesse della società e "mettere loro il morso'', come succede per quanto riguarda le forze della natura e le leggi loro, come succede nell'esempio dato sopra dello straripamento dei grandi fiumi.
Si cita la particolare funzione del potere sovietico nell'opera di costruzione del socialismo, funzione che gli darebbe la possibilità di sopprimere le esistenti leggi dello sviluppo economico e "formarne'' delle nuove. Anche questo non è vero.
La particolare funzione del potere sovietico si spiega con due circostanze: in primo luogo col fatto che il potere sovietico non doveva sostituire una forma di sfruttamento con un'altra forma, come è avvenuto nelle rivoluzioni del passato, ma liquidare qualsiasi sfruttamento; in secondo luogo col fatto che, in seguito all'assenza nel paese di qualsiasi germe già formato di economia socialista, esso dovette creare, per così dire, sul "vuoto'', nuove forme socialiste di economia.
Compito, questo, indubbiamente difficile e complesso, che non aveva precedenti. Ciò nondimeno, il potere sovietico ha assolto questo compito con onore. Ma esso non l'ha assolto perché abbia distrutto le leggi economiche esistenti e "formato'' leggi nuove, ma solo perché si è appoggiato alla legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive. Le forze produttive del nostro paese, specialmente nell'industria, avevano un carattere sociale; la forma della proprietà, invece, era privata, capitalistica. Basandosi sulla legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive, il potere sovietico ha socializzato i mezzi di produzione, li ha resi proprietà di tutto il popolo e in tal modo ha distrutto il sistema dello sfruttamento, ha creato forme socialiste di economia. Se non ci fosse stata questa legge e non si fosse appoggiato su di essa, il potere sovietico non avrebbe potuto assolvere il suo compito.
La legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive cerca da tempo di aprirsi un varco nei paesi capitalistici. Se essa non si è ancora aperto un varco e non ha trovato sbocco, ciò è stato perché incontra una fortissima resistenza da parte delle forze della società che hanno fatto il loro tempo. Qui ci imbattiamo in una altra peculiarità delle leggi economiche. A differenza delle leggi delle scienze naturali, dove la scoperta e l'applicazione di una nuova legge hanno luogo in modo più o meno pacifico, nel campo economico la scoperta e l'applicazione di una nuova legge, la quale urti gli interessi delle forze della società che hanno fatto il loro tempo, incontrano una fortissima resistenza da parte di queste forze. Occorre, di conseguenza, una forza, una forza sociale capace di superare questa resistenza. Una forza simile si è trovata nel nostro paese nella forma dell'alleanza della classe operaia e dei contadini, che rappresentano la schiacciante maggioranza della società. Una forza simile negli altri paesi capitalistici non si è ancora trovata. Qui sta il segreto del fatto che il potere sovietico sia riuscito a sconfiggere le vecchie forze della società e la legge economica della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive abbia ricevuto da noi pieno sbocco.
Si dice che la necessità dello sviluppo pianificato (proporzionale) dell'economia del nostro paese dà la possibilità al potere sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e crearne delle nuove. Ciò non è affatto vero. Non si possono confondere i nostri piani annuali e quinquennali con la legge economica obiettiva dello sviluppo pianificato, proporzionale dell'economia nazionale. La legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale è sorta come contrapposizione alla legge della concorrenza e dell'anarchia della produzione nel capitalismo. È sorta sulla base della socializzazione dei mezzi di produzione, dopo che la legge della concorrenza e dell'anarchia della produzione aveva perduto la sua efficacia. È entrata in vigore perché una economia nazionale socialista si può avere soltanto sulla base della legge economica dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale. Questo significa che la legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale dà la possibilità ai nostri organi pianificatori di pianificare in modo giusto la produzione sociale. Ma non si deve confondere la possibilità con la realtà. Si tratta di due cose differenti. Per far sì che questa possibilità diventi realtà occorre studiare questa legge economica, occorre impadronirsene, occorre imparare ad applicarla con perfetta cognizione di causa, occorre elaborare dei piani che riflettano per intiero le esigenze di questa legge. Non si può dire che i nostri piani annuali e quinquennali riflettano per intiero le esigenze di questa legge economica.
