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    Predefinito “Le foibe se le sono cercate i fascisti”: all’Aquila va in scena il negazionismo dell

    L’Aquila, 16 dic – Una mattanza di nostri connazionali con l’unica colpa di essere italiani e vivere da secoli nelle terre di Istria, Fiume e Dalmazia. Fra i 10 e i 20mila morti e almeno 350mila esuli: sono i numeri del massacro delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, tragedia che vede come responsabili i partigiani jugoslavi del maresciallo Tito.

    La tragedia, per tanto tempo taciuta, solo di recente ha visto la verità venire a galla. Una verità scomoda perché inchioda i “vincitori” alle proprie responsabilità. E fa vergognare una certa sinistra, pronta a negare perfino l’evidenza. Com’è successo ad esempio a L’Aquila, dove la consigliera comunale Carla Cimoroni ha cercato di riscrivere la storia, attribuendo il massacro….ai fascisti.

    Proprio così. “Le foibe se le sono cercate i fascisti“, ha spiegato la consigliera, eletta all’assise del capoluogo abruzzese da candidata a sindaco nelle liste di una coalizione appoggiata da Rifondazione Comunista e centri sociali aquilani, nel corso di una conferenza organizzata ieri dalla locale sezione dell’Anpi in “risposta” all’evento che nelle stesse ore vedeva CasaPound incontrare in città il proprio leader Simone Di Stefano. “Fu il regime a volere la guerra, furono loro ad aggredire il confine orientale, a forzarne l’italianizzazione ricorrendo persino ai campi di concentramento – ha poi aggiunto, attingendo a piene mani dalla retorica negazionista – non possiamo permettere che la storia la scrivano gli altri, non possiamo cedere alla retorica degli italiani brava gente”.

    Insomma, sembra voler dire la Cimoroni, le foibe sono colpa nostra: assolviamo dunque i responsabili di quella che fu a tutti gli effetti una pulizia etnica. Parole che hanno subito incontrato la dura reazione degli esponenti del movimento della tartaruga frecciata: “Le parole della Cimoroni sono l’ennesima conferma dell’odio che la sinistra antifascista nutre nei confronti degli italiani e in particolare dei nostri fratelli giuliano-dalmati, massacrati a migliaia dai partigiani titini”, ha affermato il responsabile regionale Simone Laurenzi il quale, oltre a chiedere “che il consiglio comunale condanni con fermezza tali affermazioni”, annuncia che “CasaPound risponderà a queste ridicole provocazioni con i fatti, cioè con la grande fiaccolata che proprio il prossimo 10 febbraio, Giorno del ricordo, sfilerà per le strade dell’Aquila in memoria dei martiri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. All’odio degli antifascisti faremo fronte ancora una volta con l’amore per l’Italia e gli italiani”.



    "Le foibe se le sono cercate i fascisti": all'Aquila va in scena il negazionismo della sinistra

  2. #2
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    Predefinito Re: “Le foibe se le sono cercate i fascisti”: all’Aquila va in scena il negazionismo

    coalizione appoggiata da Rifondazione Comunista e centri sociali aquilani
    ISIS ha rifiutato l'invito, suppongo.
    Hitler or Hell.

  3. #3
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    Predefinito Re: “Le foibe se le sono cercate i fascisti”: all’Aquila va in scena il negazionismo

    _Non rinnegare e non restaurare__


    Difendi la nazione come nei tempi passati, in modo moderno:" fotti lo Stato antifascista! "(Giò)
    L'invidia ha due bocche; con una sputa miele , con l'altra sputa veleno e fiele

  4. #4
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    Predefinito Re: “Le foibe se le sono cercate i fascisti”: all’Aquila va in scena il negazionismo


