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  1. #1
    Avamposto
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    Predefinito La crisi della civilta' -

    LA STORIOGRAFIA DELLA CULTURA DI J. HUIZINGA

    Lo storiografo olandese J. Huizinga è una delle figure più interessanti del pensiero storico-culturale contemporaneo, autore di un'opera assai conosciuta: Homo ludens (Haarlem 1938).

    Huizinga nacque il 7 dicembre 1872. A partire dal 1905 diventò professore all'Università di Groningen e, dopo il 1915, in quella di Leiden. Deportato dai nazisti, morì in un piccolo villaggio olandese il 1° gennaio 1945.

    Il largo ventaglio dei suoi interessi culturali è semplicemente straordinario. Non senza fatica si riescono a suddividere le sue ricerche in tre grandi settori: anzitutto la storiografia propriamente detta (cfr gli studi fatti su epoche e situazioni assai drammatiche, come p.es. il basso Medioevo, la riforma protestante, i Paesi Bassi al tempo della guerra di liberazione contro la Spagna).

    In secondo luogo, un ruolo molto importante viene da lui attribuito alle ipotesi interpretative sulla formazione e sullo sviluppo della cultura mondiale (p.es. sul ruolo del "gioco" quale fattore che crea cultura). Più in generale lo ha interessato l'analisi delle illusioni e utopie "eterne", le "idee iperboliche della vita" - come le chiamava - che ricorrono periodicamente nella storia della civiltà (si pensi al sogno dell'età dell'oro, all'ideale bucolico di ritorno alla natura, all'ideale evangelico di povertà, agli ideali della cavalleria, al revival dell'antichità classica...). Egli cercò appunto di dimostrare come in ogni cultura tutta la vita della società s'articola intorno a queste idee.

    Infine, un posto considerevole occorre assegnare alla sua critica dell'epoca, specie la diagnosi della cultura occidentale contemporanea, l'analisi delle cause del declino della vita sociale (in particolare il rapporto tra le nozioni di "cultura" e di "civiltà", i problemi della storia universale, quelli della pace, dello Stato e del diritto). Qui i riferimenti a J. Ortega y Gasset, M. Heidegger, K. Jaspers e G. Marcel, che nella sua stessa epoca hanno cercato di comprendere le cause della profonda crisi della cultura occidentale, sono inevitabili.

    Huizinga è anzitutto uno storiografo, cioè uno storico che combina i fatti con la narrazione e la teoria. I grandi affreschi come Il declino del Medioevo, Erasmo e La cultura olandese del XVII secolo danno un'idea sufficientemente chiara del suo modo di comprendere il problema della ricostruzione di una storia della cultura; problema peraltro che ha coinvolto, appassionatamente, la storiografia europea durante i primi 30 anni del Novecento.

    Ora, se riguardo allo Huizinga storico la critica è unanime nel considerarlo "il Burckhardt del XX secolo", riguardo invece allo Huizinga ideologo i pareri sono molto discordi, anche in ragione del fatto che Huizinga è sempre stato allergico a formule categoriche. Al punto che è impossibile far rientrare i suoi lavori all'interno di una precisa corrente storiografica occidentale.

    Alcuni lo considerano appartenente alla logora storia evenemenziale, individualizzante; altri lo accusano di antistoricismo e di "degrado sociologico". Forse gli storici che gli hanno riservato un'attenzione non superficiale sono stati gli italiani: D. Cantimori, O. Capitani, C. Morandi.... i quali però non si nascondono i limiti metodologici della sua storiografia. Da segnalare anche il biografo svizzero di Huizinga, K. Koster.

    L'idealismo di Huizinga su molte questioni essenziali relative all'interpretazione delle leggi dei processi storici, lo avvicina alla storiografia individualizzante e soprattutto alla scuola tedesca di Baden. Nel conflitto che ha visto opposti, a partire dalla fine dell'Ottocento, lo storicismo della scuola di Ranke e il positivismo, la storia e la sociologia, Huizinga non ha certo parteggiato per i secondi.

    Tuttavia, la sua attività va al di là di questo quadro schematico. Basta infatti osservare come egli esamina le epoche di crisi, quelle che in un certo senso più lo affascinano; vi sono senza dubbio nella sua analisi elementi propri alla tradizione dello storicismo idealista (ad esempio l'esagerazione del ruolo giocato nelle svolte storiche dai grandi personaggi, l'appassionato attaccamento al concreto, all'empirismo storico, l'importanza attribuita al caso, e altro ancora).

    Ciononostante Huizinga ha inaugurato un modo nuovo di concepire la storia. Nel suo Declino del Medioevo i grandi tratti espressivi della cultura dell'epoca vengono delineati nel corso di un'analisi della vita quotidiana della società, un'analisi assai minuziosa e fedele alla cronaca del tempo, che ha per oggetto tutto quanto precede le manifestazioni dell'arte: i costumi, le istituzioni etiche e giuridiche, gli ideali sociali, la dottrina religiosa e le teorie dei mistici, il quadro sociale dei vari ordini (specie della popolazione urbana) e le funzioni della produzione artistica.

    L'attenzione dello storico è centrata meno sulle azioni politiche propriamente dette e più sulla coscienza collettiva, cioè sulla correlazione fra la vita della società e la scala di valori da essa accettati. I problemi della coscienza sociale vengono esaminati nel quadro d'un lavoro globale di tipologizzazione della cultura storica. Huizinga non appartiene, in questo senso, alla storia psicologizzante.

    Qui si può ricordare che un po' più tardi una strada analoga verrà percorsa dal grande riformatore della storiografia occidentale, M. Bloch, che nei suoi studi sul Medioevo farà appello alla psicologia sociale.

    L'esigenza che ha mosso questi storici è stata quella di valorizzare aspetti che fossero più autentici degli avvenimenti politici o delle azioni individuali.

