Hitler l'amava, l'odiavano i benpensanti, l'Africa la salvò
Hitler l'amava, l'odiavano i benpensanti, l'Africa la salvò

di Lucian Lanna - 04/08/2016

Fonte: Il Dubbio
Senz'altro le prossime saranno percepite ancora una volta come Olimpiadi al tempo del razzismo e delle minacce di guerra globale. D'altra parte, almeno nell'immaginario novecentesco, le due foto simbolo di tutta la storia dei giochi olimpici restano legate proprio a due edizioni analoghe. Quella del 1968, a Città del Messico, che ritrae il podio della gara dei 200 metri piani e in cui figurano due atleti di colore americani - Tommie Smith e John Carlos - in prima e terza posizione, che durante la premiazione rimasero immobili e a capo abbassato, alzando, durante l'inno, il pugno chiuso e ricoperto da un guanto nero, eseguendo il saluto-simbolo del Black Power. E quella del 1936, ottant'anni fa esatti, che ritrae a Berlino l'atleta afro-americano Jesse Owens impegnato nello scatto con gli spalti alle spalle: una foto che racchiudendo tutta la carica energetica dell'atleta metteva direttamente in crisi l'impianto propagandistico razzista del Terzo Reich.

Quell'edizione delle Olimpiadi si svolse infatti in un clima di aperta esaltazione del regime nazionalsocialista e dell'uomo ariano, come documenta per l'immaginario il celebre film Olympia della regista Leni Riefenstahl. E il paradosso è che la grande maestria filmica e la libertà creativa consentirono alla Riefenstahl di riprendere atleti di ogni nazione e di dedicare proprio all'afro-americano Jesse Owens, l'atleta più rappresentativo delle Olimpiadi 1936, una cospicua parte del girato, nonostante i richiami di Goebbels che avrebbe voluto celebrare solo i trionfi della razza ariana. Il primo piano dedicato dalla Riefenstahl all'espressione di disappunto mostrata da Hitler per la vittoria di Owens nel salto in lungo (contro l'atleta di casa, il rivale e amico tedesco Luz Long) è per alcuni la prova di una volontà di provocazione rispetto ai diktat razzisti. D'altronde la passione per l'Africa e le persone di colore sarà una costante della lunga vita della cineasta tedesca, a torto considerata per un luogo comune la regista nazista.

Poco soddisfatta delle sue iniziali performance di attrice, questa ragazza nata a Berlino nel 1902, a un certo punto si dedicò al progetto di realizzare un suo film: "Sentivo l'urgenza di creare qualcosa di totalmente mio. Cominciai a sognare e dai miei sogni nascevano immagini; fra le nebbie dell'indistinto riconobbi il sembiante di una giovane che viveva tra le montagne, una figlia della natura". La giovane sarà appunto Junta, la protagonista nel 1932 del film La bella maledetta. E in quello stesso anno si colloca il primo incontro con Hitler, sollecitato dalla stessa Riefenstahl, che pure non era iscritta allo Nsdap - il partito nazionalsocialista - e mai ne avrebbe preso la tessera. Il motivo? La curiosità, a detta dell'artista - che riferisce di un colloquio privato in un'atmosfera colloquiale - in cui il leader nazista avrebbe avuto tempo per corteggiarla e per parlarle del suo amore per la pittura e in cui lei gli avrebbe comunque rivelato tutti i dubbi che nutriva sui suoi pregiudizi razziali.
Fatto sta che fiorì subito la leggenda di una relazione tra la regista e Hitler, un gossip che nel dopoguerra fu usato come arma di condanna anche se i tribunali, cui l'artista si rivolse per difendersi dalle diffamazioni, hanno sempre riconosciuto l'infondatezza di tali accuse. La natura sulfurea del nazionalsocialismo per Leni è anzi tutta racchiusa nella figura di Joseph Goebbels, "una specie di redivivo Mefistofele", "una persona pericolosa", un uomo "volgare" e di "cattivo gusto", un corteggiatore insistente che lei avrebbe più volte respinto e umiliato e che l'avrebbe ricambiata boicottando il suo lavoro per tutta la durata del Terzo Reich.

Dal sodalizio con Hitler, un po' subìto e un po' cercato, nasce invece nel 1934 Il Trionfo della volontà, il film sul congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, eccezionale documento visivo sui regimi totalitari. Un documentario che non fu mai perdonato a Leni Riefenstahl la quale, a sua volta, non ha mai rinnegato il suo film. In occasione del suo novantesimo compleanno, nel 1992, spiegava ancora che il suo lavoro era stato in fondo quello, fortunato e terribile, di una testimone della seduzione collettiva esercitata dal nazismo: "Ho solo spiegato come mai milioni di tedeschi hanno creduto in lui". L'impatto del documentario fu enorme e colpì anche Mussolini, che propose all'artista di realizzare un film sulla bonifica delle paludi pontine ricevendo un cortese diniego.

