Controcorrente di Montanelli – “La Malfa, siciliano” (1974)






di Indro Montanelli – “La Stampa”, 10 marzo 1974



Il 2 marzo, aprendo il giornale e trovandoci la notizia delle dimissioni di La Malfa, credo che gl’italiani abbiano provato la stessa sorpresa che da parecchi mesi provavo io non trovandocela. Ogni volta che uscivo da un colloquio con lui nel suo ufficio ministeriale, mi veniva fatto di voltarmi indietro per vedere se mi seguiva sbattendosi la porta alle spalle. E appena in strada, il mio occhio correva alla ricerca di qualche armeria in cui acquistare una pistola per farmi saltare le cervella: di tutte le prospettive ch’egli mi aveva illustrato, questa mi sembrava la meno drammatica, e comunque la solo praticabile.
Dicono che la decisione di abbandonare la carica egli la maturasse dal giorno in cui l’aveva assunta. Ma si tratta di una di quelle mezze verità con cui si costruiscono le grandi bugie. La Malfa è l’unico uomo politico italiano che la politica non la confonde col potere, e che anzi del potere mostra una inappetenza che sconfina nell’anoressia. La “stanza dei bottoni” non è mai stata il suo habitat preferito, e le poche volte che c’è entrato vi ha dato segni di acuta claustrofobia.
Posso testimoniare che quando gli offrirono il Tesoro, noi amici dovemmo mettercela tutta per indurlo ad accettare. Ma solo chi non lo conosce abbastanza può dedurne che fin d’allora egli fosse persuaso della impossibilità di rimettere a posto le cose e non vedesse l’ora di rinunziare al compito. La Malfa adora di farsi imporre le decisioni che ha già preso. Se fosse nato donna, prima di coricarsi con suo marito – o col suo amante – lo costringerebbe a travestirsi da marocchino. Più è pesante, più la croce lo attira. Ma esige che siano gli altri a caricargliela sulle spalle. Non per un giuoco d’ipocriti pudori e di modestia violentata, ma perché a tutto è disposto a rinunciare fuorché all’amaro piacere del “ve l’avevo detto?”.
Di qualunque emergenza o catastrofe egli è pronto ad assumersi tutte le responsabilità tranne quella di non averla prevista e annunciata. Se un giorno precipitasse da una finestra del sesto piano – è un’ipotesi, si capisce, non un augurio -, le sue ultime parole, giacendo sul selciato, sarebbero: “L’avevo detto, io, che dei davanzali non c’è da fidarsi”. Conosco bene questa varietà zoologica perché ne ho avuto un esemplare in famiglia: uno zio che, giolittiano e neutralista per la pelle, quando scoppiò la prima guerra mondiale, si arruolò volontario, collezionò tre ferite e quattro medaglie d’argento, ma non cessò mai di bombardare la famiglia per annunciarle l’arrivo, da lui dato per inevitabile e imminente, degli austriaci in Toscana. E quando invece gli austriaci cominciarono a risalire le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza, pronunciò questo lapidario commento: “Lo so, lo so, ma che volete farci? Anche la Storia qualche volta sbaglia”.
Voglio dire insomma che del pessimismo La Malfa non si serve come di un alibi della rinuncia e della rassegnazione, ma come di un’uscita di sicurezza, di una terapia preventiva contro la delusione. Sapeva benissimo, quando prese in appalto la lira, a cosa andava incontro. “C’è un governo – diceva – in grado d’imporre agl’italiani di consumare meno e di lavorare di più? Non c’è. E allora che ci vado a fare io? Li conosco, quelli lì. Che occorra consumare di meno e lavorare di più, lo sanno anche loro, lo sanno perfino loro, che non sanno niente. Ma credi che lo riconosceranno? Manco di questo sono capaci. Io già lo vedo, il ministro del Tesoro La Malfa. Le sue proposte non vengono né accolte né respinte. Vengono ignorate fin quando il ministro La Malfa minaccia le dimissioni: dimissioni che sarebbero prontamente e gioiosamente accolte, se non comportassero la crisi ministeriale. Il solito ricatto: vuoi scuotere la fiducia del Paese? Al discredito delle istituzioni vuoi contribuire? Il ministro La Malfa piega la testa, fa altre proposte che vengono ugualmente ignorate. Minaccia nuovamente le dimissioni. Torna a rimangiarsele. E così via fin quando la lira si consuma, si consuma il governo, si consuma l’Italia, e si consuma anche La Malfa, che a consumarsi è anche pronto, ma per qualcosa. Così, no. Eh, no. No, eppoi no…”.
Questo me lo diceva, se ben ricordo, un lunedì. Il martedì leggevo sul giornale che La Malfa aveva accettato. Da allora non l’avevo più rivisto che a scappa e fuggi, sempre più magro, sempre più tirato, sempre più nero, sempre più grondante di “ve l’avevo detto?”, ma anche sempre più ostinato a chiedere che gl’italiani consumassero di meno e producessero di più. Senza speranza di vittoria, ma incapace di arrendersi, seguitava a battersi, come Guglielmo d’Orange, passando senza soluzione di continuità dal furore alla disperazione.

