Da G. Spadolini, “I repubblicani partito della democrazia. Per il risanamento morale, istituzionale ed economico della Repubblica 1981-1984. Relazione del segretario al 35° congresso nazionale del PRI a Milano”, I quaderni del PRI, Roma 1984, pp. 131-141.
1) I “vinti” di ieri
L’ultimo capitolo della mia relazione allo scorso congresso del PRI si intitolava “La crisi delle ideologie e il partito della democrazia”. Sette od otto pagine di riflessioni, di spunti, di proposte per il partito, che uscivano dagli schemi, cangianti e ingannevoli, delle formule di governo e delle alchimie di schieramento. Sullo sfondo, due grandi questioni, evocate e intrecciate nel titolo stesso di quelle considerazioni finali, oggi più attuali e più valide che mai.
Punto di partenza: il tramonto delle ideologie di sinistra, nel loro senso ancestrale, nella loro vocazione messianica e millenaristica. Anzi, il tramonto di tutte le ideologie, di ogni segno e di ogni colore, la “disideologizzazione” tendenziale della lotta politica, il prevalere di contenuti nuovi e differenziati, conformi ad una società industriale avanzata, sulle generalizzazioni semplificatrici della prima rivoluzione industriale, la rottura di tutte le contrapposizioni manichee anche di classe, il graduale logoramento e quasi dissolvimento delle grandi utopie fideiste, con le loro liturgie di massa, con il loro apparato di miti, di gesti, di stati d’animo, di mode e di costumi.
Lo scenario: un’Italia più adulta, che nei dieci-quindici anni precedenti aveva conosciuto tutti i guasti e le devastazioni recati dall’ubriacatura ideologica o, come diceva il nostro Compagna, dalla “sbornia ideologica”. Un’Italia che aveva imparato a diffidare dei vecchi e nuovi profeti delle varie “città del sole”, che si era sforzata di ricercare (talvolta senza riuscirvi) nuovi punti di equilibrio, più consistenti e affidabili tavole di valori.
Punto di arrivo: la prospettiva di un partito della democrazia, una democrazia senza aggettivi, sottratta al ricatto delle etichette, interprete di un’Italia più moderna e civile, capace di spezzare tutte le catene e tutti i vincoli dei confessionalismi di opposto segno. Era l’antica intuizione di Luigi Salvatorelli, tracciata nel luglio ’45 sulle colonne della Nuova Europa, che ritornava attuale nel momento di massima crisi delle ideologie e di conseguente logorio delle posizioni egemoniche ad esse collegate.
“Democrazia interclassista, o superclassista, ed extra-confessionale”: esattamente a metà strada fra Giovanni Amendola, l’animatore inconfondibile dell’Unione Democratica Nazionale, e Ugo La Malfa, l’uomo che aveva portato nel vivo della lotta politica italiana la posizione di una forza democratica e laica, riformatrice e non socialista. Passando attraverso il generoso tentativo di “socialismo liberale” di Carlo Rosselli, la ricomposizione in chiave storiografica della dicotomia fra repubblicanesimo e socialismo abbozzata dal Nello Rosselli di “Mazzini e Bakounine”, il disegno anticipatore del partito d’azione di porsi come punto di confluenza della sinistra italiana non marxista.
Su tutto, la coscienza di un travaglio che nulla risparmia, il travaglio di una democrazia in movimento, pienamente e quasi drammaticamente partecipe del circuito di idee, di fermenti, di aspirazioni comuni all’intero occidente industrializzato. Un occidente in cui, nonostante tutto, l’Italia è inserita a pieno titolo, anche nei ritmi e nelle cadenze di una trasformazione rapida e impetuosa. Spesso più rapida e più impetuosa di quanto la classe politica sia stata in grado di prevedere o di immaginare.
Nell’arco dei tre anni trascorsi dal congresso dell’EUR ad oggi, la crisi delle ideologie allora denunciata si è fatta irreversibile. Non solo nel mondo comunista, dove la stessa esperienza del “socialismo reale” costituisce materia di approfondimento e di dibattito, dove emergono linee e posizioni un tempo incompatibili con le regole spietate del “centralismo democratico”. Non solo presso i socialisti, dove il processo di occidentalizzazione si è spinto fino all’adesione del PSI a impostazioni in anni non lontani oggetto di scomuniche o anatemi: a cominciare dalla politica dei redditi.
Anche in casa democristiana si è aperta una tormentata stagione di riflessione e di ripensamento ideologico, di cui la stessa segreteria De Mita è espressione. Sarebbe un errore, da parte repubblicana, disconoscere lo sforzo avviato dalla DC nel tentativo di emanciparsi dai residui confessionali, di superare le incrostazioni populistiche, di aderire più intimamente a un sistema di valori e di princìpi, propri di una società industrialmente avanzata, troppe volte contraddetti o smentiti nella pratica di governo. Al punto che proprio i termini della tradizionale e conseguente impostazione repubblicana, a cominciare dal “rigore”, sono stati accettati dal nuovo gruppo dirigente della DC e quasi elevati a “spartiacque”: un fatto che non potremmo certo ridurre ai termini, tanto evidenti quanto contingenti, di una competizione elettorale (la candidatura Carli a Milano, per esempio), un fatto che investe un’autentica sofferenza della DC, in un’epoca di crescente “secolarizzazione” della società e quindi di prevalenza dei problemi angosciosi sulle certezze appaganti di una volta.