    La sinistra italiana: una lunga storia di odio per la nazione
    Roma, 4 mar – Difficilmente nella storia dei partiti e degli ambienti politici internazionali si può trovare tanto livore antipatriottico come nella cosiddetta sinistra italiana. Sin dalle loro origini, movimenti e partiti di sinistra hanno cavalcato la polemica contro il popolo italiano e i suoi vizi atavici, in nome di «ideali universali» d’importazione, con risultati che ancora scontiamo sulla nostra pelle. Uno dei casi più clamorosi risale alla Prima guerra mondiale, quando il Partito Socialista Italiano si schiera contro l’intervento del nostro Paese nel conflitto: molti di loro dicono «non aderire, non sabotare» alimentando al contempo il sogno, al motto «proletari di tutti il mondo unitevi», dell’unione internazionale di classe contro i nazionalismi. Peccato che nessun partito socialista europeo seguì l’esempio, fattore che contribuì a mettere in ridicolo la propaganda anti-patriottica di uomini del PSI come Matteotti, mentre migliaia di soldati combattevano per difendere i confini della nazione.

    Come se non bastasse, al termine del conflitto i socialisti si distinsero per le offese ai reduci e una serie interminabile di agitazioni, occupazioni e violenze. Quel periodo sanguinoso, noto come «biennio rosso», originava dal tentativo di fare una rivoluzione sull’esempio della Russia del 1917. La fascinazione verso Mosca portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia nel 1921, con il preciso scopo di aderire ai 21 punti dell’Internazionale comunista promossi da Lenin. A spazzare via i sogni rivoluzionari ci pensò il giovane movimento fascista, che in pochi anni distrusse gli avversari sia sul piano “fisico” che ideologico. Successivamente si aprì un raro periodo in cui nel nostro paese la tematica nazionale andò di pari passo con quella sociale: reduci e uomini d’ordine convivevano con sindacalisti rivoluzionari e intellettuali come Giuseppe Bottai, in nome di una terza via puramente italiana, connotata da corporativismo e socializzazione. Con il ritorno dei comunisti e la fine del conflitto si rifece vivo l’antico odio per la nazione. La furia ideologica si manifestò nella guerra civile e nella «strategia della tensione» messa in atto con gli attentati partigiani, mentre chi parlava di concordia nazionale come Giovanni Gentile venne brutalmente assassinato. In nome dell’ideale comunista le stragi colpirono anche i “moderati” antifascisti, come a Porzus.

    Nel dopoguerra, oltre alle rappresaglie partigiane, arrivò un convinto appoggio a Tito, testimoniato dalle incredibili parole di Togliatti: «È assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto da me personalmente istruzioni precise: la sola direttiva da darsi è che le nostre unità di partigiani e italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino in modo più stretto con le unità di Tito». Questo atteggiamento contribuì a stendere un velo sul dramma delle foibe e sul successivo esodo italiano dalla Venezia Giulia. Non solo, gli esuli vennero spesso accolti con sputi e insulti dai comunisti, che li bollavano perlopiù come fascisti in fuga dal «paradiso comunista». Solo dopo più di 50 anni e con la caduta del Muro di Berlino si è riuscito a parlare di questa profonda ferita nazionale, occultata in nome della solidarietà internazionale del PCI con la Jugoslavia e il comunismo internazionale (e ancora oggi minimizzata da circoli fuori dalla storia come l’ANPI).

