Da G. Galasso, “Italia democratica. Dai giacobini al Partito d’azione”, Le Monnier, Firenze 1986, pp. 246-250.


[…] L’eccezione maggiore a queste linee generali del panorama proprio dell’area liberal-democratica fu, indubbiamente, costituita, negli anni ’60 dalle intuizioni e dalle tesi sostenute da Ugo La Malfa. Venne, cioè, dal mondo della politica e della politica militante, piuttosto che da quello della cultura nel senso stretto, o almeno nel senso professionale, del termine[1].
La Malfa colse immediatamente uno dei problemi di fondo comportati dal tipo di società che si andava affermando in Italia. Egli ne impostò i termini proponendo la questione dell’uso e della destinazione delle maggiori risorse rese disponibili dal boom economico del paese. Lasciato alla sua spontaneità, il benessere prodotto dallo sviluppo andava, da un lato, a collocarsi e distribuirsi presso i ceti più forti e più agiati e presso quelli che, in un modo o nell’altro, nel tenore tumultuoso dello sviluppo, conseguivano una posizione migliore. In tal modo i più forti diventavano ancora più forti, e i più deboli ancora più deboli. Dall’altro lato, i maggiori redditi venivano adibiti ai consumi tipici di una “società opulenta”, e cioè di una società in cui il benessere sconfinava nel superfluo, nel puro consumismo e, soprattutto, nel privilegiamento di esigenze superficiali, appariscenti e immediate a scapito di esigenze più durature e profonde e nella priorità di consumi individuali rispetto a quelli sociali.
La diagnosi lamalfiana comportava anche una terapia. Politicamente essa si esprimeva nella proposta di una programmazione che coinvolgesse in una responsabilizzazione esplicita le forze sociali oltre che quelle politiche. Far “sedere al tavolo della programmazione”, con il governo e con l’amministrazione pubblica, i sindacati sia degli imprenditori che dei lavoratori voleva dire realizzare qualcosa di più di un progetto politico. Voleva, infatti, dire anche individuare la strada giusta per opporsi all’affermazione inconsulta di corporativismi e particolarismi che le nuove condizioni sociali ineluttabilmente sollecitavano. La frantumazione della coscienza e, con essa, della solidarietà e della disciplina sociale era un punto fondamentale dell’analisi che La Malfa operava degli aspetti più insidiosi della nuova società. E la sua era, chiaramente, un’analisi politica. Ma sullo sfondo di essa si sarebbe potuto leggere in controluce la tematica contemporanea della “folla solitaria”, del grande isolamento, della solitudine angosciata e, proprio perciò, prevaricatrice e violenta a cui portava la rottura di antichi canali e vincoli della solidarietà sociale, la crisi dei valori a cui la fase più recente della società industriale sembrava mettere capo irrimediabilmente. Solo che in La Malfa lo spirito di concretezza e l’angolazione intellettuale del politico tagliavano queste implicazioni fuori dalla considerazione immediata e le lasciavano alla riflessione di studiosi e di moralisti, che nel campo liberal-democratico certamente non mancarono, ma non ebbero sulla grande opinione pubblica un’incidenza pari all’importanza dei temi da essi affrontati.
Austerità e “politica dei redditi” furono, così, le risposte lamalfiane al primo avvento in Italia della “grande società”. Esse non furono adeguatamente percepite nel loro valore interpretativo e progettuale. Negli ambienti politici furono contestate, con opposte motivazioni, sia nell’ambito del centro-sinistra che da sinistra. Negli ambienti intellettuali vennero considerate come temi di natura e di interesse squisitamente politico[2]. Anche nel dibattito culturale fu trascurata la ripresa che esse segnavano di motivi classici del pensiero democratico (ad esempio, quello mazziniano) per il forte accento che ponevano sul tema della solidarietà sociale, dei doveri come corrispettivo preciso dei diritti rivendicati, della prevalenza dell’interesse sociale su quello individuale e privato, del contenimento dei consumi come elemento di moralità oltre che come elemento di opportunità economica.