Si dice che alcune leggi economiche, tra cui anche la legge del valore, vigenti da noi col socialismo, siano leggi "trasformate'' o persino "trasformate in modo radicale'' sulla base dell'economia pianificata. Anche questo non è vero. Non si possono "trasformare'' le leggi e tanto meno "in modo radicale''. Se si potessero trasfomare, si potrebbero anche abolire, sostituendole con altre leggi. La tesi della "trasfomazione'' delle leggi è una sopravvivenza dell'erronea fomula della "distruzione'' e della "formazione'' delle leggi. Benché la formula della trasformazione delle leggi economiche sia oramai entrata da tempo da noi nell'uso comune, sarà meglio rinunciarvi nell'interesse dell'esattezza. Si può limitare la sfera di azione di queste o quelle leggi economiche, se ne possono prevenire le azioni distruttive, se, naturalmente, vi sono, ma non si può "trasformarle'' o "distruggerle''.
Di conseguenza, quando si parla dell'"assoggettamento'' delle forze della natura o delle leggi economiche, del "dominio'' su di esse e così via, non si vuol affatto dire con questo che gli uomini possano "distruggere'' le leggi della scienza o "formarle''. Al contrario, con questo si vuol dire solamente che gli uomini possono scoprire le leggi, conoscerle, impadronirsene, imparare ad applicarle con perfetta cognizione di causa, utilizzarle nell'interesse della società e in tal modo assoggettarle, raggiungere il dominio su di esse.
Dunque, le leggi dell'economia politica nel socialismo sono leggi obiettive, che riflettono le leggi di sviluppo dei processi della vita economica, i quali si compiono indipendentemente dalla nostra volontà. Coloro che negano questa tesi, negano in sostanza la scienza, ma negando la scienza negano con ciò stesso la possibilità di qualsiasi previsione - di conseguenza negano la possibilità che la vita economica venga diretta.
Si potrà dire che tutto ciò che qui si afferma è giusto e universalmente noto ma che non vi è nulla di nuovo e che, di conseguenza, non vale la pena di perdere il tempo per ripetere verità universalmente note. Certo, qui non vi è effettivamente nulla di nuovo, ma sarebbe sbagliato pensare che non valga la pena di perdere il tempo per ripetere alcune verità a noi note. Il fatto è che a noi, quale nucleo dirigente, si accostano ogni anno migliaia di nuovi giovani quadri; essi ardono dal desiderio di aiutarci, ardono dal desiderio di mostrare quel che valgono, ma non hanno una sufficiente preparazione marxista, non conoscono molte verità a noi ben note e sono costretti a vagare nelle tenebre. Essi sono colpiti dalle colossali conquiste del potere sovietico; gli straordinari successi del sistema sovietico fanno loro girare la testa ed essi cominciano a immaginare che il potere sovietico "possa tutto'', che per esso "tutto sia una bazzecola'', che esso possa sopprimere le leggi della scienza, formare nuove leggi. Come dobbiamo comportarci con questi compagni? Come educarli nello spirito del marxismo-leninismo? Io ritengo che una sistematica ripetizione delle cosiddette verità "universalmente note'', un loro paziente chiarimento sia uno dei migliori mezzi di educazione marxista di questi compagni.
2. - Questione della produzione mercantile nel socialismo
Alcuni compagni affermano che il partito ha agito erroneamente mantenendo la produzione mercantile dopo aver preso il potere e nazionalizzato i mezzi di produzione nel nostro paese. Essi ritengono che il partito allora avrebbe dovuto eliminare la produzione mercantile. A questo proposito essi citano Engels, il quale dice:
"Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società, viene eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori'' (2).
Questi compagni sbagliano profondamente:
Esaminiamo la formula di Engels. La formula di Engels non si può considerare del tutto chiara e precisa, giacché in essa non si indica se si parli della presa di possesso da parte della società di tutti i mezzi di produzione o solamente di una parte dei mezzi di produzione; se cioè tutti i mezzi di produzione siano diventati patrimonio di tutto il popolo o solamente di una parte dei mezzi di produzione. Questa formula di Engels si può dunque interpretare in un modo o nell'altro.
In un altro luogo dell'Antidühring, Engels parla del possesso "di tutti i mezzi di produzione'', del possesso "di tutto il complesso dei mezzi di produzione''. Quindi Engels nella sua formula non intende parlare della nazionalizzazione di una parte dei mezzi di produzione, ma di tutti i mezzi di produzione, ossia del fatto che siano diventati patrimonio di tutto il popolo non solo i mezzi di produzione dell'industria, ma anche quelli dell'agricoltura.