    Alla luce di questa vicenda, è facile capire come i comunisti italiani di Togliatti, ospite in Russia per lungo tempo negli anni del fascismo, seguissero pedissequamente ogni indicazione ideologica proveniente da Mosca, che ricopriva inoltre di rubli il partito. Sono gli anni in cui esporre un tricolore veniva considerato quasi un reato e un’apologia di fascismo. Ben inseriti nei gangli della cultura, dell’accademia e della magistratura, i militanti comunisti contribuirono a far lievitare l’autorazzismo antinazionale, in nome della lotta di classe e della rivoluzione comunista. Nelle manifestazioni giovanili, anche Mao poteva diventare un simbolo, invece che Mazzini, Oriani, Garibaldi. Le prime crepe all’ortodossia ideologica del PCI, da parte soprattutto della corrente “migliorista”, non arrivarono nel segno di un sano orgoglio nazionale, ma strizzando l’occhio all’altra superpotenza: gli Stati Uniti d’America. Negli infuocati anni ‘70 cominciò la lenta strategia d’avvicinamento di alcuni esponenti comunisti verso i liberal americani e uomini d’alto livello della politica a stelle e strisce. Giovanni Amendola si incontrò più volte con Brzezinski, stratega del Pentagono, studioso dell’URSS e in quel periodo presidente della Commissione Trilaterale. Sergio Segre ebbe rapporti con ambienti americani attivi a Roma (come il diplomatico Robert Boies) così come il suo successore agli affari esteri del PCI Giorgio Napolitano. Il suo viaggio in USA ai tempi del sequestro Moro fu clamoroso, tanto come le sue parole distensive verso la NATO e la sua visita al CFR. Duane Clarridge, all’epoca “capostazione” CIA a Roma, ha parlato addirittura di un’infiltrazione organica dei servizi americani all’interno del partito comunista, in cui diversi esponenti «sbavavano per entrare al governo».

    L’occasione arrivò dopo gli intensi anni ’80, segnati da un leader sovranista come Craxi, alfiere di uno dei pochi «socialismi tricolori» secondo Giano Accame e non a caso odiato dai comunisti. Siamo nei primi anni ’90, in prima fila nel PCI ci sono Occhetto e Napolitano, il «comunista preferito di Kissinger», che hanno compiuto un viaggio negli States nel 1989 incontrando il gotha politico e economico americano. Lo scompaginamento della prima Repubblica dettato dagli scandali di Tangentopoli è la ghiotta occasione per il più grande partito della sinistra italiana, che viene risparmiato dalle inchieste. Il protagonista giudiziario Di Pietro, che ha contatti con il “falco” USA Michal Ledeen, una volta lasciata la toga verrà eletto in parlamento con l’appoggio della sinistra.

    Dopo la parentesi Berlusconi, finalmente l’ex PCI arriva al potere. Ma quello di cui parliamo non è più una forza sociale, ma un partito mutato geneticamente, sempre più plasmato sul modello dei democratici americani. L’unica continuità è nell’impostazione antinazionale: i cavalli di battaglia sono i diritti umani, l’europeismo “senza se e senza ma” e le liberalizzazioni che demoliscono il patrimonio industriale italiano. Prodi, uno dei presenti al celebre incontro sul panfilo «Britannia», svende letteralmente l’IRI, con le banche americane che incassano laute consulenze. Una continua politica suicida che perdura fino ai giorni nostri: politiche di genere e diritti civili sono le pallide battaglie ideologiche per nascondere il totale abbandono a cui sono lasciati i lavoratori italiani e l’interesse nazionale.

    Una nutrita critica proveniente dalla stessa sinistra (Bagnai e Gallino tra gli altri) ha da tempo messo in luce le ipocrisie di una classe dirigente totalmente svenduta al livellamento della globalizzazione e allo straniero, sia esso a Washington o a Bruxelles. Napolitano è rimasto protagonista, prima avallando la guerra in Libia, clamorosamente lesiva dei nostri stessi interessi, poi orchestrando un “colpo di Stato dolce” (per dirla alla Tremonti) per scalzare Silvio Berlusconi. Il tutto a favore del “tecnico” Monti ma soprattutto dell’ormai abituale alleato: la democrazia USA, ancora meglio se con il primo presidente nero (cioè “buono” secondo il PD-pensiero) Obama. Guerre “umanitarie”, investitori esteri, modello sociale anglosassone, complessi d’inferiorità verso lo straniero, diktat europei, immigrazione selvaggia: tutto, purché non questa «rozza» e «razzista» Italia.

