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    Predefinito Il partito della democrazia (1984)






    Da G. Spadolini, “I repubblicani partito della democrazia. Per il risanamento morale, istituzionale ed economico della Repubblica 1981-1984. Relazione del segretario al 35° congresso nazionale del PRI a Milano”, I quaderni del PRI, Roma 1984, pp. 131-141.



    1) I “vinti” di ieri

    L’ultimo capitolo della mia relazione allo scorso congresso del PRI si intitolava “La crisi delle ideologie e il partito della democrazia”. Sette od otto pagine di riflessioni, di spunti, di proposte per il partito, che uscivano dagli schemi, cangianti e ingannevoli, delle formule di governo e delle alchimie di schieramento. Sullo sfondo, due grandi questioni, evocate e intrecciate nel titolo stesso di quelle considerazioni finali, oggi più attuali e più valide che mai.
    Punto di partenza: il tramonto delle ideologie di sinistra, nel loro senso ancestrale, nella loro vocazione messianica e millenaristica. Anzi, il tramonto di tutte le ideologie, di ogni segno e di ogni colore, la “disideologizzazione” tendenziale della lotta politica, il prevalere di contenuti nuovi e differenziati, conformi ad una società industriale avanzata, sulle generalizzazioni semplificatrici della prima rivoluzione industriale, la rottura di tutte le contrapposizioni manichee anche di classe, il graduale logoramento e quasi dissolvimento delle grandi utopie fideiste, con le loro liturgie di massa, con il loro apparato di miti, di gesti, di stati d’animo, di mode e di costumi.
    Lo scenario: un’Italia più adulta, che nei dieci-quindici anni precedenti aveva conosciuto tutti i guasti e le devastazioni recati dall’ubriacatura ideologica o, come diceva il nostro Compagna, dalla “sbornia ideologica”. Un’Italia che aveva imparato a diffidare dei vecchi e nuovi profeti delle varie “città del sole”, che si era sforzata di ricercare (talvolta senza riuscirvi) nuovi punti di equilibrio, più consistenti e affidabili tavole di valori.
    Punto di arrivo: la prospettiva di un partito della democrazia, una democrazia senza aggettivi, sottratta al ricatto delle etichette, interprete di un’Italia più moderna e civile, capace di spezzare tutte le catene e tutti i vincoli dei confessionalismi di opposto segno. Era l’antica intuizione di Luigi Salvatorelli, tracciata nel luglio ’45 sulle colonne della Nuova Europa, che ritornava attuale nel momento di massima crisi delle ideologie e di conseguente logorio delle posizioni egemoniche ad esse collegate.
    “Democrazia interclassista, o superclassista, ed extra-confessionale”: esattamente a metà strada fra Giovanni Amendola, l’animatore inconfondibile dell’Unione Democratica Nazionale, e Ugo La Malfa, l’uomo che aveva portato nel vivo della lotta politica italiana la posizione di una forza democratica e laica, riformatrice e non socialista. Passando attraverso il generoso tentativo di “socialismo liberale” di Carlo Rosselli, la ricomposizione in chiave storiografica della dicotomia fra repubblicanesimo e socialismo abbozzata dal Nello Rosselli di “Mazzini e Bakounine”, il disegno anticipatore del partito d’azione di porsi come punto di confluenza della sinistra italiana non marxista.
    Su tutto, la coscienza di un travaglio che nulla risparmia, il travaglio di una democrazia in movimento, pienamente e quasi drammaticamente partecipe del circuito di idee, di fermenti, di aspirazioni comuni all’intero occidente industrializzato. Un occidente in cui, nonostante tutto, l’Italia è inserita a pieno titolo, anche nei ritmi e nelle cadenze di una trasformazione rapida e impetuosa. Spesso più rapida e più impetuosa di quanto la classe politica sia stata in grado di prevedere o di immaginare.
    Nell’arco dei tre anni trascorsi dal congresso dell’EUR ad oggi, la crisi delle ideologie allora denunciata si è fatta irreversibile. Non solo nel mondo comunista, dove la stessa esperienza del “socialismo reale” costituisce materia di approfondimento e di dibattito, dove emergono linee e posizioni un tempo incompatibili con le regole spietate del “centralismo democratico”. Non solo presso i socialisti, dove il processo di occidentalizzazione si è spinto fino all’adesione del PSI a impostazioni in anni non lontani oggetto di scomuniche o anatemi: a cominciare dalla politica dei redditi.
    Anche in casa democristiana si è aperta una tormentata stagione di riflessione e di ripensamento ideologico, di cui la stessa segreteria De Mita è espressione. Sarebbe un errore, da parte repubblicana, disconoscere lo sforzo avviato dalla DC nel tentativo di emanciparsi dai residui confessionali, di superare le incrostazioni populistiche, di aderire più intimamente a un sistema di valori e di princìpi, propri di una società industrialmente avanzata, troppe volte contraddetti o smentiti nella pratica di governo. Al punto che proprio i termini della tradizionale e conseguente impostazione repubblicana, a cominciare dal “rigore”, sono stati accettati dal nuovo gruppo dirigente della DC e quasi elevati a “spartiacque”: un fatto che non potremmo certo ridurre ai termini, tanto evidenti quanto contingenti, di una competizione elettorale (la candidatura Carli a Milano, per esempio), un fatto che investe un’autentica sofferenza della DC, in un’epoca di crescente “secolarizzazione” della società e quindi di prevalenza dei problemi angosciosi sulle certezze appaganti di una volta.