Si tratta semmai di vedere se il processo di revisione ideologica della DC, al pari di quello di PCI e PSI, saprà reggere il passo dei tempi, se i grandi partiti sapranno aggiornare o sostituire le vecchie ideologie in crisi prima che l’inevitabile ridimensionamento a contatto coi tempi ne intacchi le rendite di posizione politica e i serbatoi del consenso elettorale.
Un punto è certo. Taluni interrogativi, che tre anni fa sarebbero parsi prematuri o fuori luogo, oggi appaiono più che legittimi. Quali nuove prospettive si aprirebbero – ecco il primo quesito – per la democrazia italiana nel momento in cui si venissero finalmente ad allentare i collanti ideologici che hanno dominato un trentacinquennio di vita repubblicana? E dove si indirizzerebbero le grandi energie, morali e civili, compresse e ingabbiate dagli opposti confessionalismi, nel momento in cui potessero liberamente sprigionarsi? E con quali vantaggi per quelle forze, come il PRI, che hanno così duramente pagato in termini di consensi il loro “no” a tutti i fideismi, la loro fedeltà a un ideale di convivenza che si oppone a tutti i manicheismi e a tutte le intolleranze?
È giungo il momento di riconsiderare taluni schemi rigidi e pietrificati della vita politica nazionale, certe ripartizioni di ruoli che in realtà non sono stabilite una volta per sempre. Per esempio, è ancora lecito inserire il partito repubblicano nel novero di quelli che Giorgio Amendola considerava i “vinti” della lotta politica italiana?
Il senso della mia polemica con Amendola, nell’agosto del 1978, sul tema delle tre culture, è tutto qui. La cultura laica, la cultura di Pannunzio e di La Malfa, aveva detto allora il compianto dirigente comunista, è la cultura dei vinti. “Non sottovaluto affatto – preferisco citare le sue parole – per vari ed evidenti motivi, il contributo recato da quella corrente ideale, pur con le sue contraddizioni, al progresso democratico del paese, ma ci sarebbe da disperare per le sorti dell’Italia se queste fossero affidate soltanto a quella corrente, permanentemente sconfitta sul piano politico. Anche i vinti – aggiungeva Amendola – recano un contributo alla cultura e alla storia di un paese, a volte anche importante, ma certo non si può ignorare il peso delle forze riuscite vittoriose”.
Lo Stato assistenziale che cresce intorno a noi – replicai ad Amendola – è figlio dei “vincitori”, di un certo populismo cattolico non meno che di un certo populismo marxista. Su questo non c’è dubbio. Si tratta di vedere se questa cosiddetta vittoria non sia stata pagata ad un prezzo troppo alto, di credibilità democratica e di autentica giustizia sociale.
Ma avrei anche potuto rispondere ad Amendola che proprio le forze riuscite vittoriose, dal comunismo, al socialismo, alla democrazia cristiana sul suo versante, traversano tutte una crisi di identità così profonda, che sembra investirne perfino le basi ideologiche, i punti di riferimento essenziali, le tavole di valori acquisite.
Non sta scritto da nessuna parte che i vinti di ieri non possono essere i vincitori di domani o alimentare, come forze di minoranza ma protagoniste della storia, le soluzioni di domani. E che i generosi tentativi falliti in passato non possano incontrare miglior sorte in futuro: un futuro che non è poi così lontano, se si pensa alle dinamiche politiche in atto rispecchiate nel voto del giugno ’83.
Più larga articolazione della lotta politica; una direttrice tendenziale al superamento del “bipolarismo”; un allargamento, diversamente distribuito, dell’area di democrazia laica e di democrazia socialista, che non è la stessa, che esclude le divagazioni talvolta goliardiche del “lib-lab”, che cancella i trattini.
Area laica e socialista, non area laico-socialista. Ma nella coscienza che abbiamo di portare valori diversi, di diversità, di peculiarità, di iniziativa, di trasformazione, che non coincidono coi sogni né di un’egemonia né di due egemonie bilanciate e neutralizzantesi a vicenda (“l’equilibrio delle impotenze”, come fu in qualche momento della solidarietà nazionale, il rapporto fra DC e PCI, il trasferimento, in schemi interni, della logica delle superpotenze nucleari, con le forze laiche quasi rappresentate a guisa di un’Europa non nucleare, oscillante fra subordinazione agli Stati Uniti e minaccia di finlandizzazione!).
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