    Huizinga considera la cultura come un sistema in cui tutti gli elementi interagiscono tra loro: economia, politica, diritto, usi, costumi e arte. Non solo, ma per lui la storia è immediatamente una storia universale, anche quando si parla di fenomeni locali. Il metodo comparativo gli pare sufficiente per dimostrarlo.

    Tuttavia, la concezione secondo cui per comprendere il significato di ogni moderno fenomeno storico bisogna conoscere tutte le culture precedenti, lo obbliga a lavorare su periodi di grande durata, e questo lo stimola a progettare strutture su vasta scala. La più globale di queste è senz'altro Homo Ludens: un'enorme costruzione dì antropologia culturale fondata sull'etnografia, la psicologia storica, la sociologia, la linguistica, lo studio del folklore, ecc., ovvero un'analisi globale del ruolo dei miti e dell'immaginazione nella civiltà mondiale, del gioco come principio universale del divenire della cultura umana.

    Non a caso il nome di Huizinga è stato accostato a quello di M. Mauss e di C. Lévi Strauss; anche il padre dell'antropologia culturale, E. Tylor, deve aver esercitato su di lui un profondo influsso. Huizinga - come vuole Capitani - ha anticipato di molto il metodo di ricerca interdisciplinare, lo studio dei processi, dei rapporti e delle strutture sociostoriche, nonché l'orientamento non eurocentrico.

    Tuttavia, se Huizinga è vicino alle "Annales" per quanto riguarda i nuovi concetti di tipologizzazione e generalizzazione, e anche per l'analisi sistemica e strutturale, ecc., sul piano della storia delle culture egli si avvicina all'idea dell'analisi morfologica delle entità storico-culturali, elaborata da Spengler; mentre in relazione al metodo lo stesso Huizinga s'è sempre pronunciato a favore della tradizionale storiografia événementielle della scuola tedesca. Egli fu rigorosamente fedele al "mestiere di storico", quale lo concepiva J. Michelet e L. Ranke.

    In particolare, quando si è sentito in dovere di definire in un saggio il concetto di storia (1929), Huizinga si è limitato a un'espressione di carattere generale: "La storia è la forma spirituale in cui la cultura si rende conto del suo passato", con la quale voleva evitare qualunque definizione scolastica. A suo parere, la definizione generale dell'oggetto della storia non solo attesta una profonda dipendenza della storia nei confronti di altre forme del sapere e della cultura, non solo bandisce dalla scienza storica lo spirito di dogmatismo e di sufficienza, riaffermando un rapporto vivente con la realtà; ma permette anche di considerare e valorizzare i motivi che spingono l'umanità a interessarsi della storia.

    In questo senso la definizione non si pone il problema di render conto di tutti i dettagli, supera l'apparente opposizione fra gli aspetti narrativi, didattici e scientifici della storia, non obbliga a scegliere fra il particolare e il generale, in quanto accetta i piccoli lavori della storiografia locale come le concezioni globali della storia mondiale e, soprattutto, lascia il campo libero a ogni sorta di sistemi interpretativi, ove è dal libero confronto dialettico che può emergere la verità delle cose.

    Huizinga rifiuta le definizioni dell'oggetto della storia formulate da Bernheim, Bauer e altri, per la semplice ragione ch'essi rifiutano come fonti non scientifiche i miti, la tradizione orale presso le tribù primitive, le cronache, le canzoni dei trovatori, ecc.

    Huizinga invece ha cercato di dare una definizione della storia che permettesse di abbracciare tutta la pratica della cultura consapevole di se stessa, che si racconta nelle forme più varie. Non solo, ma egli ha anticipato uno dei principi teorici fondamentali della ricerca storica del XX secolo: l'idea del condizionamento della conoscenza storica da parte della cultura cui lo storico appartiene. La conoscenza. cioè non è mai neutrale, ma sempre storicamente (perché culturalmente) situata. Lo storico non può fare la storia se non ha coscienza dei suoi limiti, soggettivi e oggettivi.

    Tuttavia Huizinga paga un certo tributo al relativismo, in quanto per lui la forma scientifica della storia moderna non costituisce sempre un vantaggio incontestabile in rapporto alle culture precedenti. L'odierna interpretazione scientifica della storia -soleva dire- può alterare il senso del passato. Il che può anche essere vero, ma solo in assenza dei criteri del progresso del sapere storico, che in assoluto permettono un'approssimazione alla verità storica sempre maggiore.

    Huizinga si pronunciava contro "la storia integrale con le sue proprie leggi", benché disprezzasse l'idea delle "culture chiuse" e considerasse l'epoca contemporanea come quella d'una storia realmente universale.

    Il valore morale della conoscenza storica Huizinga lo vede nel fatto che tale conoscenza, come altre forme di conoscenza, esprime l'orientamento dell'uomo e della civiltà umana verso la verità. In questo senso egli non è un relativista. A suo giudizio la storia, come la filosofia o le scienze naturali, porta l'uomo alla verità, ovvero a liberarlo dai pregiudizi, che sono peraltro inevitabili, a causa del contesto culturale limitato in cui questa o quella società vive e si esprime.

    Ovviamente la verità, per Huizinga, non è solo un obiettivo intellettuale, ma anche morale, in quanto lo storico applica costantemente al passato le nozioni di "bene" e "male" a sua disposizione. In questo sta la sua serietà.

    La storia, per Huizinga, è una scienza sociale rigorosa. Essa è sempre stata scritta là dove un dato periodo storico aveva il suo centro spirituale: l'agorà, i monasteri, la corte reale, lo studio di un professionista, la redazione di un giornale, ecc. Compito della storia - a suo giudizio - è quello di rimanere a contatto con la vita culturale, nazionale e mondiale, non quello di trasformarsi in una disciplina accademica. D'altra parte la storia non è autosufficiente come le scienze naturali e filologiche: essa ha bisogno di moltissime branche del sapere e della cultura.