    Si tratta semmai di vedere se il processo di revisione ideologica della DC, al pari di quello di PCI e PSI, saprà reggere il passo dei tempi, se i grandi partiti sapranno aggiornare o sostituire le vecchie ideologie in crisi prima che l’inevitabile ridimensionamento a contatto coi tempi ne intacchi le rendite di posizione politica e i serbatoi del consenso elettorale.
    Un punto è certo. Taluni interrogativi, che tre anni fa sarebbero parsi prematuri o fuori luogo, oggi appaiono più che legittimi. Quali nuove prospettive si aprirebbero – ecco il primo quesito – per la democrazia italiana nel momento in cui si venissero finalmente ad allentare i collanti ideologici che hanno dominato un trentacinquennio di vita repubblicana? E dove si indirizzerebbero le grandi energie, morali e civili, compresse e ingabbiate dagli opposti confessionalismi, nel momento in cui potessero liberamente sprigionarsi? E con quali vantaggi per quelle forze, come il PRI, che hanno così duramente pagato in termini di consensi il loro “no” a tutti i fideismi, la loro fedeltà a un ideale di convivenza che si oppone a tutti i manicheismi e a tutte le intolleranze?
    È giungo il momento di riconsiderare taluni schemi rigidi e pietrificati della vita politica nazionale, certe ripartizioni di ruoli che in realtà non sono stabilite una volta per sempre. Per esempio, è ancora lecito inserire il partito repubblicano nel novero di quelli che Giorgio Amendola considerava i “vinti” della lotta politica italiana?
    Il senso della mia polemica con Amendola, nell’agosto del 1978, sul tema delle tre culture, è tutto qui. La cultura laica, la cultura di Pannunzio e di La Malfa, aveva detto allora il compianto dirigente comunista, è la cultura dei vinti. “Non sottovaluto affatto – preferisco citare le sue parole – per vari ed evidenti motivi, il contributo recato da quella corrente ideale, pur con le sue contraddizioni, al progresso democratico del paese, ma ci sarebbe da disperare per le sorti dell’Italia se queste fossero affidate soltanto a quella corrente, permanentemente sconfitta sul piano politico. Anche i vinti – aggiungeva Amendola – recano un contributo alla cultura e alla storia di un paese, a volte anche importante, ma certo non si può ignorare il peso delle forze riuscite vittoriose”.
    Lo Stato assistenziale che cresce intorno a noi – replicai ad Amendola – è figlio dei “vincitori”, di un certo populismo cattolico non meno che di un certo populismo marxista. Su questo non c’è dubbio. Si tratta di vedere se questa cosiddetta vittoria non sia stata pagata ad un prezzo troppo alto, di credibilità democratica e di autentica giustizia sociale.
    Ma avrei anche potuto rispondere ad Amendola che proprio le forze riuscite vittoriose, dal comunismo, al socialismo, alla democrazia cristiana sul suo versante, traversano tutte una crisi di identità così profonda, che sembra investirne perfino le basi ideologiche, i punti di riferimento essenziali, le tavole di valori acquisite.
    Non sta scritto da nessuna parte che i vinti di ieri non possono essere i vincitori di domani o alimentare, come forze di minoranza ma protagoniste della storia, le soluzioni di domani. E che i generosi tentativi falliti in passato non possano incontrare miglior sorte in futuro: un futuro che non è poi così lontano, se si pensa alle dinamiche politiche in atto rispecchiate nel voto del giugno ’83.
    Più larga articolazione della lotta politica; una direttrice tendenziale al superamento del “bipolarismo”; un allargamento, diversamente distribuito, dell’area di democrazia laica e di democrazia socialista, che non è la stessa, che esclude le divagazioni talvolta goliardiche del “lib-lab”, che cancella i trattini.
    Area laica e socialista, non area laico-socialista. Ma nella coscienza che abbiamo di portare valori diversi, di diversità, di peculiarità, di iniziativa, di trasformazione, che non coincidono coi sogni né di un’egemonia né di due egemonie bilanciate e neutralizzantesi a vicenda (“l’equilibrio delle impotenze”, come fu in qualche momento della solidarietà nazionale, il rapporto fra DC e PCI, il trasferimento, in schemi interni, della logica delle superpotenze nucleari, con le forze laiche quasi rappresentate a guisa di un’Europa non nucleare, oscillante fra subordinazione agli Stati Uniti e minaccia di finlandizzazione!).