Ne consegue che Engels intende parlare di paesi in cui il capitalismo e la concentrazione della produzione siano tanto sviluppati, non solo nell'industria, ma anche nell'agricoltura, da far sì che si possano espropriare tutti i mezzi di produzione del paese e trasformarli in proprietà di tutto il popolo. Engels ritiene, di conseguenza, che in questi paesi, oltre a collettivizzare tutti i mezzi di produzione, si debba eliminare la produzione mercantile e questo, naturalmente, è giusto.
Un paese di questo genere era, alla fine dello scorso secolo, al momento della pubblicazine dell'Antidühring, soltanto l'Inghilterra, dove lo sviluppo del capitalismo e la concentrazione della produzione, tanto nell'industria quanto nell'agricoltura, erano giunte a un punto tale che vi era la possibilità, in caso di presa del potere da parte del proletariato, di far diventare tutti i mezzi di produzione del paese patrimonio di tutto il popolo e di eliminare la produzione mercantile.
Tralascio nel presente caso la questione dell'importanza per l'Inghilterra del commercio estero, col suo enorme peso specifico nell'economia nazionale dell'Inghilterra. Ritengo che solamente studiando questa questione si potrebbe risolvere definitivamente la questione del destino della produzione mercantile in Inghilterra dopo la presa del potere da parte del proletariato e la nazionalizzazione di tutti i mezzi di produzione.
Del resto, non solamente alla fine dello scorso secolo, ma anche al giorno d'oggi nessun paese ha ancora raggiunto quel grado di sviluppo del capitalismo e di concentrazione della produzione nell'agricoltura che noi osserviamo in Inghilterra. Per quanto riguarda gli altri paesi, nonostante lo sviluppo del capitalismo nelle campagne, esiste ancora nelle campagne una classe abbastanza numerosa di piccoli e medi proprietari-produttori, la cui sorte bisognerebbe determinare in caso di presa del potere da parte del proletariato.
Ma ecco sorgere una questione: che cosa devono fare il proletariato e il suo partito se in un paese o in un altro, compreso fra questi il nostro paese, esistono condizioni favorevoli per la presa del potere da parte del proletariato e l'abbattimento del capitalismo; se il capitalismo nell'industria ha talmente concentrato i mezzi di produzione che si possono espropriare e dare in possesso alla società, ma se l'agricoltura, nonostante lo sviluppo del capitalismo, è ancora talmente frazionata in innumerevoli piccoli e medi proprietari-produttori, che non si presenta la possibilità di porre la questione dell'espropriazione di questi produttori?
A questa domanda la formula di Engels non dà risposta. Del resto, essa non doveva neppure rispondere a questa domanda, perché era sorta sulla base di un'altra questione, e precisamente della questione di quale doveva essere il destino della produzione mercantile dopo che fossero stati collettivizzati tutti i mezzi di produzione.
E dunque, come fare se non tutti i mezzi di produzione sono stati collettivizzati, ma lo è stata solamente una parte dei mezzi di produzione, eppure vi sono condizioni favorevoli per la presa del potere da parte del proletariato, - deve il proletariato prendere il potere e si deve subito dopo distruggere la produzione mercantile?
Non si può, naturalmente, considerare una risposta l'opinione di taluni pretesi marxisti, i quali ritengono che in tali condizioni bisognerebbe rinunciare alla presa del potere e aspettare finché il capitalismo sia riuscito a ridurre alla miseria milioni di piccoli e medi produttori trasformandoli in braccianti e a concentrare i mezzi di produzione nell'agricoltura, e che solo dopo di questo si possa porre la questione della presa del potere da parte del proletariato e della socializzazione di tutti i mezzi di produzione. E' evidente che una simile "via di uscita'' non può essere seguita dai marxisti se essi non vogliono definitivamente coprirsi di vergogna.
Non si può neppure considerare una risposta l'opinione di altri pretesi marxisti, i quali ritengono che bisognerebbe prendere il potere, passare alla espropriazione dei piccoli e medi produttori nelle campagne e socializzare i loro mezzi di produzione. Neppure questa via assurda e delittuosa può essere seguita dai marxisti, perché una via simile comprometterebbe ogni possibilità di vittoria della rivoluzione proletaria, getterebbe per lungo tempo i contadini nel campo dei nemici del proletariato.