    Le idee di Huizinga riguardanti la natura e gli obiettivi della storiografia si distinguono per la loro democraticità e per il misconoscimento assoluto di un qualsiasi carattere élitario o esoterico del sapere storico. Poiché il sapere storico è, secondo lui, la coscienza di sé culturale, cioè la forma per mezzo della quale la società si rende conto del suo passato, questo sapere, se smette d'essere accessibile a vasti strati sociali e a tutto il pubblico istruito, perde inevitabilmente il suo significato. Huizinga però condanna anche la cultura di massa borghese, che giudica volgare, basata sugli istinti e sul profitto.

    Egli prende anche le distanze dalla sociologia, poiché mentre quest'ultima - a suo giudizio - considera i fenomeni sociali come meri paradigmi, la storia della cultura - questa la sua opinione - non cerca di dedurre da tali fenomeni delle regole generali per la conoscenza della società.

    Sotto accusa sono anche i metodi strutturalisti, ritenuti troppo schematici e arbitrari, poco rispettosi del lato concreto, empirico, della cultura storica. Lo strutturalismo non è in grado di cogliere - secondo lui - la dinamica della storia, il lato drammatico o epico delle forme e dei modi dell'esistenza umana.

    Anche la diffusione dei metodi di ricerca quantitativi, fondati sulla matematizzazione del metodo della conoscenza storica, viene respinta, in quanto essa tende - a suo giudizio - a spersonalizzare gli avvenimenti e le azioni degli uomini. La storia diviene cioè informe, perde la sua dinamica, il suo processo e tutto è ridotto a singoli atti: la lotta per il potere, ecc. Il lato epico drammatico della storia sembra che venga percepito oggi - dice Huizinga - solo dalle arti plastiche.

    Tuttavia l'apporto concettuale di Huizinga sembra inadatto a render conto dell'epoca contemporanea. Le categorie essenziali dello sviluppo, come il progresso sociale e la rivoluzione, gli sono completamente estranee: al massimo le considera come il sogno della felicità che si vorrebbe ottenere "qui e ora": il "tutto e subito" che si rinnova costantemente nella storia della civiltà.

    Troppo immerso nel passato, Huizinga considera l'esperienza del XX secolo come quella dell'assurdo e degli errori, dell'irrazionalità del pensiero e della politica. Le uniche vere realizzazioni sono state, secondo lui, quelle tecniche.

    Questo è anche uno dei motivi per cui egli, nonostante i periodi oscuri degli anni '30 e '40 del Novecento, rimase rigorosamente fedele ai criteri e ai valori della filosofia e della storiografia razionaliste. Correnti, queste, che allora venivano messe a dura prova dagli attacchi del positivismo e della sociologia, nonché di tutte quelle che, negando qualsiasi valore scientifico allo storicismo (vitalismo, esistenzialismo, ecc.), preludevano in un certo senso alla nascita dell'ideologia fascista.

    Le dure filippiche contro la scienza storica, lanciate da Husserl, Valéry, Peguy e Marcel, indussero Huizinga a compiere un'analisi della sua epoca nel libro La crisi della civiltà (1935), nel quale le cause della crisi vengono attribuite non al razionalismo - come vuole la maggioranza degli ideologi occidentali contemporanei - bensì all'irrazionalismo: lo stesso irrazionalismo che in politica e nelle relazioni internazionali aumentò costantemente la minaccia della guerra.

    Erede delle tradizioni di Ugo Grozio, Huizinga sottopose a critica severa le concezioni del diritto internazionale e dello Stato amorale di H. Freyer, K. Schmidt, ecc., denunciando la natura pseudoscientifica delle dottrine giuspolitiche del fascismo. Il XX secolo - dice Huizinga - ha fatto della storia uno strumento di falsificazione al livello di politica statale. Nessun dispotismo orientale era arrivato a tanto.

    Sulle questioni politiche più acute della nostra epoca, Huizinga assunse posizioni completamente estranee alla ristrettezza borghese, al "neutralismo", al conservatorismo o al conformismo. Ad esempio nei confronti del problema della guerra, il suo giudizio è sempre stato di netto rifiuto. La fiducia nelle armi per lui equivaleva alla superstizione dei primitivi nei feticci e negli idoli.

    Con acume aveva sottolineato che già la guerra dei Cento anni, le guerre di Luigi XIV o di Napoleone non avevano procurato benefici a nessuna nazione. Il perfezionamento delle armi offensive e il servizio militare obbligatorio li giudicava dei fardelli inconcepibili per gli Stati moderni, non essendo il mondo più capace di sopportare alcuna guerra distruttiva.

    Durante tutta la sua vita, Huizinga ha denunciato i prodotti dell'imperialismo, come il razzismo l'ipernazionalismo, il fascismo e il militarismo. Pur avendo numerosi tratti del "libero conservatore" - come affermano Garin e Cantimori - Huizinga seppe rimanere fedele, anche con coraggio, ai suoi principi umanistici.

    Per ridurlo al silenzio, i nazisti lo deportarono, già anziano, in un lager per ostaggi; più tardi lo trasferirono in un piccolo villaggio olandese, ove morì di sfinimenti qualche mese prima della vittoria. Ma i nazisti non erano riusciti a farlo tacere. Proprio nel lager e in esilio egli scrisse due opere: Lo scempio del mondo e La civiltà olandese del Seicento, continuando a mostrare la stretta correlazione fra "cultura" e "civiltà umana".