    (...)
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    Predefinito Re: Il partito della democrazia (1984)

    2) Quali prospettive per la “terza forza”

    Partito della democrazia, ho detto, e non della democrazia laica. Perché il mio sogno è quello di un’Italia in cui neppure la democrazia cristiana abbia bisogno di ricorrere all’aggettivo “cristiano” in vista di rivendicare la propria ispirazione ideale.
    Non userò, perciò, quell’aggettivo “laico” che tanto irrita l’on. Piccoli, e del quale – in verità – ho fatto uso assai parco anche durante la guida del governo. Condivido integralmente la tesi di Norberto Bobbio, quando dice che “definirsi ‘partito della democrazia’ tout court significa distinguersi da altre formazioni politiche di ispirazione cristiana o socialista, che accompagnano il sostantivo ‘democrazia’ con un aggettivo che provvede a qualificarlo e a precisarlo”.
    E proprio per non lasciare spazio ad equivoci di nessun genere, colloco il PRI, quale punto di riferimento del partito della democrazia, in un’area che non è identificabile con i luoghi comuni della topografia politica nazionale, fondata su elementi che hanno subito un costante rimescolio e che hanno smarrito gran parte del loro significato in una società così complessa, così articolata, così variegata nei suoi centri di influenza e di irradiazione ideale, dove la linea di demarcazione fra un presunto fronte del progresso e un altrettanto ipotetico fronte della conservazione appare frastagliata e spesso indecifrabile.
    Un esempio? I repubblicani non hanno mai rinunciato a qualificarsi di sinistra, anche in virtù delle profonde radici popolari sempre serbate (chi ha dimenticato Togliatti, quando definiva il PRI un “piccolo partito di massa”?).
    Il nostro stesso secolare rapporto col PSI lo dimostra: rapporto dialettico che ha conosciuto momenti di divaricazione, di polemica anche aspra, come avviene fra forze storicamente consanguinee, qualche volta di scontro, ma che ha registrato punti d’incontro fondamentali in occasione delle grandi svolte da cui è stata segnata la vita nazionale da cent’anni a questa parte.
    Penso al 1898 e alla crisi di fine secolo contro l’ipoteca dell’involuzione reazionaria della vita dello Stato monarchico. Penso all’età giolittiana, allorché il PRI si collocò “istituzionalmente” alla sinistra del PSI, contro le tentazioni e indulgenze della “Monarchia socialista” e della esclusiva evoluzione riformistica del movimento operaio. Penso alla lotta contro il fascismo e alla Concentrazione repubblicana-socialista ai tempi di Carlo Rosselli. Penso alla lotta per la liberazione e per la Repubblica (due nomi si associano: Pertini e La Malfa). Penso alla nascita, faticosa e tormentata, del centro-sinistra; penso all’avvio della stessa alternanza a palazzo Chigi, nel così sottile rapporto fra socialisti e repubblicani.
    Casi di vera e propria confusione fra socialismo e mazzinianesimo non sono mancati. Non a caso ci furono i socialisti mazziniani e i repubblicani sociali (evocati a Treviso nel convegno del gennaio ’84 su Mario Bergamo: interprete di un repubblicanesimo sociale che riassumeva le inquietudini della vecchia sinistra socialista, corridoniana e soreliana).
    Ma la sinistra repubblicana fu sostanzialmente, e non solo durante la stagione della sapiente mediazione giolittiana, sinistra politica rispetto al regime istituzionale, fu tensione morale per la repubblica. Anche contro le indulgenze e le compromissioni di un evoluzionismo fine a se stesso, di una “riforma sociale” senza la riforma morale (tema peculiare nella scuola repubblicana di sempre). Non fu mai sinistra sociale o tantomeno classista.