E' stato Lenin a dare una risposta a questa questione nei suoi scritti sulla Imposta in natura e nel suo celebre Piano cooperativo.
La risposta di Lenin si riduce in breve a quanto segue:
a) non lasciar passare le condizioni favorevoli per la presa del potere: che il proletariato prenda il potere senza aspettare fino a che il capitalismo sia riuscito a ridurre alla miseria la popolazione di molti milioni di piccoli e medi produttori individuali;
b) espropriare i mezzi di produzione nell'industria e trasformarli in patrimonio di tutto il popolo;
c) per quanto riguarda i piccoli e medi produttori individuali riunirli gradualmente in cooperative di produzione, cioè in grandi aziende agricole, i colcos;
d) sviluppare in tutti i modi l'industria e dare ai colcos la base tecnica moderna della grande produzione, ma non espropriarli, bensì, al contrario, rifornirli intensamente di trattori di prima qualità e di altre macchine;
e) per la saldatura economica della città e della campagna, dell'industria e dell'agricoltura, conservare per un certo tempo la produzione mercantile (scambio attraverso la compra-vendita), come unica forma di rapporti economici con la città accettabile per i contadini, e sviluppare appieno il commercio sovietico, statale e cooperativo-colcosiano, eliminando dalla circolazione delle merci ogni genere di capitalisti.
La storia della nostra edificazione socialista dimostra che questa via di sviluppo, tracciata da Lenin, ha dato ottima prova di sé.
Non vi può esser dubbio che per tutti i paesi capitalistici aventi una classe più o meno numerosa di piccoli e medi produttori questa via di sviluppo è l'unica possibile e razionale per la vittoria del socialismo.
Si dice che la produzione mercantile in qualsiasi condizione deve portare e necessariamente porterà al capitalismo. Questo non è vero. Non sempre e non in qualsiasi condizione! Non si può identificare la produzione mercantile con la produzione capitalistica. Sono due cose diverse. La produzione mercantile porta al capitalismo solamente se esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, se la forza lavoro si presenta sul mercato come una merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di produzione, se, di conseguenza, esiste nel paese un sistema di sfruttamento degli operai salariati da parte dei capitalisti. La produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono concentrati in mani private e gli operai, privi di mezzi di produzione, sono costretti a vendere la loro forza lavoro come una merce. Senza di ciò non vi è produzione capitalistica.
Ebbene, e se non esistono queste condizioni che trasformano la produzione mercantile in produzione capitalistica, se i mezzi di produzione non sono più proprietà privata, ma proprietà socialista, se non esiste un sistema di lavoro salariato e la forza lavoro non è più una merce, se il sistema dello sfruttamento è già da tempo liquidato, - cosa dire allora: si può considerare che la produzione mercantile porti in ogni caso al capitalismo? No, non si può. E la nostra società è proprio una società in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema del lavoro salariato, il sistema dello sfruttamento non esistono più da tempo.
Non si può considerare la produzione mercantile come qualcosa a sé stante, indipendente dalle condizioni economiche circostanti. La produzione mercantile è più antica della produzione capitalistica. Essa esisteva nel sistema schiavistico e lo serviva, e tuttavia non ha portato al capitalismo. Essa esisteva nel feudalesimo e lo serviva, e tuttavia, benché preparasse alcune condizioni della produzione capitalistica, non ha portato al capitalismo. Si domanda allora perché la produzione mercantile non può servire per un certo periodo anche la nostra società socialista senza portare al capitalismo, quando si tenga presente che la produzione mercantile non ha da noi quella diffusione illimitata e universale che ha nelle condizioni del capitalismo, quando si tenga presente che essa da noi è costretta entro limiti rigorosi, grazie a condizioni economiche decisive, quali sono la proprietà collettiva sui mezzi di produzione, la liquidazione del sistema del lavoro salariato, la liquidazione del sistema dello sfruttamento.
Si dice che, dopo che nel nostro paese si è stabilito il dominio della proprietà collettiva sui mezzi di produzione e il sistema del lavoro salariato e dello sfruttamento è stato liquidato, l'esistenza della produzione mercantile ha perduto ogni senso e pertanto si dovrebbe eliminare la produzione mercantile.