    Francesco Carlesi

    Roma, 4 mar – Difficilmente nella storia dei partiti e degli ambienti politici internazionali si può trovare tanto livore antipatriottico come nella cosiddetta sinistra italiana. Sin dalle loro origini, movimenti e partiti di sinistra hanno cavalcato la polemica contro il popolo italiano e i suoi vizi atavici, in nome di «ideali universali» d’importazione, con risultati che ancora scontiamo sulla nostra pelle. Uno dei casi più clamorosi risale alla Prima guerra mondiale, quando il Partito Socialista Italiano si schiera contro l’intervento del nostro Paese nel conflitto: molti di loro dicono «non aderire, non sabotare» alimentando al contempo il sogno, al motto «proletari di tutti il mondo unitevi», dell’unione internazionale di classe contro i nazionalismi. Peccato che nessun partito socialista europeo seguì l’esempio, fattore che contribuì a mettere in ridicolo la propaganda anti-patriottica di uomini del PSI come Matteotti, mentre migliaia di soldati combattevano per difendere i confini della nazione.

    Come se non bastasse, al termine del conflitto i socialisti si distinsero per le offese ai reduci e una serie interminabile di agitazioni, occupazioni e violenze. Quel periodo sanguinoso, noto come «biennio rosso», originava dal tentativo di fare una rivoluzione sull’esempio della Russia del 1917. La fascinazione verso Mosca portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia nel 1921, con il preciso scopo di aderire ai 21 punti dell’Internazionale comunista promossi da Lenin. A spazzare via i sogni rivoluzionari ci pensò il giovane movimento fascista, che in pochi anni distrusse gli avversari sia sul piano “fisico” che ideologico. Successivamente si aprì un raro periodo in cui nel nostro paese la tematica nazionale andò di pari passo con quella sociale: reduci e uomini d’ordine convivevano con sindacalisti rivoluzionari e intellettuali come Giuseppe Bottai, in nome di una terza via puramente italiana, connotata da corporativismo e socializzazione. Con il ritorno dei comunisti e la fine del conflitto si rifece vivo l’antico odio per la nazione. La furia ideologica si manifestò nella guerra civile e nella «strategia della tensione» messa in atto con gli attentati partigiani, mentre chi parlava di concordia nazionale come Giovanni Gentile venne brutalmente assassinato. In nome dell’ideale comunista le stragi colpirono anche i “moderati” antifascisti, come a Porzus.

    Nel dopoguerra, oltre alle rappresaglie partigiane, arrivò un convinto appoggio a Tito, testimoniato dalle incredibili parole di Togliatti: «È assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto da me personalmente istruzioni precise: la sola direttiva da darsi è che le nostre unità di partigiani e italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino in modo più stretto con le unità di Tito». Questo atteggiamento contribuì a stendere un velo sul dramma delle foibe e sul successivo esodo italiano dalla Venezia Giulia. Non solo, gli esuli vennero spesso accolti con sputi e insulti dai comunisti, che li bollavano perlopiù come fascisti in fuga dal «paradiso comunista». Solo dopo più di 50 anni e con la caduta del Muro di Berlino si è riuscito a parlare di questa profonda ferita nazionale, occultata in nome della solidarietà internazionale del PCI con la Jugoslavia e il comunismo internazionale (e ancora oggi minimizzata da circoli fuori dalla storia come l’ANPI).

