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Partito Democratico: tra forma e sostanza

Negli ultimi mesi dirigenti e rappresentanti del Partito democratico hanno discusso di congresso, partito “leggero” o “pesante”, candidature, primarie, elezioni. Tra formule organizzative e interpretazioni varie dell’avanzata della Lega e di Berlusconi (guai a chiamarla sconfitta del Pd), la Politica tra i democratici stenta ad affermarsi come momento prioritario. Da più parti è stato auspicato un confronto su temi come il profilo politico del Pd, l’offerta politica – intesa come capacità di astrarsi dalla dinamica berlusconiana per proporre soluzioni per il Paese durature e non contingenti -, la ridefinizione dei confini politici del partito attraverso contenuti politici e programmatici.

Solo buoni propositi, ma nella realtà si preferisce parlare del contenitore e non dei contenuti. Individuare le priorità per l’Italia, elaborare in maniera chiara proposte e modalità di realizzazione delle stesse, potrebbe portare ad una selezione naturale degli alleati, evitando fraintendimenti, rotture mediatiche e cartelli elettorali. Governabilità: è da questo punto che bisogna partire per ricostruire un normale quadro politico, aperto al protagonismo anche di altre forze che condividono lo spirito della “democrazia governante”. Bisogna uscire dalla precarietà e dall’incertezza dell’attuale situazione politica, e ciò serve al Pd e all’Italia.

Stritolato dalla sua tendenza conservatrice, il Pd vive un momento difficile. Sperare nell’implosione del Pdl, quasi rassegnati ai limiti della propria azione politica, è sintomo di una crisi di idee e di strategia politica più profonda della superficiale litigiosità che fino ad oggi ha caratterizzato i democratici. I metodi e le scelte politiche fatte negli ultimi 15 anni non suscitano più interesse nei cittadini, hanno esaurito il loro potenziale. Era prevedibile, prima o poi i nodi vengono al pettine.

Nell’ultimo decennio in Italia ci sono state trasformazioni sociali e culturali che, di fatto, hanno reso inadeguata la strategia politica messa in atto dal Pd. Le pratiche di pura gestione del potere non garantiscono più risultati elettorali e politici. Il voto è divenuto sempre più mobile, soggetto ai condizionamenti sensazionalistici e mediatici. Nella dinamica berlusconiana l’ideologia ha ceduto il passo al “fare/apparire”, la programmazione politica è stata sostituita dai sondaggi.

Purtroppo anche il Pd è andato a ruota, avallando di fatto una concezione della politica fondata sulla prassi e sul leaderismo. Non c’è futuro per un partito senza un quadro teorico di riferimento, a meno che la tentazione plebiscitaria, presente nel Pd, non faccia da pendant al deserto ideologico. Un simile percorso sarebbe davvero autolesionista. Così come lo è stato allearsi con Antonio Di Pietro, “attore protagonista” della strategia berlusconiana basata sulla polarizzazione dello scontro. Stucchevole è stata la querelle sull’autosufficienza o meno del Pd. Sarebbe il caso di parlare dell’autosufficienza o meno della dirigenza a delineare percorsi politici di ampio respiro.

Bisogna rimettere in moto l’elaborazione politica e culturale con una competizione sui contenuti e non sulle tessere (reali?), per vincere le elezioni e non solo i congressi. Correnti di pensiero, e non eserciti per faide tra leaders. Né la selezione della classe dirigente basata sull’anagrafe né il rinnovamento autopoietico consentiranno al Pd di superare la crisi attuale. Credo che sia necessario individuare la sostanza del partito e rimettere eventualmente in discussione – se necessario – il progetto democratico, per ridefinire il quadro politico del centrosinistra, recuperando la tradizione riformista. Altrimenti il Pd continuerà ad essere minoranza nel Paese.

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Antonio Bruno