    Bibliografia

    J. Huizinga, Homo ludens, 2002, Einaudi; L'autunno del Medioevo. Ediz. integrale, 2007, Newton Compton; Erasmo, 2002, Einaudi; Civiltà e storia, Guanda, 1946; L'uomo e la cultura, Firenze, 1948; Lo scempio del mondo, 2004, Mondadori Bruno; La mia via alla storia, Laterza, 1967; La civiltà olandese del Seicento, 2008, Einaudi; La scienza storica, Laterza, 1974; D. Cantimori, Storici e storia, Einaudi, 1971; Immagini della storia. Scritti 1905-1941, 1993, Einaudi; La crisi della civiltà, Einaudi

    Fabretti Piero, Nietzsche, Pirandello, Huizinga. Dimensione ludica e umorismo tragico, 1990, Gangemi



    LA STORIOGRAFIA DELLA CULTURA DI J. HUIZINGA

  2. #2
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    Johan Huizinga
    La storia come ancora di salvataggio
    Documenti correlati

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    Qual si sia il contributo che l'orientazione storica possa fornire alla comprensione della crisi attuale, essa non è in grado di rassicurarci intorno al suo sbocco. Da nessun parallelo storico possiamo dedurre la conclusione che tanto oltre non si arriverà. Noi proseguiamo la nostra folle corsa verso l'ignoto.(...) Lo sguardo dell'umanità pensante, che per tanto tempo si era sempre tornato ad affissare nella perfezione antica, ecco che da Bacone a Cartesio in poi si è volto altrove. L'umanità sa che deve cercarsi la sua strada. L'impulso a spingersi più in là mentre si avanza può condurre a un estremo, degenerando in un vano e inquieto brancicare verso tutto ciò che è nuovo, disprezzando tutto ciò che è vecchio. Questo però è modo di comportarsi da spiriti immaturi o superficiali. Un cervello robusto non ha paura del fardello anche greve dei valori culturali del passato, quando si dispone ad avanzare. (...)Noi conosciamo un'irrefragabile verità: se vogliamo conservare la cultura dobbiamo continuare a creare cultura.

    (J. Huizinga, La crisi della civiltà. Saggio introduttivo di D. Cantimori. Traduzione di B. Allason, Torino, Einaudi, 1962, pp. 17-19)


    Johan Huizinga: La storia come ancora di salvataggio

  3. #3
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    "La terra della sera"

    Libro in pdf a questo link:


    http://www.lanfrancodimario.it/docum..._SERA_1984.pdf

  4. #4
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    LO SCEMPIO DEL MONDO


    RECENSIONE 1: la Repubblica del 05.03.2004

    UN'INTERVISTA DIMENTICATA DEL 1944 REALIZZATA IN ITALIA
    LO STORICO HUIZINGA E L'EUROPA CHE MUORE
    di Lucio Villari

    Nel 1942 Johan Huizinga aveva settant'anni, viveva in Olanda e insegnava all'Università di Leida. Era riconosciuto come uno dei più autorevoli e problematici storici europei ed era protagonista di una stagione culturale, iniziata negli anni intorno alla prima guerra mondiale, nel corso della quale anche la ricerca storica aveva mutato i segni e le forme della propria identità. Huizinga vi aveva apportato, a cominciare dall'Autunno del Medioevo del 1919, la novità intellettuale dell'intuizione e della captazione del senso storico nella storia riducendola, se necessario alla comprensione degli avvenimenti, anche sotto il concetto generale dell'arte. Questo gli valse la critica di estetismo e di «moralismo estetizzante» (Delio Cantimori), ma ancora oggi Huizinga resta il modello insuperato di un «Novecento» della cultura storica che, a mio parere, è in gran parte da studiare. Un Novecento inteso come modernità totale e testimonianza di un dissidio intellettuale (che Huizinga identificò e interpretò ad alto livello) tra l'idea e la pratica dello sviluppo (della Zivilization) e i valori spirituali, estetici e critici della cultura europea.
    Insomma, il tema della civiltà che, nella seconda guerra mondiale e in quell'anno 1942 che vide la vittoria travolgente delle armate della Germania hitleriana, diventava il nodo aggrovigliato giunto al pettine della storia. Huizinga accettò la sfida e, nell'Olanda occupata, iniziò con altri oppositori la resistenza politica e morale all'invasore nazista. Di lì a poco fu arrestato dalla Gestapo e rinchiuso in un campo di concentramento. L'anno dopo, nel 1943, fu confinato come ostaggio a de Steeg, presso Arnhem. Qui morirà il I° febbraio 1945. (...)
    Ebbene, poco prima di essere arrestato, erano i primi di aprile del 1942, Huizinga concesse un'intervista a un giovane scrittore italiano che faceva parte di un reggimento di fanteria tedesca costretto alla ritirata dall'offensiva russa nella gelida steppa di Karkov. Questo scrittore era Gino Tomajuoli che, dopo la battaglia perduta dai soldati dell'Asse, tornava nelle retrovie ed era stato acquartierato nei pressi di Leida. Sapeva della presenza lì di Huizinga, ed era un suo lettore, soprattutto di quell'opera, La crisi della civiltà, che la casa editrice Einaudi aveva pubblicato nel 1937. Già mentre infuriava la battaglia di Karkov Tomajuoli aveva pensato alla follia di quanto stava accadendo. Il richiamo al libro di Huizinga e al significato profondo di quel titolo fu per lui immediato e questa meditazione esistenziale e la coincidenza del soggiorno a Leida resero inevitabile una richiesta di colloquio con il grande storico olandese.