    Si guardi la posizione di Giovanni Conti, nei mesi o settimane delle segreteria Bergamo del ’26. Conti ammoniva che “l’adesione al concetto e al metodo della lotta di classe… rappresenta una modificazione profonda della concezione che i repubblicani hanno del problema italiano, concezione non classista, non astratta ed aprioristica, non esclusiva e relativa a questo o a quel centro della vita italiana ma complessa”. Si riguardi tutto quello che è stato l’insegnamento di Ugo La Malfa in merito al superamento del classismo e dei suoi schemi, dalla polemica con la sinistra azionista all’indomani della Liberazione, fino ai grandi dibattiti degli anni ’65-’70 con Amendola e Ingrao.
    Il “no” al classismo costituisce una costante immutabile del repubblicanesimo italiano, ma anche la caratteristica insopprimibile del partito della democrazia senza aggettivi. “La vera democrazia è integrale – scriveva Luigi Salvatorelli proprio sulle colonne della Voce repubblicana del febbraio 1948 -. Ma questa democrazia integrale non può essere opera di una classe, né il semplice prodotto della lotta di classe. Essa investe tutto il popolo, come vita politica e processo produttivo. Per la democrazia integrale, popolo è concetto più ampio, più comprensivo, più completo di classe operaia. Democrazia e mondo del lavoro si identificano, perché nella democrazia oziosi parassiti non hanno nessuna funzione. Ma il mondo del lavoro – incalzava Salvatorelli – è ben più ampio del proletariato, e non solo è più ampio, ma è un concetto diverso. Al posto della classe come puro elemento di distinzione e di lotta, subentra la funzione e la pienezza della vita sociale”.
    Nessuna ipoteca classista, dunque, sul partito della democrazia. Ma neppure una vocazione moderata o conservatrice. Basta considerare la natura dei consensi confluiti sulle liste dell’Edera il 26 giugno, a smentire ogni favola di “polo moderato” o di analoghi stereotipi a proposito del partito repubblicano. L’elettorato del PRI non è quello di Malagodi agli inizi degli anni sessanta: così replicai in televisione ad Andreotti il quale aveva equiparato, con un gustoso paragone a sfondo biblico (ricordate lo scambio di battute sui due Giovanni, il Battista e l’Evangelista?), il mio successo di Milano con quello liberale maturato vent’anni prima sul “no” al centro-sinistra e sui contraccolpi nella nazionalizzazione delle aziende elettriche.
    A Milano, ma non solo nella capitale lombarda, hanno votato PRI impiegati, operai, tassisti, casalinghe, gente del popolo, intrecciata con settori di borghesia produttiva, di ceti professionali. Non sono le clientele che gravitano attorno ad altri partiti ad essersi spostate verso di noi. I nostri voti – lo voglio ripetere una volta per tutte – vengono dai ceti emergenti, dai nuovi quadri dell’industria e del “terziario” avanzato, della “borghesia” dotata di senso civile, che chiede un’amministrazione pubblica più rigorosa ed efficiente, dagli artigiani che rischiano in proprio, da operai specializzati che hanno conservato intatta l’etica del lavoro, da giovani che si preparano con impegno scrupoloso ad assolvere la loro funzione professionale.
    Si tratta di un’Italia quanto mai lontana dai centri di potere politico ed economico, un’Italia seria e dura, che non ha mai amato il ribellismo rivendicativo di taluni settori di piccola borghesia parassitaria, anche quando era di moda e riceveva l’avallo di qualche organo di stampa o della televisione di Stato. È l’Italia cui dobbiamo guardare per il riscatto dai mali che ci affliggono, come protagonista di una rinnovata “stagione dei doveri”.