Ma anche questo non è vero. Attualmente da noi esistono due forme fondamentali di produzione socialista: la produzione statale, di tutto il popolo, e quella colcosiana, che non si può dire di tutto il popolo. Nelle aziende statali i mezzi di produzione e la produzione stessa sono proprietà di tutto il popolo. Nelle aziende colcosiane, invece, benché i mezzi di produzione (la terra, le macchine) appartengano pur essi allo Stato, tuttavia la produzione dei prodotti è proprietà dei singoli colcos, giacché nei colcos il lavoro, come le sementi, sono di proprietà dei colcos, mentre della terra, che è stata concessa ai colcos in uso eterno, i colcos dispongono di fatto come di una loro proprietà, benché non possano venderla, comprarla, darla in affitto o ipotecarla.
Questa circostanza porta al fatto che lo Stato può disporre solamente della produzione delle aziende statali, mentre della produzione colcosiana dispongono solamente i colcos, come di una loro proprietà. Ma i colcos non vogliono alienare i loro prodotti altrimenti che sotto forma di merci, in scambio alle quali essi vogliono ricevere le merci loro necessarie. Altri legami economici con la città che non siano quelli commerciali, che non siano lo scambio mediante compra-vendita oggi i colcos non li accettano. Per questo la produzione mercantile e la circolazione delle merci sono attualmente da noi una necessità così come lo erano, diciamo, trent'anni fa, quando Lenin proclamò la necessità di un sviluppo completo della circolazione delle merci.
Naturalmente, quando invece dei due fondamentali settori produttivi, quello statale e quello colcosiano, vi sarà un solo settore produttivo che abbracci tutto e abbia il diritto di disporre di tutti i prodotti di consumo del paese, allora la circolazione delle merci con la sua "economia monetaria'' scomparirà, come un elemento non più necessario dell'economia nazionale. Ma finché questo non avvenga, finché sussistono due settori produttivi fondamentali, la produzione mercantile e la circolazione delle merci devono restare in vigore come elemento necessario e sotto ogni aspetto utile del sistema della nostra economia nazionale. In qual modo avverrà la creazione di un unico settore che abbracci tutto, attraverso un semplice assorbimento del settore colcosiano da parte del settore statale, il che è poco verosimile (giacché ciò sarebbe accolto come un'espropriazione dei colcos), o attraverso la organizzazione di un unico organo economico di tutto il popolo (con una rappresentanza della industria di Stato e dei colcos) che abbia il diritto di calcolare in un primo tempo tutti i prodotti di consumo del paese, e con il passare del tempo anche di distribuire i prodotti col sistema, diciamo, dello scambio in natura, - questa è una questione particolare, che richiede un esame a parte.
Di conseguenza, la nostra produzione mercantile non è una produzione mercantile normale, ma una produzione mercantile di tipo particolare, una produzione mercantile senza capitalisti, che ha a che fare sostanzialmente con merci di produttori socialisti riuniti (lo Stato, i colcos, le cooperative), la cui sfera di azione è limitata agli oggetti di consumo personale, che evidentemente non può in alcun modo svilupparsi come produzione capitalistica e che è destinata a servire, insieme con la sua "economia monetaria'', la causa dello sviluppo e del rafforzamento della produzione socialista.
Per questo non hanno affatto ragione quei compagni i quali affermano che, siccome la società socialista non liquida le forme mercantili di produzione, dovrebbero da noi ripristinarsi tutte le categorie economiche proprie del capitalismo: la forza lavoro come merce, il plusvalore, il capitale, il profitto del capitale, il tasso medio del profitto e così via. Questi compagni confondono la produzione mercantile con la produzione capitalistica e suppongono che, poiché esiste la produzione mercantile, deve esistere anche la produzione capitalistica. Essi non comprendono che la nostra produzione mercantile differisce in modo radicale dalla produzione mercantile nel capitalismo.
Non solo, ma io penso che sia necessario respingere anche alcuni altri concetti, desunti dal Capitale di Marx, dove Marx si è occupato dell'analisi del capitalismo, e artificiosamente applicati alle nostre relazioni socialiste.