    Nel 1944, su un giornale di Roma appena liberata dagli Alleati, Tomajuoli così racconterà quell'incontro.
    «Entrai in uno studio caldo, non grande, illuminato da una cristallina vetrata grande quanto l'intera parete. (...) Vidi, contro la vetrata, alzarsi un vecchio signore, alto, appena un po' curvo, e canuto. Gli andai incontro con quella improvvisa certezza, tuttavia stupito che quello, dunque, era l'umano aspetto di Huizinga. Sedetti di fronte a lui e mi trovai a rispondergli, senza altri preamboli, che in giorni di disperazione, durante la ritirata di Karkov, avevo sentito il bisogno di venire a chiedergli aiuto. Durante la ritirata mi era parso di sentirmi all'unisono con milioni e milioni di uomini che in quell'instante sentivano come me il bisogno di chiarezza, di fede, di affermare la libertà del proprio spirito dalle pesanti nebbie di una falsa conoscenza.
    «Huizinga parlava lentamente, movendo raramente ed appena la mano; ascoltava con tesa attenzione. Disse che non si stupiva che proprio un italiano avesse potuto proporsi il problema in quel modo. Ricordò di aver scritto per l'edizione italiana di Crisi della civiltà parole di fede e di ottimismo e notava, contento, che nonostante la guerra del governo e il governo che avevamo, l’Italia fosse ancora l'unico paese d'Europa in guerra che stampasse sempre nuove ristampe dei suoi libri ed altri ne traducesse. Era questo un segno di vitalità spirituale e ne trovava il motivo nella maturata lezione che l'intelligenza italiana aveva fatto e faceva dell'esperienza fascista. Per primi, disse, gli italiani mostrano, forse, il bisogno di nuove leggi morali. "Un buon segno per l'Europa e per l'Italia, e Croce e Einaudi, miei amici, ne saranno contenti, dopo tanti anni di apostolato. Sì, forse sarà l'Italia ad indicare la strada. L'Italia ha ancora da spendere la missione designatale da Mazzini. Una missione comune a tutto il mondo e che obbliga ogni spirito che sappia quanto abbiamo da salvare nella nostra civiltà. L'animo moderno non aspira al progresso, concetto illusorio com'è volgarmente inteso, ma ad una nuova ed operante etica che plachi l'antagonismo tra cultura e tecnica, tra nazione e cittadini, tra nazione e nazione. Questo è il significato oggi palese ed ancora ieri occulto del messaggio mazziniano".
    «Ero io, ora, a chiedergli se l'uomo che questa guerra avrebbe lasciato dietro di sé sarebbe stato definitivamente pazzo, in preda all'essere invece che alla conoscenza, alla Wille zur Macht invece che al logos. "Penso - diceva Huizinga - che gli uomini politici, anche quelli animati dalle intenzioni più nobili, commetteranno errori assai gravi perché, per quanto vogliano e facciano, sono pur sempre gli attori e gli agenti del mondo che occorre superare. Il più funesto errore soltanto gli uomini di spirito di ogni paese o razza (se questa esiste) potranno evitarlo con l'apostolato. E l'errore consisterà in questo: che per infiniti motivi, sociali, politici, confessionali o di qualsiasi altra erronea natura, si impedirà la purificazione interiore che ora, nel dolore comune, si va sviluppando, anche inconsciamente, nell'animo dell’uomo. Purificazione che, come ho scritto, vuol dire sacrificio, autolimitazione volontaria di parte dei propri diritti, dei propri poteri e della sete di piaceri e di benessere. L'uomo di domani non deve essere distolto da questa via. Tutto quel che accade sarà stato, altrimenti, invano".
    «Daccapo gli chiedevo: e il comunismo? "Ho fede nell'umanità che tante sofferenze hanno acuito nel popolo russo, diceva. Sempre più ai comunisti si rivelerà il profondo senso di una legge morale e storica tra le più certe: che nessuna trasformazione violenta della struttura della società è possibile; occorre che prima si venga formando, spontaneamente, una nuova forma di civiltà. Il processo inverso non si può imporre; (...) bisogna pur sempre attendere che l'individualismo, lo spirito di concorrenza, d'intraprendenza, d'iniziativa, di libertà, insomma, diventi accesa e costante abnegazione, spirito di gruppo senza mai degradarsi in un magma amorfo. E' possibile? I prossimi secoli lo diranno. Non c'è salvezza, ripeteva Huizinga, fuori della strada della civiltà, ed è strada che va percorsa passo per passo, guidati dallo spirito. (...)».
    Ho voluto riportare quasi integralmente questa testimonianza, sostanzialmente inedita, di un Huizinga pronto al dialogo (...), aperto quasi alla profezia in un momento di cupo crepuscolo dell'Europa.

