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Basta ipocrisie: meno immigrati più benessere
Le statistiche dell’Ue smentiscono la retorica dei profughi come opportunità per rilanciare l’economia Dall’Ungheria alla Polonia, i Paesi che corrono di più sono quelli che hanno saputo controllare le frontiere.
- Libero
- 25 Jan 2018
- di PIETRO SENALDI
La Commissione Europea ha suddiviso in tre fasce i Paesi aderenti alla Ue, classificandoli a seconda dei ritmi di crescita economica. Quelli veloci sono Polonia, Ungheria, Romania, Irlanda. Tra gli intermedi, che procedono in modo più lento ma costante, stanno la Germania, la Spagna, l’Olanda, finanche Grecia e Portogallo. Le nazioni invece impiantate sono l’Italia, naturalmente e, più a sorpresa, Gran Bretagna, Francia e Belgio.
Il fattore determinante per l’appartenenza a un gruppo piuttosto che a un altro non è l’essere governati dalla destra o dalla sinistra e neppure lo sono il livello di tassazione, l’efficienza della giustizia e della burocrazia, la forma dello Stato o il fatto di appartenere al ricco Nord Europa (...)
L’ultima se l’è inventata il presidente dell’Inps Tito Boeri, secondo il quale gli immigrati sarebbero utili a pagarci le pensioni del futuro. Ma il ritornello storico è quello che gli immigrati sono «risorse» che con il loro lavoro daranno slancio all’economia del Paese. A riprova si sono spesso addotti dati che dimostrano come ultimamente la maggior parte delle nuove imprese siano state aperte in Italia proprio da non italiani.
In attesa di scoprire come il kebabbaro appena inaugurato sotto casa possa dare nuovo impulso all’economia, l’Unione Europea ha sfornato statistiche che dimostrano involontariamente tutto il contrario. Dimostrano come le economie che crescono di più siano proprio quelle di quei Paesi dove la presenza di immigrati è inferiore, quei Paesi che per scelte politiche o posizione geografica sono riusciti a difendersi in maniera più efficace dall’invasione degli ultimi anni. E nella migliore delle ipotesi dimostrano che non c’è alcuna correlazione tra performance economica e migranti.
Le statistiche a cui ci riferiamo sono le ultime disponibili e certe, quelle relative alla crescita del Pil prevista per il 2018, e quelle relative alla presenza di stranieri nel 2015, cioè i nati all’estero ma dimoranti a vario titolo nei singoli stati dell’Ue. Un margine di due anni tra quest’ultima e la proiezione sul Pil che dovrebbe in un certo modo già darci delle indicazioni sul rapporto causa effetto tra immigrazione ed economia. Nello stilare le previsioni di crescita del Pil l’Economic Governance Support Unit del Parlamento Europeo divide in tre fasce i Paesi europei: quelli che avranno una crescita veloce, quelli con una crescita consistente, e quelli dalla crescita debole.
LE TRE FASCE
La prima fascia dei più virtuosi, cioè quelli che viaggiano oltre il 3%, riguarda quasi esclusivamente i Paesi dell’est Europa, da nord a sud. Con qualche eccezione, dovuta principalmente a Stati troppo piccoli per essere considerati statisticamente interessanti, come il Lussemburgo e Malta, ma anche con la significativa presenza dell’Irlanda che cresce del 3,9%. Per il resto si parla di tutti quelli di Visegraad, cioè quelli che si sono opposti e che si oppongono all’immigrazione selvaggia, come l’Ungheria di Orban che cresce del 3,6%, la Repubblica Ceca del 3%, la Slovacchia e la Polonia del 3,8. Ma anche la Romania, che registra un exploit del 4,4%, la Bulgaria del 3,8%, la Slovenia del 4% e l’Estonia e la Lituania che salgono rispettivamente del 3,2 e del 3,5%. Ebbene, secondo i dati Eurostat il primo gennaio del 2016 in Ungheria «dimoravano» a vario titolo appena 183mila stranieri non nati nella Ue, l’1,9% della popolazione, in Slovacchia 31mila (0,6%), in Repubblica Ceca 261mila (2,5%), in Polonia 410mila (1,1%), in Romania 202mila (1%), in Bulgaria 87mila (1,2), e via di questo passo. Tutti Paesi peraltro che per un motivo o per l’altro non sono considerati «attrattivi» dagli stessi migranti che preferiscono girare alla larga.
Il sospetto che sull’utilità dell’immigrazione ci stiano ampiamente prendendo in giro, bollandoci di «populismo» e «razzismo» se la pensiamo diversamente, è ancora di più avvalorato dall’analisi dell’altra faccia della medaglia, cioè della schiera dei Paesi a crescita lenta.
RELAZIONE DUBBIA
Tra i quali noi, che nonostante 4 milioni di immigrati (nel 2016), il 6,7% della popolazione, per quest’anno dobbiamo accontentarci di una risicata crescita dell’1,3% (anche se a Davos è stata ritoccata all’1,4%), e per il prossimo pure peggio. Ma come noi anche la Francia che sale dell’1,7% e ha una popolazione di stranieri extra Ue di quasi 6 milioni (8,5%); e pure il Belgio che sale dell’1,8 e che nel 2016 contava un milione di immigrati, quasi il 9% della popolazione. Tra questi anche la Gran Bretagna che nel 2016 contava 5,5 milioni di «dimoranti» non nati nella Ue e vanta un Pil previsto dell’1,3%.
La fascia intermedia, quella di chi cresce tra il 2 e il 3%, dimostra invece che nella migliore delle ipotesi non c’è relazione tra migranti ed economia, contando Paesi con alta presenza di immigrati ma con differenze economiche siderali. Bastino i casi della Germania che cresce del 2,1% e ha quasi 7 milioni di immigrati, ma che vanta l’economia più solida di tutto il continente, e quelli del Portogallo e della Grecia che partendo da situazioni debolissime, quasi a zero, crescono con valori oltre il 2% in presenza di una popolazione immigrata del 6%.