La risata

Una volta andammo a cena in trattoria. Per mezz’ora non ci fu verso di schiodarlo dal plumbeo silenzio in cui si era sepolto. Ma quando nel mio monologo feci cadere il nome di un ministro suo collega, balzò dalla sedia come un misirizzi e mettendomi l’indice sotto il naso che quasi me lo toccava, sbottò: “Ti proibbbisco… Anche il nome ti proibbbisco di pronunziare di quel miserabbbile…”. Dalla sorpresa, gli avventori dei tavoli accanto erano ammutoliti, e seguivano quell’aggressione nel timore – o forse nella speranza – che ci scappasse il morto. Ci scappò solo un ennesimo sfogo di La Malfa, accorato, disperato, ma mai rassegnato.
Manca a La Malfa, per farne un uomo di potere, quel pizzico di cinismo che consente di scendere al compromesso accettando il male per evitare il peggio. Egli porta nella politica una passione siciliana, intera, gelosa, ombrosa, impaziente, allergica a patteggiamenti e dilazioni. Se non ci fosse, a salvarlo, una vena di umorismo alla Brancati che ogni tanto gli risolve la tensione in una risata a scroscio che rammenta quello dello sciacquone, finirebbe in manicomio, reparto agitati.

Un monaco

La sua giornata è scandita da un orario da monaco, o da forzato. Alle cinque del mattino è già immerso nei giornali. Li legge di sbieco tenendoli incollati alla tempia. Eppoi fino alle otto scrive lettere, di sbieco anche quelle, con righe quasi in tralice tanto digradano dall’alto al basso e una grafia da elettrocardiogramma. Da quel momento, fino a notte, è al Ministero, quando ne ha uno. Quando non lo ha, le sue tracce si perdono, nonostante il servizio di avvistamento predisposto dai suoi collaboratori per tenersi in contatto con lui. Inutile chiedersi dov’è: può essere dovunque, dovunque lo richieda la “missione”, perché non pensa che a quella. Dalla mattina alla sera non fa che ascoltare, parlare, persuadere, toccando tutti i tasti, la ragione e l’emozione, qualche volta perfino ricorrendo alla commedia, ma immedesimandocisi a tal punto da non sapere più egli stesso se la recita o la vive.
Non conosco vocazione più vorace della sua, e più disinteressata. Di La Malfa si può dire tutto quello che si vuole. Ma una qualità bisogna riconoscergliela: è l’unico uomo politico italiano che al trionfo di un’idea potrebbe sacrificare tranquillamente la carriera e la vita senza nemmeno accorgersi di compiere qualcosa di eccezionale. Ne ho una prova indiretta che ho già raccontato in altra occasione. Anni orsono, dopo una delicatissima operazione agli occhi, i medici lo avevano messo al buio, convinti che ormai ci sarebbe rimasto per sempre. Telefonai a sua moglie per avere notizie. Mi rispose, dal buio, egli stesso. Gli chiesi come andava. “Come vuoi che vada – rispose cavernosamente – con questa Europa che non si fa?”. Stava per diventare cieco, e pensava all’Europa.
Passa per impulsivo, e anche le sue dimissioni sono state da molti attribuite a un colpo di testa. Posso in tutta coscienza smentirlo. Quella decisione la maturava da mesi, e la lettera con cui ne diede comunicazione a Rumor la scrisse alle tre e mezzo del mattino dopo aver trascorso la notte, lui che di solito si corica alla nove, a passeggiare su e giù per la stanza. Di lì a due giorni me lo vidi capitare in casa. Per la prima volta, dopo tutti quei mesi di tensione di angoscia, lo trovai disteso, tranquillo, quasi allegro. Mi disse tutto quello che aveva in animo di fare, e che poi in realtà ha fatto e sta facendo, compreso il suo ritiro dal partito per dargli modo di secondare un nuovo quadripartito in cui non ha fiducia, ma a cui non vuol creare imbarazzi. “Niente polemiche – mi disse -: questo è l’impegno che ho preso con me stesso e che i miei amici devono prendere con me”.
“Ma cosa prevedi? – gli chiesi -. Dove andiamo?”. Appoggiò la fronte al vetro della finestra: di fuori veniva giù un tale acquazzone che lo vedeva perfino lui. “Quando piove così – disse -, chi penserebbe che può tornare il sole? Eppure torna, qualche volta. Potrebbe tornare anche presto se…”. Stava per dare un pugno nello stipite, ma si trattenne. “No no, niente polemiche…”. E in un urlo, mentre il pugno gli scappava di mano: “Niente polemiche con quei miserabbbili!...”.


Indro Montanelli



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