    Alla luce di questa vicenda, è facile capire come i comunisti italiani di Togliatti, ospite in Russia per lungo tempo negli anni del fascismo, seguissero pedissequamente ogni indicazione ideologica proveniente da Mosca, che ricopriva inoltre di rubli il partito. Sono gli anni in cui esporre un tricolore veniva considerato quasi un reato e un’apologia di fascismo. Ben inseriti nei gangli della cultura, dell’accademia e della magistratura, i militanti comunisti contribuirono a far lievitare l’autorazzismo antinazionale, in nome della lotta di classe e della rivoluzione comunista. Nelle manifestazioni giovanili, anche Mao poteva diventare un simbolo, invece che Mazzini, Oriani, Garibaldi. Le prime crepe all’ortodossia ideologica del PCI, da parte soprattutto della corrente “migliorista”, non arrivarono nel segno di un sano orgoglio nazionale, ma strizzando l’occhio all’altra superpotenza: gli Stati Uniti d’America. Negli infuocati anni ‘70 cominciò la lenta strategia d’avvicinamento di alcuni esponenti comunisti verso i liberal americani e uomini d’alto livello della politica a stelle e strisce. Giovanni Amendola si incontrò più volte con Brzezinski, stratega del Pentagono, studioso dell’URSS e in quel periodo presidente della Commissione Trilaterale. Sergio Segre ebbe rapporti con ambienti americani attivi a Roma (come il diplomatico Robert Boies) così come il suo successore agli affari esteri del PCI Giorgio Napolitano. Il suo viaggio in USA ai tempi del sequestro Moro fu clamoroso, tanto come le sue parole distensive verso la NATO e la sua visita al CFR. Duane Clarridge, all’epoca “capostazione” CIA a Roma, ha parlato addirittura di un’infiltrazione organica dei servizi americani all’interno del partito comunista, in cui diversi esponenti «sbavavano per entrare al governo».

    L’occasione arrivò dopo gli intensi anni ’80, segnati da un leader sovranista come Craxi, alfiere di uno dei pochi «socialismi tricolori» secondo Giano Accame e non a caso odiato dai comunisti. Siamo nei primi anni ’90, in prima fila nel PCI ci sono Occhetto e Napolitano, il «comunista preferito di Kissinger», che hanno compiuto un viaggio negli States nel 1989 incontrando il gotha politico e economico americano. Lo scompaginamento della prima Repubblica dettato dagli scandali di Tangentopoli è la ghiotta occasione per il più grande partito della sinistra italiana, che viene risparmiato dalle inchieste. Il protagonista giudiziario Di Pietro, che ha contatti con il “falco” USA Michal Ledeen, una volta lasciata la toga verrà eletto in parlamento con l’appoggio della sinistra.

    Dopo la parentesi Berlusconi, finalmente l’ex PCI arriva al potere. Ma quello di cui parliamo non è più una forza sociale, ma un partito mutato geneticamente, sempre più plasmato sul modello dei democratici americani. L’unica continuità è nell’impostazione antinazionale: i cavalli di battaglia sono i diritti umani, l’europeismo “senza se e senza ma” e le liberalizzazioni che demoliscono il patrimonio industriale italiano. Prodi, uno dei presenti al celebre incontro sul panfilo «Britannia», svende letteralmente l’IRI, con le banche americane che incassano laute consulenze. Una continua politica suicida che perdura fino ai giorni nostri: politiche di genere e diritti civili sono le pallide battaglie ideologiche per nascondere il totale abbandono a cui sono lasciati i lavoratori italiani e l’interesse nazionale.

    Una nutrita critica proveniente dalla stessa sinistra (Bagnai e Gallino tra gli altri) ha da tempo messo in luce le ipocrisie di una classe dirigente totalmente svenduta al livellamento della globalizzazione e allo straniero, sia esso a Washington o a Bruxelles. Napolitano è rimasto protagonista, prima avallando la guerra in Libia, clamorosamente lesiva dei nostri stessi interessi, poi orchestrando un “colpo di Stato dolce” (per dirla alla Tremonti) per scalzare Silvio Berlusconi. Il tutto a favore del “tecnico” Monti ma soprattutto dell’ormai abituale alleato: la democrazia USA, ancora meglio se con il primo presidente nero (cioè “buono” secondo il PD-pensiero) Obama. Guerre “umanitarie”, investitori esteri, modello sociale anglosassone, complessi d’inferiorità verso lo straniero, diktat europei, immigrazione selvaggia: tutto, purché non questa «rozza» e «razzista» Italia.