Alludo fra l'altro a concetti come quelli di lavoro "necessario'' e "supplementare'', di prodotto "necessario'' e "supplementare'', di tempo "necessario'' e "supplementare''. Marx analizzava il capitalismo per mettere in luce la fonte dello sfruttamento della classe operaia, il plusvalore, e dare alla classe operaia, priva dei mezzi di produzione, l'arme spirituale per l'abbattimento del capitalismo. Si capisce che Marx si serve nel far ciò di concetti (categorie) che rispondono perfettamente ai rapporti capitalistici. Ma sarebbe più che strano servirsi di tali concetti oggi che la classe operaia non solo non è priva del potere e dei mezzi di produzione, ma, al contrario, ha nelle sue mani il potere e possiede i mezzi di produzione. E' abbastanza assurdo, oggi, nel nostro sistema, parlare di forza lavoro come merce e di "ingaggio'' degli operai, come se la classe operaia, padrona degli strumenti di produzione, si ingaggiasse da sé o vendesse a se stessa la sua forza lavoro. Altrettanto strano è parlare oggi di lavoro "necessario'' e "supplementare'', come se il lavoro degli operai, nelle nostre condizioni, dato alla società per estendere la produzione, sviluppare l'istruzione, la sanità pubblica, per organizzare la difesa e così via, non fosse altrettanto necessario per la classe operaia che è oggi al potere, del lavoro impiegato per coprire i bisogni personali dell'operaio e della sua famiglia.
Bisogna notare che Marx nella sua Critica del Programma di Gotha, là dove non tratta più del capitalismo, ma, fra l'altro, della prima fase della società comunista, riconosce che il lavoro dato alla società per estendere la produzione, per l'istruzione, la sanità pubblica, le spese amministrative, la formazione delle riserve e così via, è altrettanto necessario del lavoro impiegato per coprire i bisogni di consumo della classe operaia.
Penso che i nostri economisti debbano porre fine a questa discrepanza fra i vecchi concetti e la nuova condizione delle cose nel nostro paese socialista, sostituendo ai vecchi concetti, concetti nuovi, corrispondenti alla nuova situazione.
Abbiamo potuto tollerare questa discrepanza per un certo tempo, ma è giunto il momento in cui finalmente dobbiamo liquidarla.
3. - Questione della legge del valore nel socialismo
Talvolta si domanda: esiste e ha vigore da noi, nel nostro regime socialista, la legge del valore?
Sì, esiste e ha vigore. Là dove esistono merci e produzione mercantile, non può non esistere anche la legge del valore.
Il campo d'azione della legge del valore si estende da noi innanzitutto alla circolazione delle merci, allo scambio delle merci attraverso la compra-vendita, principalmente allo scambio delle merci di consumo individuale. Qui, in questo campo, la legge del valore conserva, naturalmente entro certi limiti, una funzione regolatrice.
Ma l'efficacia della legge del valore non si limita al campo della circolazione delle merci. Essa si estende anche alla produzione. In verità, la legge del valore non ha un'importanza regolatrice nella nostra produzione socialista, ma influisce tuttavia sulla produzione, e di questo non si può non tener conto nel dirigere la produzione stessa. Il fatto è che i prodotti di consumo, indispensabili per reintegrare l'impiego di forza lavoro nel processo produttivo, si producono da noi e si realizzano come merci, soggette all'influenza della legge del valore. Qui appunto si rivela l'influenza della legge del valore sulla produzione. In relazione a ciò, nelle nostre aziende hanno un'importanza attuale questioni come quella del rendimento commerciale e della gestione redditizia, del costo di produzione, dei prezzi, ecc. Perciò le nostre aziende non possono e non devono trascurare di tenere in considerazione la legge del valore.
E' bene ciò? Non è male. Nelle nostre condizioni attuali effettivamente ciò non è male, perché questa circostanza educa i dirigenti della nostra economia nello spirito di una direzione razionale della produzione e li disciplina. Non è male, perché insegna ai nostri dirigenti dell'industria a calcolare le entità produttive, a calcolarle con esattezza, a tener conto con altrettanta esattezza delle cose reali della produzione e a non perdersi in chiacchiere su "dati orientativi'', campati in aria. Non è male perché insegna ai nostri dirigenti dell'industria a cercare, trovare e sfruttare le riserve nascoste, che si celano in seno alla produzione, e a non mettersele sotto i piedi. Non è male, perché insegna ai nostri dirigenti dell'industria a migliorare sistematicamente i metodi della produzione, a diminuire il costo di produzione, ad attuare un rendimento commerciale e a ottenere che le aziende siano in attivo. E' questa una buona scuola pratica, che accelera lo sviluppo dei nostri quadri economici e la loro trasformazione in veri dirigenti della produzione socialista nella fase attuale di sviluppo.