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    Predefinito Re: Il partito della democrazia (1984)

    3) La “rivoluzione democratica” incompiuta

    Cos’è, allora, il partito della democrazia? È il naturale punto di riferimento per tutti coloro che non si riconoscono più nelle etichette confessionali e nelle visioni fideistiche o manichee, che non riescono a concepire la lotta politica italiana in termini di sfida fra il Bene e il Male, che guardano a un futuro dell’Italia come grande democrazia industriale avanzata dal respiro europeo, contro tutte le chiusure, contro tutti gli immaginari primati o le retoriche autoctonie, magari mediterranee.
    È l’interprete privilegiato dell’Italia tecnica e professionale, quella che produce e che lavora, che rischia in proprio e che respinge gli schemi classisti al pari delle seduzioni dell’assistenzialismo o del corporativismo, che identifica il proprio destino con la salvaguardia dei fattori di dinamismo e di trasformazione e di inventiva che hanno cambiato il volto del paese più in questi quarant’anni che nei duemila precedenti.
    È l’interlocutore più diretto di quanti pongono al primo posto il compimento di quella “rivoluzione democratica” che finora si è realizzata, in Italia, in forme incompiute e spesso contraddittorie, senza colmare i solchi fra paese reale e paese legale, senza assicurare quell’intima solidarietà fra cittadini e classe politica che occorre ad ogni costo ristabilire, prima che prevalgano i fattori della sfiducia e della protesta indiscriminata. E i sintomi di un profondo malessere, purtroppo, non mancano.
    Guai a cadere nell’errore dell’economicismo fine a se stesso. Non riusciremmo mai a comprendere gli stati d’animo, e i sentimenti, e le correnti di opinione che solcano la società italiana: una società che ha varcato da tempo, ormai, la soglia del benessere, e ha tutto il diritto di porsi problemi di una più compiuta democrazia, di un più stretto rapporto fra società civile e società politica, fra cittadini e Stato.
    L’ansia moralizzatrice che sale dal paese è parte integrante di questo moto di elevazione civile, corrisponde pienamente a quel più alto sentire la “casa Italia” che per troppo tempo era stato geloso patrimonio di minoranze estreme e in qualche caso ereticali. Cito ancora l’intervista di Norberto Bobbio alla Voce Repubblicana: “Non ci sono dubbi: la questione morale è questione politica. In Italia, diversamente da quel che accade in Inghilterra, gli scandali non riguardano mai problemi di moralità privata, come nel recente caso del ministro conservatore costretto a dimettersi per faccende d’adulterio; da noi si tratta sempre di questioni che investono la moralità dell’uomo pubblico, l’interesse collettivo, quello che una volta si chiamava il ‘bene comune’”.
    “Quando si parla di onestà politica – sono ancora parole di Bobbio -, non si fa un discorso vagamente e velleitariamente moralistico, ma ci si riferisce a determinate regole di comportamento, senza l’osservanza delle quali l’azione politica perde la sua efficacia e si converte in un danno oggettivo e grave per la collettività. Ecco perché la questione morale è innanzitutto questione politica, e i partiti che non intendono questa verità vanno incontro ad amare sorprese”. La chiave del successo repubblicano del 26 giugno ’83 sta proprio nell’aver compreso in tempo la rilevanza della questione morale come parte costitutiva e irrinunciabile della battaglia volta a fondare il “partito della democrazia”, nell’avere individuato nel “fronte del rifiuto”, cioè in quell’area sempre più vasta di cittadini che depongono nell’urna la scheda bianca, nulla o beffarda, il grande interlocutore degli anni a venire.
    Non si tratta, perciò, di portare via voti alla DC o al PSI, come da qualche parte si legge. Si tratta di capire perché una quota crescente dell’elettorato ha scelto la via della sterile protesta generalizzata e indiscriminata, quali rimedi occorre adottare per ricuperare alla democrazia la fascia anti-sistema che si manifesta – su questo non c’è dubbio – in forme torbide e limacciose, ma che è figlia anch’essa del dubbio, è espressione di un principio di rottura dei vincoli chiesastici che trent’anni fa – per esempio – sarebbe stato addirittura inconcepibile.
    Dopo decenni in cui le grandi questioni irrisolte della democrazia politica erano messe in soffitta, in cui il tema delle istituzioni sembrava risolto una volta per sempre con l’avvento della Repubblica, in cui il solo parlare di pubblica moralità era equiparato moralismo, bisogna avere il coraggio di ritornare a Mazzini, di rileggere Cattaneo, di rivendicare con orgoglio la continuità del PRI rispetto a una scuola di pensiero che alla costruzione di una democrazia integrale ha dedicato la parte migliore della sua riflessione. Nella consapevolezza che l’Italia ha assoluto bisogno di una forza che ponga al primo posto la realizzazione di una più moderna e integrale democrazia.
    I problemi di oggi si identificano più che mai nell’attuazione di quella “direttiva” che Giovanni Amendola, maestro di libertà per Ugo La Malfa e per una generazione di antifascisti, riassumeva nel ’24 “in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando e consolidando le sue fondamenta in tutta l’estensione spirituale della coscienza italiana”.
    Il disegno di partito della democrazia affonda le sue radici in questa “fede incrollabile” nello Stato concepito come conquista di popolo, in quest’ansia di libertà animata dall’ideale, che è il nostro, di una Repubblica più amata dagli italiani, di una Repubblica, avrebbe detto il nostro Machiavelli, come virtù.