Vero è che nell’analisi lamalfiana altri elementi non trovavano un corrispettivo approfondimento. Rimase viva, in particolare, la concezione del partito come fatto sostanzialmente di élite, come minoranza illuminata che si riproponeva come modello e come leadership[3]. Lo stesso irrobustimento organizzativo del PRI negli anni (specialmente i primi) della segreteria La Malfa non modificò nel profondo la comprensione del fatto radicalmente nuovo che nella realtà italiana contemporanea era il “partito di massa”. Non era, perciò, un condizionamento dovuto a rapporti di forza particolarmente ingrati a determinare l’accentuazione di La Malfa su temi come quelli espressi da slogans quali la “coscienza critica” o le “idee chiare” rivendicate al suo partito. Era, invece, tutto il complesso di una posizione che portava ad impostare la propria presenza ed azione politica sulla linea di una marginalità condizionante, di una funzione di equilibrio o di arbitrato, di freno o di spinta nei riguardi di formazioni politiche le cui leadership non apparivano congruenti alle possibilità e alle necessità effettive proprie della vita italiana e contemporanea, mentre le loro basi sociali, per quanto estese e di massa, continuavano ad apparire più nella loro fisionomia di irreggimentazione del consenso che di ricerca e conseguimento di nuovi modi di partecipazione. Da ciò anche l’accusa, certamente superficiale, nei riguardi di La Malfa, di atteggiarsi a “suocera” della classe politica, di voler “insegnare il mestiere al PCI” o di volere non solo condizionare, ma guidare dal di fuori la DC. Era però indubbio che la strategia lamalfiana comportasse non solo l’accettazione, ma l’esaltazione del ruolo di una minoranza proiettata a svolgere una funzione determinante nei momenti culminanti e critici del processo politico-sociale. In ciò lo spirito liberale che assegnava centralità e decisività alla classe dirigente, alle sue élites e alla sua azione, si dimostrava anche in La Malfa assai vivo e assumeva, anzi, un valore caratterizzante. La collocazione professata e ricercata da La Malfa era tuttavia una collocazione di sinistra. “L’altro polo della sinistra” era una autodefinizione tra quelle a cui veniva dato maggiore rilievo. Voleva dire che, a fronte di una sinistra marxistica, classistica, autoritaria, si poneva una sinistra pluralistica e democratica capace di trascendere il gioco degli interessi e delle classi in una visione moderna, spregiudicata, e lungimirante degli “interessi generali”. Alla prima sinistra, alle sue preoccupazioni di ortodossia, al suo mito della rivoluzione, alla sua debolezza nei confronti dei condizionamenti degli interessi di classe (o presunti tali) e delle tradizioni internazionalistiche (risoltesi poi in sudditanza verso il centro internazionale del movimento), la sinistra democratica doveva opporre un discorso serrato e concreto su priorità e compatibilità di obiettivi, sulla necessità inderogabile di opzioni precise in ogni campo della vita economica e sociale, sull’impossibilità o sull’estrema dannosità di una rinunzia alle energie e alle capacità dell’iniziativa individuale e ai vantaggi di selezione e di bilanciamento propri di un’economia di mercato: iniziativa ed economia da non poter, quindi, sacrificare a nessuna petizione dottrinaria.
Nella società che si andava delineando, e che con la sua interpretazione cercava di intendere e di orientare, la tesi lamalfiana non ravvisava soltanto un fenomeno di “massificazione”. Essa poneva in forte evidenza la contemporanea prolificazione di nuovi ceti, la rottura della dicotomia dottrinaria borghesia-proletariato, l’articolazione delle grandi categorie sociali in fasce sempre più differenziate professionalmente, e anche per formazione culturale. I “ceti emergenti” costituivano, in questa ottica, non solo un punto di riferimento politico-elettorale, ma anche la preziosa conferma che il processo politico-sociale si risolveva nella perenne germinazione di nuove élites; che la stratificazione sociale della società industriale matura era destinata ad un futuro di dinamismo e non di irrigidimento dualistico; e che la società di massa dimostrava, almeno su questo piano, di non contraddire alle indicazioni del pluralismo liberale e democratico.

Giuseppe Galasso

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[1] Questa distinzione, che può apparire accademica, è, invece, fondamentale. Essa sola può far capire che la “cultura del governo” dell’area liberale e democratica fu una linea fortemente empirica e non sempre adeguatamente sostanziata degli elementi informativi e teorici che resero negli anni ’60 particolarmente forte, ad esempio, la presenza politico-culturale socialista con il suo folto impegno di giuristi e di economisti.

[2] La distinzione accademica, di cui alla nota precedente, aveva in questo giudizio la sua principale base.

[3] Si sarebbe visto in seguito l’effetto esplicito e diretto di questa permanenza nella sostanziale estraneità liberale e democratica alla ideologia della partecipazione degli anni ’70.