Il male non è che da noi la legge del valore influisca sulla produzione. Il male è che i nostri dirigenti dell'industria e i dirigenti della pianificazione, salvo rare eccezioni, non conoscono bene l'azione della legge del valore, non la studiano e non sanno tenerne conto nei loro calcoli. Così appunto si spiega la confusione che ancora regna da noi nella questione della politica dei prezzi. Ecco uno dei tanti esempi. Qualche tempo fa si decise di regolare nell'interesse della coltivazione del cotone il rapporto tra i prezzi del cotone e del grano, di precisare i prezzi del grano venduto ai raccoglitori di cotone e di aumentare i prezzi del cotone consegnato allo Stato. A questo proposito i nostri dirigenti d'azienda e dirigenti della pianificazione avanzarono una proposta, che non poté non riempire di stupore i membri del Comitato centrale perché, secondo questa proposta, il prezzo di una tonnellata di grano doveva essere quasi uguale a quello di una tonnellata di cotone, e il prezzo di una tonnellata di grano veniva uguagliato a quello di una tonnellata di pane. Alle osservazioni dei membri del Comitato centrale che il prezzo di una tonnellata di pane deve essere superiore al prezzo di una tonnellata di grano, in considerazione delle spese supplementari relative alla macinazione e alla cottura, che il cotone costa in generale molto più caro del grano, come testimoniano anche i prezzi mondiali del cotone e del grano, gli autori della proposta non seppero rispondere nulla di sensato. Il Comitato centrale dovette quindi interessarsi direttamente della questione, diminuire i prezzi del grano e aumentare i prezzi del cotone. Che cosa sarebbe accaduto se la proposta di questi compagni fosse stata tradotta in legge? Avremmo rovinato i raccoglitori di cotone e saremmo rimasti senza cotone.
Ma significa tutto questo che l'influenza della legge del valore si eserciti da noi con la medesima ampiezza che nel capitalismo e che la legge del valore sia da noi la regolatrice della produzione? No, in nessun modo. In realtà il campo d'azione della legge del valore nel nostro regime economico è rigorosamente limitato e circoscritto. Si è già detto che il campo d'azione della produzione mercantile nel nostro regime è limitato e circoscritto. Lo stesso si deve dire del campo d'azione della legge del valore. Non vi è dubbio che l'assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione e la socializzazione dei mezzi di produzione, sia nella città, che nella campagna, non possono non limitare il campo d'azione della legge del valore e il grado della sua influenza sulla produzione.
Nella stessa direzione agisce la legge dello sviluppo pianificato (proporzionale) dell'economia nazionale, che ha sostituito la legge della concorrenza e dell'anarchia dela produzione.
Nella stessa direzione agiscono i nostri piani annuali e quinquennali e in generale tutta la nostra politica economica, che si basa sulle esigenze della legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale.
Tutto questo insieme di elementi fa sì che da noi il campo d'azione della legge del valore sia rigorosamente limitato e che la legge del valore non possa nel nostro regime assolvere la funzione di regolatrice della produzione.
Così appunto si spiega il fatto "sorprendente'' che, nonostante lo sviluppo ininterrotto e impetuoso della nostra produzione socialista, la legge del valore non provoca da noi crisi di sovraproduzione, mentre la stessa legge del valore, che ha nel capitalismo un vasto campo d'azione, nonostante i bassi ritmi di sviluppo della produzione nei paesi capitalistici, provoca in essi crisi periodiche di sovraproduzione.
Si dice che la legge del valore è una legge permanente, obbligatoria per tutti i periodi dello sviluppo storico, che anche se la legge del valore perde la sua efficacia come regolatrice dei rapporti di scambio nella seconda fase della società comunista, essa, in questa fase di sviluppo, conserverà la sua efficacia, come regolatrice dei rapporti fra le diverse branche della produzione, come regolatrice della ripartizione del lavoro fra le branche della produzione.
Ciò è falso del tutto. Il valore, come anche la legge del valore, è una categoria storica, legata all'esistenza della produzione mercantile. Con la scomparsa della produzione mercantile spariranno sia il valore con le sue forme, che la legge del valore.