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    http://www.ilprimatonazionale.it/cul...nazione-41155/
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    Predefinito Re: “Le foibe se le sono cercate i fascisti”: all’Aquila va in scena il negazionismo

    Ci hatoccato tuti, chi perchè aveva un conoscente ,un parente , disgraziati negano tutto, avevo un cugino molto più grande di me era di Pola ,mi ricordo bene quando MAMMA PAOLA" raccontava come gli era mrto il maritito e come lei e mio cugino dovvettero fugire su un carretto per rientrare in Italia , lui era mio cugino perchè aveva sposato , la figlia di una mia zia , anche lei era molto piùgrande di me , c'erano qyuasi 20 anni di differenza , che tristi ricordi e questa sinistra stracciona ancora nega .Che cosa credono di poter negare la verità ?
    _Non rinnegare e non restaurare__


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    Predefinito Re: “Le foibe se le sono cercate i fascisti”: all’Aquila va in scena il negazionismo


    SANDRO PERTINI : ERA DAVVERO IL “BUON NONNETTO CON LA PIPA IN BOCCA “ ?


    LUISA FERIDA: STORIA DI UNA DONNA INCINTA
    CONDANNATA A MORTE DA SANDRO PERTINI




    “Avete mai sentito il nome di Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè? Probabilmente no. Provate a chiedere ai vostri nonni e bisnonni: forse la conoscono davvero bene.

    Classe 1914, fu uno dei volti più celebri del cinema italiano negli anni ’30-’40, assoluta protagonista nel panorama del "Cinema dei Telefoni Bianchi". Marco Innocenti, giornalista de “Il Sole 24 Ore”, la descrive così: «Bruna, impacciata, focosa, Luisa è bella da morire e ha già addosso quel broncio che porterà con sé nella sua breve vita. Gli occhi sono pungenti da zingara, gli zigomi alti, i capelli color carbone, il corpo splendido, il portamento altero. In lei c'è qualcosa di erotico, di torbido e di felino, una sensualità, una rotonda carnalità da bellezza popolana, così amata dagli italiani di allora»

    Era l’estate del ’39 quando la bella Luisa conobbe Osvaldo Valenti, altro divo del cinema dell’epoca. I due furono colpiti dal dardo di Cupido, che li portò a vivere un’intensa storia d’Amore. Condivisero gioie e dolori, piaceri e rinunce, ma vissero sempre insieme, sempre uniti. Insieme ed uniti affrontarono anche le sorti dell’Italia a seguito del tradimento dell’8 settembre.

    Valenti, che fino ad allora non aveva mai avuto incarichi nella compagine fascista, si arruola volontariamente nella Repubblica Sociale Italiana. Nel ’44 è tenente della Xa Flottiglia MAS. Nel frattempo, pare che la coppia frequenti Villa Triste a Milano, sede della famigerata Banda Koch. Diciamo “pare” perché non sono stati mai accertati legami tra quest’ultima e la coppia Valenti-Ferida. Nulla di certo, nulla di dimostrato; solo congetture e trame vigliacche, sufficienti per condannarli a morte. Difatti, il 10 aprile ’45 Valenti, forse per aver salva la vita e,soprattutto, quella di Luisa che aspettava un bambino, (la coppia aveva già concepito un figlio, morto purtroppo poco dopo la nascita), decise di consegnarsi spontaneamente ai partigiani. Si rifugiò in casa di Nino Pulejo, appartenente alle Brigate Matteotti, il quale però lo scaricò, affidando le due celebrità al comandante Marozin della Divisione Pasubio, che non era certo uno stinco di santo, dato che era stato trasferito a Milano dal Veneto per sfuggire ad una condanna a morte del CLN, (pensate!), per furti, abusi e altri crimini.