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    RECENSIONE 2:
    Il Foglio del 19-03-2004

    “LO SCEMPIO DEL MONDO”, HUIZINGA CI VEDEVA STANCHI GIÀ NEL 1943
    RIPUBBLICATO IL BREVE SAGGIO DELLO STORICO OLANDESE CHE PARLAVA DELL'"AGONIA SENZA ESEMPI DELL'AMARISSIMO SECOLO"
    di Marina Valensise

    La condizione per accettare la modernità che tanti hanno tanto a cuore, fatta di libera volontà, autodeterminazione e passione del benessere, sta nelle iniezioni di virtù dell’antichità, che ne limitano la spinta distruttiva. Non c’è bisogno di mettersi a compulsare i grandi classici dell’Ottocento, Constant, Tocqueville e Guizot, che per primi se ne accorsero quando cercavano di superare il trauma della Rivoluzione francese, mantenendone l’eredità. Basta procurarsi un volumetto di Johan Huizinga “Lo scempio del mondo” appena riproposto da Bruno Mondadori, nella vecchia traduzione di Ervino Pocar, con nuova prefazione di Lucio Villari. E’ un’impietosa analisi della decadenza della civiltà occidentale, scritta nel 1943 in un campo di detenzione della Gestapo dove lo storico olandese, ostile all’invasione nazista, era finito l’anno prima e dove dopo sarebbe morto nel 1945, tre mesi prima della fine della guerra.
    Huizinga, all’epoca, era un vecchio e stimato professore settantenne, autore di libri famosi come “L’autunno del medio evo” (1919) o la biografia di Erasmo da Rotterdam e d’un saggio premonitore “La crisi della civiltà”: “Noi viviamo in un mondo ossessionato, e lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe se un bel giorno questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita; i motori continuerebbero a ronzare, e le bandiere a sventolare, ma lo spirito sarebbe spento... Da per tutto il dubbio intorno alla durevolezza del sistema sociale in cui viviamo; un’ansia indefinita dell’immediato domani; il senso del decadimento e del tramonto della civiltà”.
    Tradotto subito da Einaudi, quel saggio venne liquidato dal nostro Delio Cantimori, lo storico passato dal fascismo al comunismo, che all’epoca cavalcava “il rivolgimento sociale causato dall’irruzione delle masse” e lo bollò come una “patetica laudatio temporis actis” coprendo di sarcasmo “lo sfogo di uno spirito d’artista individualistico, liberaleggiante, contro questo mando moderno che non gli va”. Molti comunque lo lessero. E impararono a non prendere sul serio l’irrazionalismo romantico del tedesco Oswald Spengler, che nel “Tramonto dell’Occidente” (1922) aveva descritto le civiltà come enti mistici e autonomi, con una propria vita che dalla giovinezza porta inevitabilmente alla vecchiaia e alla morte. Alcuni, anzi, ne rimasero così impressionati che decisero di portarselo al fronte, quello smilzo librettino dalla copertina gialla, come pegno di verità da non abbandonare. Fra questi, c’era un giovane scrittore italiano, che finì in un reggimento di fanteria tedesca e, costretto alla ritirata dall’offensiva russa nella steppa ucraina, si ritrovò nella primavera del 1942 acquartierato vicino a Leida, dove decise di andare a trovare il vecchio storico che l’aveva accompagnato nei giorni di disperazione. Era Gino Tomajuoli. Huizinga, lo accolse di buon cuore. Lodò la vitalità della cultura italiana, in cui nonostante tutto continuava a sentire l’antico retaggio del “vivere civile” e dei suoi inventori, Dante, Petrarca, Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, Poggio Bracciolini e Machiavelli. E gli citò il “Convivio”, che aveva dato la prima fondamentale definizione di civiltà, con cui motivare, nel “De Monarchia”, la necessità della monarchia universale: “Lo fondamento radicale della imperiale maestà, secondo il vero, è la necessità della umana civiltà che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice”. Insomma, a quel giovanotto il vecchio professore anticipò ciò che avrebbe scritto nello “Scempio del mondo” un anno dopo, quand’era ostaggio dei nazisti a de Steeg. Gli parlò dell’“amarissimo secolo”, della sua “agonia senza esempi”, della decadenza culturale che poteva finire nella distruzione catastrofica. Gli spiegò che la guerra aveva oscurato la visione di una civiltà umana universale, riducendo l’ideale di Dante a una beffa crudele. E gli parlò delle prospettive, per quanto esigue, di guarigione e dell’irrinunciabile speranza in un mi miglioramento. Perché, nonostante la guerra totale, nonostante i mezzi di distruzione inaudita, l’umanità per quanto sventurata non poteva rinunciare al desiderio di pace, libertà. “L’animo moderno - spiegò Huizinga all’italiano-non aspira al progresso, concetto illusorio com’è volgarmente inteso, ma a una nuova e operante etica, che plachi l’antagonismo tra cultura e tecnica, tra nazione e cittadina”. Ma come realizzarla questa nuova etica? Come trarre una lezione dalla tragedia, se i politici, anche i più nobili, “restano sempre gli agenti del mondo che vorrebbero superare?”. Con l’apostolato - è la risposta paradossale di Huizinga - l’unico modo di evitare il ripetersi degli errori. E soprattutto dell’errore più grave che sarebbe quello di impedire la purificazione interiore, che sta iniziando nel dolore comune. E per Huizinga, un conservatore liberale, cresciuto studiando Tucidide e Cicerone, purificazione significa sacrificio, autolimitazione volontaria dei propri di diritti e della sete di piacere e di benessere. Senza di che tutto ciò che è successo, la guerra e i suoi orrori, sarà stato vano.


    Lo scempio del mondo - le recensioni

  5. #5
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    Huizinga, L’eclisse della ragione
    Siamo negli anni Trenta e allo storico olandese sembra che la società europea manifesti in modo evidente l’eclissi della ragione. Bisogna quindi studiare questa demenza e cercare i mezzi di guarigione.



    J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino, 1978, pagg. 40-42



    La nostra società è piena di sintomi inquietanti, che si possono adeguatamente raccogliere sotto la denominazione di “indebolimento del raziocinio”. È umiliante davvero. Si vive in un mondo in ogni senso molto meglio informato intorno a se stesso, alla sua natura, alle sue possibilità di quanto accadesse in qualsiasi precedente epoca della storia. Oggettivamente e positivamente, si sa meglio di prima come sia e si comporti il sistema cosmico, come lavori l’organismo vitale, come si regolino le cose dello spirito, come le conseguenze siano derivate dalle premesse. Il soggetto uomo conosce sé e il suo mondo meglio di quanto non si sia mai conosciuto. L’uomo, in un senso molto positivo, è diventato piú capace di giudicare. Piú capace in senso intensivo, in quanto lo spirito penetra piú addentro nella concatenazione e nella struttura, piú capace in senso estensivo, in quanto la sua conoscenza si estende uniformemente su un molto maggior numero di campi, e soprattutto in quanto un numero di persone molto maggiore di prima partecipa a un certo grado di cultura. La società, presa come soggetto astratto, conosce se stessa. Il “conosci te stesso” è sempre passato per il compendio della saggezza. La deduzione finale pare inevitabile: il mondo è divenuto piú saggio. – “Risum teneatis...”

    Sappiamo bene come stanno le cose. La follia in tutti i suoi aspetti, quelli burleschi e comici, quelli maligni e dannosi, non mai come oggi ha celebrato le sue orge pel mondo. Ora essa non sarebbe piú l’argomento di un’operetta arguta e scherzosa di un umanista di nobile mente e seriamente preoccupato come Erasmo.

    Come malattia sociale bisogna studiare in tutta serietà l’immane demenza dell’ora nostra, freddamente e oggettivamente mettere a nudo i suoi sintomi, fissare l’indole del male, e cercare i mezzi di guarigione.



    Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. V, pagg. 75-76



    HUIZINGA, L’ECLISSE DELLA RAGIONE

  6. #6
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    Huizinga, Confronto fra l’uomo di una volta e quello di oggi
    Huizinga afferma che l’uomo di una volta sapeva l’essenziale, che è proprio ciò che l’uomo d’oggi ha perduto. La prima conseguenza è un indebolimento del giudizio. Inoltre il consumismo, distraendo continuamente, ha indebolito la capacità di concentrazione e di riflessione. Infine oggi “l’istruzione rende sottoistruiti”.