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    Predefinito Re: Il partito della democrazia (1984)

    4) Il più antico e il più giovane partito italiano

    Dopo il 26 giugno quel disegno, che a taluno apparve troppo ambizioso o sproporzionato alle nostre forze, ha qualche condizione in più per realizzarsi. Purché all’oltre cinque per cento conquistato dall’Edera non si attribuisca il valore di punto di arrivo; purché non si pretenda di difendere in trincea una posizione che semmai va rafforzata ed allargata; purché si sappia adeguare l’iniziativa del partito alle nuove responsabilità che la crescita elettorale ci ha attribuito.
    L’ho detto al consiglio nazionale del settembre ’83, all’indomani della scelta di entrare nel governo a guida socialista in posizioni di delicata ed essenziale responsabilità: la fase del PRI “coscienza critica” del sistema, quella impersonata in forma incomparabile da Ugo La Malfa, è terminata. Fu la fase che permise di conservare la nostra autonomia di giudizio all’interno del centrismo prima, del centro-sinistra poi, e che è rivissuta nell’atteggiamento critico serbato dal partito dopo la guida del governo.
    Oggi il nuovo disegno strategico, il nuovo rapporto fra forze laiche e forze cattoliche, che è tutto da definire, i nuovi equilibri all’interno della sinistra – che sono tutti da disegnare – ci attribuiscono una funzione più ampia, che non è più, o non è più soltanto, di coscienza critica.
    E allora, in questa prospettiva, non dobbiamo mai dimenticare che c’è il governo, ma non c’è solo il governo. C’è il partito, ma non c’è solo il partito. Sarebbe un errore esaurire tutto lo sforzo nella dimensione partito, che pure va debitamente rafforzata.
    Siamo il partito più antico della storia italiana, il partito che rivendica la sua linea di continuità diretta dalla “Giovine Italia” di Mazzini: ecco perché parlo di un secolo e mezzo di storia vivente, di storia come momento di una scelta ideale. Ma è una dimensione insufficiente, quella del partito, rispetto agli aneliti, rispetto alle angosce, rispetto alle ansie della società che avanza, del mondo che cambia, delle giovani generazioni che si presentano sull’orizzonte politico. Occorre che il linguaggio repubblicano si articoli in tutte le aree del più vasto movimento della società.
    C’è anche una ragione di coerenza. Noi repubblicani siamo stati i primi a denunciare l’invadenza e la sopraffazione dei partiti nel campo della vita associata. Fra i punti fondamentali del nostro programma abbiamo messo una riduzione di tale area d’invadenza, la rinuncia alle nomine pubbliche per benemerenze di partito, la netta separazione fra sfera pubblica e sfera privata, nuove e più efficaci forme di controllo del finanziamento pubblico dei partiti.
    Tale obbligo di coerenza ci porta a guardare a tutti i centri di vita associativa che sono connessi alla storia stessa di quel movimento repubblicano che ha sì coinciso col partito, ma non si è mai esaurito nel partito.