    Il 21 aprile Marozin incontra Sandro Pertini il quale chiede di Valenti; avuta la notizia della sua prigionia, il “grande presidente” ordina lapidario: “fucilali (quindi anche la Ferida, incinta!); e non perdere tempo. Questo è un ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene!”. «Ordine tassativo del CLN: chi lo avrà dato e quando? Di quell' ordine, che sarebbe stato determinato dall' accusa ai due d' avere partecipato alle torture della banda Koch e di avere collaborato con i tedeschi,(ripetiamo: circostanza mai dimostrata! ), dovrebbe esserci stato un documento scritto. Nessuno lo ha veduto. Di scritto c' è soltanto un foglio in data 25 aprile dove si legge che ‘...il CLN su proposta dei socialisti vota all' unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici’. Dunque, un deferimento, non una sentenza. Ma in quel mese di aprile, e peggio nei successivi, c' era la fucilazione facile e bastò l' intervento di Pertini a decidere la sorte dei due attori. Marozin voleva scambiarli con cinque dei suoi presi prigionieri dai tedeschi. Fallito il tentativo, non ebbe scrupoli a liberarsi dei due ingombranti personaggi e ad eseguire l' ordine.»

    Così, il Valenti e la Ferida furono condotti in una cascina, ove vissero i loro ultimi giorni. L’attore subì un processo sommario, al termine del quale fu confermata la condanna a morte. Condanna che non fu mai comunicata al diretto interessato e che riguardava anche la compagna. Ignari della loro fine, i due innamorati furono caricati su un camion tra gente rastrellata. Giunti in via Poliziano, furono fatti scendere e messi faccia al muro. La donna stringeva in mano una scarpina azzurra di lana, destinata a scaldare i piedi innocenti di quel bambino che non vedrà mai la luce. Partì la raffica di mitra. I due caddero al suolo, stretti tanto nella Vita quanto nella Morte. Su di loro furono adagiati due cartelloni. Due scritte rosse dicevano: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Tre vite spezzate in colpo solo. Due vite probabilmente incolpevoli riguardo le accuse di collaborazionismo nazi-fascista e di aver compiuto ogni genere di atrocità a Villa Triste; una semplicemente candida.

    Come se ciò non bastasse, Marozin e i suo compagni depredarono anche gli averi della coppia defunta, finiti poi chissà dove.
    Negli anni successivi, la madre della Ferida domandò una pensione di guerra, dato che traeva le sue sostanze dai proventi della figlia. La domanda rese doverosi degli accertamenti sulla vicenda. Le indagini dei Carabinieri portarono alla conclusione che “la Manfrini, (vero nome della Ferida,), dopo l'8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell'epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano”. Conclusione ribadita dallo stesso Marozin, il quale disse: “La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti”. Nemmeno Valenti aveva probabilmente fatto niente, come fu poi confermato dalla Corte d’Appello di Milano, la quale ebbe a dire che la Ferida e Valenti non furono giustiziati, bensì assassinati. Su questa posizione anche Romano Bracalini, biografo di Valenti, che dice: "La frettolosa condanna del CLN obbediva sostanzialmente alla regola umana e crudele che alla spettacolarità del simbolo che egli aveva rappresentato corrispondesse subito e senza ambagi una punizione altrettanto spettacolare. In altre parole egli doveva morire non già per quello che aveva fatto, quesito secondario, ma per l'esempio che aveva costituito"

    Questo è ciò dice la storia, ciò che è realmente accaduto in quei giorni maledetti, che qualcuno si ostina ancora a chiamare “giornate radiose”.
    In cuor nostro speriamo solo che prenda avvio un processo di seria revisione storico-politica riguardo la persona di Sandro Pertini, indegnamente spacciato per un eroe del nostro tempo, per un uomo degno di stima e ammirazione.
    I fatti dicono il contrario: fu un inetto e, per giunta, con le mani sporche di sangue. E' giunta l’ora di smettere di scrivere l’agiografia di questo personaggio, di questo falso mito e di iniziare a dire la verità.: un cattivo che ha giocato a fare il buono, il “buon nonnetto con la pipa in bocca”

    Lasciando , -per ora- , perdere gli onori resi dal Pertini alla bara di Tito,infoibatore di Italiani, di cui parleremo più avanti

    AVANGUARDIA NAZIONALE BERGAMO: SANDRO PERTINI : ERA DAVVERO IL ?BUON NONNETTO CON LA PIPA IN BOCCA ? ?





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