Nella seconda fase della società comunista la quantità di lavoro impiegata per la produzione dei prodotti, non si misurerà per vie traverse, non tramite il valore e le sue forme, come accade nella produzione mercantile, ma direttamente e immediatamente con la quantità di tempo, con il numero delle ore impiegate nella produzione dei prodotti. Per quanto riguarda la ripartizione del lavoro fra le branche della produzione, essa non sarà regolata dalla legge del valore, che in questo periodo perde la sua efficacia, ma dall'incremento del fabbisogno di prodotti da parte della società. Sarà una società in cui la produzione verrà regolata dal fabbisogno sociale e il calcolo del fabbisogno sociale acquisterà un'importanza primordiale per gli organi pianificatori.
E' completamente errata anche l'affermazione secondo cui nel nostro attuale regime economico, nella prima fase di sviluppo della società comunista, la legge del valore regolerebbe "le proporzioni'' della ripartizione del lavoro tra le diverse branche della produzione.
Se questo fosse vero, non si capirebbe perché da noi non si sviluppa a pieno ritmo l'industria leggera, essendo più redditizia, soprattutto nei confronti dell'industria pesante, che spesso è meno redditizia, e talvolta addirittura completamente passiva.
Se questo fosse vero, non si capirebbe perché da noi non vengano chiuse le aziende dell'industria pesante per il momento ancora passive, dove il lavoro degli operai non ha la "dovuta efficacia'', e non si aprano nuove aziende dell'industria leggera incontestabilmente redditizia, dove il lavoro degli operai potrebbe avere una "maggiore efficacia''.
Se questo fosse vero, non si capirebbe perché da noi non si trasferiscano gli operai dalle aziende poco redditizie, anche se indispensabili all'economia nazionale, alle aziende più redditizie, secondo la legge del valore che regolerebbe le "proporzioni'' della ripartizione del lavoro fra le branche della produzione.
E' evidente che, se si seguissero le orme di questi compagni, dovremmo desistere dal dare la precedenza alla produzione dei mezzi di produzione a favore della produzione dei mezzi di consumo. Ma che cosa significa desistere dal dare la precedenza alla produzione dei mezzi di produzione? Significa eliminare la possibilità di sviluppo ininterrotto della nostra economia nazionale, perché è impossibile attuare uno sviluppo ininterrotto dell'economia nazionale senza dare, al tempo stesso, la precedenza alla produzione dei mezzi di produzione.
Questi compagni dimenticano che la legge del valore può regolare la produzione solo nel capitalismo, quando esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, quando esistono la concorrenza, l'anarchia della produzione e le crisi di sovraproduzione. Essi dimenticano che da noi il campo d'azione della legge del valore è limitato dall'esistenza della proprietà sociale dei mezzi di produzione, dal fatto che vige la legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale e, per conseguenza, questo campo è anche limitato dai nostri piani annuali e quinquennali, che rispecchiano per approssimazione le esigenze di questa legge.
Alcuni compagni traggono di qui la conclusione che la legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale e la pianificazione dell'economia nazionale sopprimono il principio del rendimento della produzione. Ciò è falso del tutto. Le cose stanno esattamente al contrario. Se si considera il rendimento non per aziende o branche della produzione singole e non in riferimento a un solo anno, ma per tutta l'economia nazionale e in riferimento, poniamo, a un periodo di 10-15 anni - e questo sarebbe l'unico modo giusto di affrontare la questione - il rendimento momentaneo e instabile di aziende o branche della produzione singole non può in nessun modo stare a confronto con quella forma superiore di rendimento stabile e permanente che ci viene assicurato dall'azione della legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale e dalla pianificazione dell'economia nazionale, liberandoci dalle crisi economiche periodiche, le quali distruggono l'economia nazionale e infliggono alla società un immenso danno materiale, e assicurandoci una ascesa ininterrotta dell'economia nazionale con i suoi ritmi elevati.
In breve: non vi è dubbio che nelle nostre attuali condizioni socialiste della produzione la legge del valore non può essere la "regolatrice delle proporzioni'' nella ripartizione del lavoro fra le diverse branche della produzione.
http://www.resistenze.org/sito/ma/di...n21-010145.htm
(segue...)