    Pensiamo, per esempio, alla componente sindacale. Fra i problemi che si pongono oggi – rispetto alle nuove dimensioni e alle nuove responsabilità del partito – ci sono obblighi di maggiore incisività e di maggiore penetrazione non solo nell’organizzazione sindacale, la UIL, che dispone della più consistente fette di lavoratori repubblicani, ma anche in tutti i settori in cui possono nascere gruppi organizzati di lavoratori collegati all’iniziativa del PRI.
    È una materia sulla quale il partito dovrà discutere in sede di congresso. Non meno di quanto lo invitiamo al dibattito sul ruolo del movimento cooperativo e sulla posizione essenziale che le strutture cooperative hanno, o meglio dovrebbero avere, soprattutto se rinsaldate e meglio raccordate alla vita del PRI, in quell’opera di superamento del classismo tradizionale da cui tanta linfa ha ricevuto il nuovo voto repubblicano.
    Sindacati e cooperative sono due momenti di questa più vasta strategia. Ma non sono i soli. C’è la federazione giovanile. C’è l’ENDAS. C’è il movimento femminile (che si è riunito a Congresso a Rimini pochi mesi fa in un dibattito stimolante e fecondo, solcato da un ripensamento moderno dei problemi). Molto spesso non c’è un sufficiente raccordo fra il partito e quelle che una volta si chiamavano le “associazioni collaterali”.
    Preferiamo evitare il discorso sulle autonomie che nessuno minaccia o sui collateralismi che nessuno invoca. Ci interessa piuttosto richiamare tutti i repubblicani alla necessità di apportare un contributo, da ogni spazio della società civile ci si muova, adeguato a un partito che è sostanzialmente doppio rispetto a quello anteriore al 26 giugno.
    L’obiettivo: rafforzare i caratteri costitutivi del PRI come partito nuovo della democrazia italiana, volto a superare con l’esempio, la moralità, l’integrità, l’efficienza, la modernità delle proprie impostazioni i sentimenti di sfiducia, di disimpegno, di protesta che minano le nostre istituzioni.
    Le premesse sono confortanti. Abbiamo raccolto voti da tutte le parti. Abbiamo soprattutto raccolto numerosi voti giovani, il che non avveniva più da molti anni. Per la prima volta nella storia del partito il voto alla Camera ha superato il voto al Senato.
    C’è tutta una fascia consistente di pubblica opinione che punta su di noi come sull’unica riserva della Repubblica. È un patrimonio da non disperdere, una conquista da consolidare. Ben sapendo – ricorro alle stesse parole con cui conclusi la relazione congressuale dell’81 – che “per una forza di sinistra democratica e razionale, capace di imprimere certi impulsi al meccanismo capitalistico e di alimentare il processo di sviluppo e di ripresa della società italiana, per una forza come il PRI c’è ancora spazio in Italia. Anzi, mai lo spazio fu così vasto. Se lo sapremo occupare”.
    Occupare lo spazio, ho detto. Non occupare il potere.


    Giovanni Spadolini
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