15:17 03.02.2018
Germano Dottori
Gli Usa sono imprevedibili, ma il presidente Trump non spezza il filo
Nelle ultime settimane non sono mancati i gesti e le iniziative che hanno fatto dubitare delle effettive intenzioni attuali del presidente americano.
Dopo la pubblicazione della nuova Strategia di Sicurezza Nazionale che ha annoverato la risorgente potenza russa tra le maggiori minacce agli Stati Uniti, si è in effetti registrata tutta una serie di mosse poco amichevoli, se non apertamente ostili. Con la collaborazione del presidente Poroshenko, il Pentagono ha iniziato a preparare lo svolgimento di esercitazioni congiunte in Ucraina, paese che presto riceverà per la prima volta dagli Usa anche sistemi d'arma letali, come i missili anticarro Javelin che verranno molto probabilmente schierati a ridosso del Donbass.
Poi, il 26 gennaio scorso, è giunta l'estensione delle sanzioni previste per i soggetti sospettati di favorire il separatismo in Ucraina a decine di nuove individualità ed imprese.
Infine, appena tre giorni più tardi, si è verificato lo sconcertante episodio della cosiddetta "lista del Cremlino" — pubblicata dal Tesoro americano e, a quanto pare, integralmente ripresa da un reportage della rivista Forbes — contenente i nomi di 114 alti dirigenti politici e 96 imprenditori russi che potrebbero in futuro subire provvedimenti discriminatori da parte degli Stati Uniti. Tra loro, figurano anche il premier Dmitrj Medvedev e il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, seppure non il presidente Putin. Cosa vuol dire tutto questo?
Per capire quello che sta succedendo, occorre tener conto di un paio di fattori.
Il primo è che la Presidenza degli Stati Uniti dispone di grandi poteri, ma non è onnipotente. Intanto, perché la Costituzione americana ne circoscrive le prerogative in modo molto più incisivo di quanto si immagini. Inoltre, l'amministrazione di cui il presidente si serve è un sistema opaco e complesso, sul quale l'inquilino della Casa Bianca fatica spesso ad imporsi già in tempi normali. Nel caso di Trump, questa difficoltà è amplificata dal fatto che il presidente in carica non dispone veramente di un suo partito e quindi di un numero adeguato di collaboratori fidati da nominare ai livelli più elevati dei Dipartimenti che contano. Al tycoon servirà quindi del tempo per impadronirsi della macchina di governo. Nel frattempo, e per un periodo che di certo non sarà brevissimo, Trump dovrà ricorrere ad espedienti, che faranno apparire erratiche le sue scelte anche quando rifletteranno solo altrettanti compromessi tra il desiderabile e il fattibile.
In secondo luogo, proprio la volontà manifestata da Trump di costruire un rapporto di collaborazione con la Russia è stata utilizzata a fini di lotta politica interna per tentare di rovesciarlo o quanto meno condizionarne le decisioni in modo più funzionale agli interessi degli apparati. Se ne deve trarre la conclusione che seppure investito di facoltà non trascurabili, questo presidente americano è costretto a nascondere i suoi obiettivi anche al proprio staff. Ci sono indizi importanti che la dirigenza russa ne stia tenendo conto. D'altra parte, al momento non ci sono ancora fatti che integrino gli estremi di una rottura in vista.
Alle personalità elencate nella lista pubblicata lo scorso 29 gennaio, ad esempio, non è stata imposta alcuna sanzione, circostanza che ha determinato malumori nel Congresso americano. Invece, stando almeno a quanto ha riferito l'ambasciatore di Trump a Mosca, sarebbe stato invitato di nascosto negli Stati Uniti un alto dirigente dell'intelligence russa che non avrebbe potuto entrarvi.
Persino la crescita della presenza militare americana in Ucraina sembra una concessione temporanea ai settori meno malleabili dell'amministrazione, piuttosto che l'evidenza di una vera volontà di mettere nell'angolo il Cremlino. Kiev ha problemi con il Fmi e non si è avvicinata di un metro all'ingresso nell'Alleanza Atlantica.
La strada della collaborazione a livello strategico con Mosca è in effetti una via obbligata per Trump, che persegue un disegno di stabilizzazione impraticabile senza l'apporto anche militare della Russia, come si è visto in Medio Oriente. Gli interessi non saranno ovunque identici, ma mostrano significative aree di sovrapposizione.
Per quanto paiano eretiche ad alcuni, inoltre, le idee di cui Trump è portatore non sono del tutto nuove. A riproporle all'attenzione del pubblico americano fu un altro repubblicano, Pat Buchanan, che in aperta polemica con l'establishment del suo partito sostenne negli anni novanta la tesi che l'America dovesse cessare di essere un impero. Quest'uomo, che veniva dall'amministrazione Nixon, si oppose anche all'allargamento della Nato, sottolineando come agli Stati Uniti convenisse allearsi a Mosca anziché a Varsavia. Trump non può spingersi fino a quel punto, almeno per ora, ma il suo tentativo merita ancora fiducia, malgrado le resistenze che incontra producano talvolta sgradite sorprese.