E arriviamo, quindi, ai Giochi olimpici che si svolsero dal 2 al 16 agosto 1936 e furono protagonisti di Olympia, girato con l'aiuto di quaranta operatori e una cinquantina di assistenti. La sfida di rappresentare in una fusione di immagini la competizione e la bellezza dei corpi umani, la tensione della prova, l'entusiasmo del pubblico, l'intenzione dell'atleta di superare se stesso fu ampiamente vinta dalla regista con una serie di innovazioni sorprendenti: mise a punto un dispositivo equivalente al moderno zoom per adeguarsi alla rapidità degli spostamenti, fece scavare trincee nello stadio per riprendere le gare dal basso, grazie a un carrello verticale subacqueo gli operatori potevano riprendere i tuffi seguendo l'evoluzione in aria e l'immersione nella piscina, per le riprese aeree legò le macchine da presa a un pallone librato in aria offrendo ricompense a chi avesse restituito il materiale filmato, e ancora piccole cineprese vennero fissate alle selle degli atleti per riprendere le gare di equitazione. Celebri le sequenze della maratona, dove si traduce in immagini, con l'aiuto della colonna sonora di Herbert Windt, la volontà di andare avanti a dispetto della stanchezza del corpo.

Non solo Olympia superò largamente le aspettative elevandosi dal rango di resoconto scenografico a quello di scenario "mitico" dove esaltare l'estetica dello sport, ma costituì, a livello sperimentale, un enorme laboratorio di tecniche che saranno poi fatte proprie dalla ripresa televisiva e che sono diventate ormai codice quasi automatico di rappresentazione delle gare sportive. Accolto trionfalmente in Europa, un po' meno in America dove Leni fu contestata per la sua complicità col Reich antisemita, Olympia fu premiato in Italia come miglior film al festival di Venezia.
I successivi progetti, tra cui uno su Van Gogh e uno su Eleonora Duse, rimasero allo stato visionario di semplici intuizioni, mentre la guerra interruppe bruscamente le riprese del film Bassopiano, che la regista poté condurre a termine solo nel '54.

La fine del Reich capovolge il suo destino: da quel momento diventa l'ex amante di Hitler, degna del più profondo disprezzo, abbandonata da molti dei suoi amici e ammiratori. Imprigionata dagli americani, deve sottostare a interrogatori insolenti: "Vogliamo sapere se Hitler era sessualmente normale o impotente, come si presentavano i suoi genitali? ". Quando al posto delle truppe Usa arrivano in Tirolo quelle francesi, la situazione volge al peggio: Leni viene internata in un manicomio, non per punirla della sua collaborazione con il Fu¨hrer ma per sottrarle le pellicole dei suoi celebri film. Liberata nel '47, gli anni del dopoguerra saranno per lei una via crucis tra un tribunale e l'altro per difendersi da diffamazioni e accuse infondate, come quella di avere utilizzato come comparse alcuni zingari provenienti da un campo di concentramento, e per ottenere l'ambito certificato di "denazificazione".

È un periodo tormentato e contrassegnato da continue delusioni e non solo per la fine del matrimonio con Peter Jacob, ma soprattutto perché ogni progetto che la regista tenta di realizzare, con produttori italiani o persino giapponesi, si infrange sullo scoglio della demonizzazione che avvolge inesorabilmente il suo nome, benché Leni fosse stata ammirata non solo da Hitler ma anche da Chaplin, Disney, Sternberg, De Sica e Rossellini, da lei incontrato a Roma dopo la guerra. "Mi riservò - ricorda nelle sue Memorie - un'accoglienza talmente affettuosa che, ripensando ai miei colleghi tedeschi, ne fui profondamente toccata. 'Noi italiani abbiamo imparato molto da lei', mi disse in un eccesso di generosità".
Nonostante l'impossibilità di trovare produttori disposti a rischiare sul suo nome riuscì tuttavia a terminare le riprese di Bassopiano (1954), molto amato da Jean Cocteau. La dimensione lirica del film indusse la critica a ritenerlo un po' antiquato e superato rispetto ai canoni stilistici che si andavano affermando, ma non mancavano le apprezzabili atmosfere magiche e intense capaci di rapire lo spettatore come era già avvenuto con La bella maledetta. "Lei è il genio del cinema - le scrisse Cocteau - e ha portato quest'arte a vertici raramente toccati". Ancora Cocteau scrisse per lei la sceneggiatura di un film sui rapporti tra Federico II e Voltaire. Un altro sogno destinato a infrangersi sulla rocciosità del pregiudizio. "Noi due - la consolò Cocteau - viviamo nel secolo sbagliato! ".
Quasi a smentire l'immagine di demonizzazione costruita dai suoi persecutori postbellici, Leni troverà, come accennavamo, proprio nell'Africa la dimensione ideale cercata a lungo nei suoi film: un mondo non contaminato dalla civilizzazione dove l'uomo esprime se stesso con la naturale vitalità degli esseri non corrotti dal "peccato originale" del progresso. Lì avvertii l'alba di qualcosa di assolutamente diverso, l'inizio di una nuova vita: "L'Africa mi aveva avvolto tra le sue braccia, per sempre". Qui, tra i paesaggi incontaminati e incorrotti, progetta un film sulla tratta degli schiavi e un altro sui Nuba, che poi non sarà realizzato per un errore tecnico dello studio incaricato di sviluppare le pellicole. Con i Nuba svilupperà però un'amicizia profonda grazie a una lunga convivenza nei loro villaggi. E da quell'esperienza nasceranno volumi fotografici in cui emerge in tutta evidenza la fisicità e il vigore vitale degli africani. Una vera e propria esaltazione dell'uomo di colore. Come nelle immagini di Jesse Owens del 1936.