    J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino, 1978, pagg. 43-46



    Il contadino, il marinaio, l’artigiano di una volta, nel tesoro delle sue conoscenze pratiche trovava anche lo schema spirituale con cui misurare la vita e il mondo. A meno di essere un chiacchierone – in ogni tempo ce ne furono! – sapeva di essere inadatto a giudicare delle cose estranee al suo ambito. Dove capiva che non arrivava il proprio giudizio, s’inchinava all’autorità. Poteva, nella sua limitatezza, essere saggio. La limitatezza dei suoi modi di esprimersi, puntellata dalla conoscenza delle Sacre Scritture e dei proverbi, gli dava precisamente uno stile e, a volte, lo faceva parere eloquente.

    La moderna organizzazione per la diffusione del sapere conduce, ahimè, alla perdita dei salutari effetti di quelle limitazioni. L’uomo medio dei paesi occidentali oggi sa un po’ di tutto, e altre cose ancora. Ha il giornale con la colazione, e il bottone della radio a portata di mano. La sera, dopo aver trascorso la giornata in un lavoro o in un negozio che non gli hanno insegnato nulla di essenziale, lo aspetta un film, un giuoco di carte o un’assemblea.

    [...]

    Anche dove l’individuo sia animato da un sincero impulso verso il sapere e la bellezza, dato l’ossessionante sviluppo dei mezzi di diffusione meccanica dello scibile, difficilmente egli potrà sottrarsi alla noia di ricevere, bell’e confezionati o strombazzati, giudizi e nozioni. Un sapere, che è a un tempo vario e superficiale, e un orizzonte spirituale che per un occhio non protetto dalla critica è troppo ampio, devono portare inevitabilmente a un indebolimento del giudizio.

    [...]

    Il meccanismo dei moderni divertimenti di massa costituisce inoltre, essenzialmente, un impedimento alla concentrazione. L’elemento dell’abbandono e della trasfusione nell’opera d’arte, data la riproduzione meccanica di ciò che si vede e si ode, vien meno per forza. Manca quel ripiegamento su quanto vi è in noi di piú profondo e il senso di ciò che, nel momento, vi è di sacro, sono cose che non possono mancare all’uomo che voglia possedere una cultura.

    La suggestibilità visiva sempre pronta è il punto attraverso il quale la pubblicità afferra l’uomo moderno, e lo colpisce nel lato debole della sua diminuita capacità di giudicare. Questo vale ugualmente per la pubblicità commerciale come per la propaganda politica. L’annunzio reclamistico con un’immagine impressionante risveglia in noi il pensiero della soddisfazione di un desiderio. Esso dà all’immagine la veste piú sentimentale possibile. Stabilisce uno stato d’animo, e con ciò fa appello alla formazione di un giudizio, che si compie tutto in un rapido istante. Se ci si chiede come di fatto la pubblicità agisca sugli individui, e compia in modo rimunerativo la sua funzione, la risposta non è cosí semplice. L’individuo si risolve egli effettivamente all’acquisto della merce vedendo o leggendo l’annunzio? O questo non fa altro che confermare nel cervello dei piú un ricordo, a cui essi reagiscono meccanicamente? O fa parte del giuoco una tal quale intossicazione cerebrale?

    Ancor piú difficile da definire è l’effetto della propaganda politica. Quando un individuo si reca alle urne, può egli essere indotto a votare in un senso anziché in un altro dalla vista delle varie spade, falci e martelli, ruote dentate, pugni, soli che spuntano, mani insanguinate ecc., che i partiti gli fanno balenare dinanzi? Non lo sappiamo e possiamo lasciare insoluto il problema. Certo la pubblicità, in tutte le sue forme, specula su un raziocinio indebolito e, grazie alla sua enorme diffusione e importunità, coopera all’indebolimento.

    Il nostro tempo è pertanto dinanzi al fatto umiliante che due grandi progressi culturali, da cui molto ci si aspettava, l’istruzione obbligatoria e la pubblicità, invece di concorrere all’elevazione del livello culturale, come pareva ovvio, portano con sé, nella loro applicazione, alcuni sintomi di degenerazione e d’indebolimento. Nozioni d’ogni genere, in una misura non mai pensata finora, e allestite in modi non mai immaginati, vengono messe a portata delle masse; ma c’è qual cosa che non va nell’attitudine ad assimilare l’istruzione ricevuta in modo che giovi veramente a vivere. Una sapienza non elaborata è d’ostacolo al raziocinio e sbarra la via alla saggezza. L’istruzione rende sottoistruiti. È un orribile giuoco di parole; ma purtroppo contiene un senso profondo.



    Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. V, pagg. 76-79



    HUIZINGA, CONFRONTO FRA L’UOMO DI UNA VOLTA E QUELLO DI OGGI

  7. #7
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    La crisi della Chiesa


    "Nei giorni di festa solamente pochi vanno alla messa; non rimangono fino alla fine e si accontentano di toccare l'acqua santa, salutare con genuflessione la Madonna o baciare la statua di un santo. Le feste più sacre, la stessa notte di Natale, si passano fra ogni genere di dissolutezze, giocando alle carte, bestemmiando, profferendo parole oscene; il popolo, se lo si redarguisce, si scagiona col dire che i gran signori, i chierici e i prelati lo fanno senza essere puniti. La vigilia delle feste si balla nelle chiese stesse al canto di canzoni lubriche; i preti danno l'esempio passando quelle notti di vigilia fra i dadi e le bestemmie"


    Tratto da L'autunno del Medioevo di Johan Huizinga.



    L'APOTA: La crisi della Chiesa

  8. #8
    Avamposto
    Ospite

    Predefinito Rif: La crisi della civilta' -

    18 aprile 2005

    Un autunno pieno di colori



    Autunno del Medioevo. Un'espressione passata quasi in proverbio, che basta da sola a rievocare molte cose: il rosso porpora e l'oro delle vigne di Borgogna, appunto, fra il settembre e l'ottobre, quando il mattino si fa più fresco e più umido e la luce del sole brilla sulle foglie bagnate.
    Furono questi i colori, evocati fra gli smalti delle tavole d'altare e delle pergamene miniate, che suggerirono a Johan Huizinga il titolo del suo capolavoro. L'Autunno del Medioevo: grande libro di storia della civiltà, di Kulturgeschichte, che immediatamente ne richiama un altro, a modo suo non meno grande, Il Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, per quanto ormai l'affascinante ma anche ardua impresa d'una rilettura di entrambi con l'inevitabile «senno del poi» (un «poi» che è anche un dopo-Auschwitz, un dopo-Hiroshima...) ci lasci inevitabilmente in bocca un che d'amaro e di ferrigno.
    Huizinga e Spengler si sogliono mettere all'estremo punto d'arrivo d'una strada malinconica e tragica, quella aperta in pieno Settecento dalla Decadenza e caduta dell'impero romano di Edward Gibbon. Storiografia degli autunni e dei tramonti, dei declini e delle decomposizioni. Del resto, era solo guardando alla Borgogna tre-quattrocentesca e al suo indugiar di forme culturali gotiche e cavalleresche, a quel che poteva sembrare un attardarsi su forme ormai dépassées, che Huizinga poteva descrivere lo struggente ma anche crudele (la fame, la Peste nera, la Guerra dei cent'anni) "declinare" d'un "Medioevo" che altrove, a sud delle Alpi, stava invece assumendo i toni di un'alba che poteva apparire come giovane e fresca, quella del "Rinascimento" già salutato dal Burckhardt che l'aveva colto nello sbocciare dello splendido sole fiorentino. Si può far davvero ancora così, la storia?
    Evidentemente, no. Eppure il punto è che non possiamo nemmeno liberarcene. Ed eccoci quindi ancora, pur superati (superati?) gli Huizinga e i Burckhardt, a dover fare ancora i conti con le desuete categorie convenzionali di Medioevo e di Rinascimento, più volte contestate e dichiarate inservibili se non dannose, ma senza le quali sembra proprio che, al di là della quanto si voglia illusoria razionalizzazione storica della memoria, sia il nostro immaginario nel suo complesso a incepparsi.
    L'Autunno del Medioevo e Gli albori dell'Umanesimo sono difatti i titoli del III e del IV volume della Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato. Autunno del Medioevo e, diciamolo con chiarezza, primavera della Modernità a tautologico o forse a ossimorico confronto. Fu "secolo breve", il Trecento? Quelli forti e intensi sono spesso tali: pensate al Settecento e al Novecento. Ma, anche qui, siamo nel campo - nominalistico per eccellenza - delle convenzioni.
    Certo, fu "breve" - e intenso - se lo facciamo coincidere con la fase acuta della crisi di rinnovamento della società euromediterranea. È fatale che, adottando la prospettiva della cultura e della letteratura, si debba cedere a un primato almeno concettuale del politico e delle sue categorie. Alla perentoria e disperante domanda goethiana Was im Anfang war? non si può rispondere se non come da par suo ha fatto Giuseppe Galasso: in principio, nel determinare e comunque nell'annunziare l'incipiente autunno del Medioevo italico, vi fu la "crisi" del mondo comunale. Il che significò trasformazione delle oligarchie di governo locale, processo di concentramento della ricchezza, passaggio da Stati ancor cittadini a Stati "territoriali", con le relative e conseguenti mutate dinamiche di selezione delle élite anche intellettuali e della sensibilità religiosa.
    Si potrebbe rovesciar questo cammino esegetico e descrivere (o, se si preferisce, concepire) quella che 20-30 anni fa veniva tourt court definita «la crisi del Trecento» su altre e diverse basi. È comunque un fatto foriero di forti mutamenti anche nell'estetica e nella religiosità che attorno al primo-secondo decennio del Trecento il clima cominciò a raffreddarsi e a divenir più umido: ne derivò una catena di cattive annate agricole, dunque di carestie, che si riflettevano da un lato sui prezzi, dall'altro sulla caduta delle difese biologiche dovute al peggiorare dell'alimentazione. I frutti di tutto ciò si videro bene, nella congiuntura degli anni 40 del secolo: moti e rivolte sociali, inquietudine politica e religiosa, crolli dei sistemi economico-finanziari, infine Morte nera: la peste. All'inizio dell'ultimo quarto del secolo, quando quasi a ruota scomparivano il Petrarca e il Boccaccio, la popolazione europea era stata falcidiata in poco meno di una trentina d'anni del 40, in certe zone addirittura del 60 per cento.
    Tornò il Papa da Avignone a Roma, appunto in quegli anni: e subito si avviò il tempo degli scismi, delle polemiche conciliariste, delle riforme degli Ordini religiosi, delle nuove crisi ereticali, della caccia alle streghe. Un tempo che avrebbe portato dritto alla Riforma e alla crisi del mondo europeo destinata a stabilizzarsi solo all'indomani della Guerra dei Trent'anni, a metà Seicento. Non è certo senza significato il fatto che quello fu appunto il lungo tempo delle epidemie (1348-1630) e delle grandi guerre europee, il tempo della febbre dei roghi accesi per bruciare gli eretici e le streghe. Il Trecento avvia, tra "Medioevo" e "Modernità", un lungo e brumoso crepuscolo durato tre secoli circa, forse qualcosa di più: la crisi di trasformazione della nostra letteratura in quel secolo, l'eclisse del sapere universitario e il sorgere di quello di corte, l'improntarsi di una musica e di un'arte nuove, il ritorno di Platone, la magia, la paura dei Turchi ne sono, a differenti livelli, sintomi e prove indiziarie.



    Il Sole 24 ORE.com - Un autunno pieno di colori

 

 

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