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Discussione: Sa fèmina acabadora

  1. #11
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    Qualcuno le chiamava sacerdotesse della morte, altri donne esperte, ma c'era chi le chiamava più sbrigativamente accabadoras. Derivazione di acabar (con il preciso significato di "finire", "portare a compimento"), il termine è pregno di una sonorità tutta spagnola ed è molto evocativo.

    La tradizione vuole che l'accadadora agisse solo in casi del tutto eccezionali, quando il moribondo, stremato e ormai agonizzante, non riusciva comunque ad abbandonare la vita. I motivi potevano essere diversi. Forse l'anima non poteva abbandonare il corpo perché ostinatamente protetta dagli amuleti e, in fondo, era proprio questo lo scopo delle pungas: quello di impedire alla morte di accostarsi. Oppure, ed era il caso più grave, chi stentava a morire si era macchiato in gioventù di uno di quei crimini che non conoscono perdono e che gli avrebbero alla fine causato una lunghissima agonia. Come già detto, poteva aver spostato una pietra di confine o, peggio ancora, bruciato un giogo. Si trattava di elementi sacri, il primo era connesso all'inviolabilità della terra, il secondo era invece una vera e propria sfida a Dio.

    L'accadadora non chiedeva alcun compenso, ma svolgeva gratuitamente la sua funzione sociale. Proveniva da un altro paese, non troppo distante da quello del moribondo. E' probabile che i tentativi di accompagnarlo nell'ultimo viaggio fossero inizialmente del tutto rituali: la donna l'avrebbe privato degli amuleti e avrebbe tolto dalla stanza tutte le icone sacre, ponendo accanto al capezzale un giogo. E solo se tutto questo non avesse avuto successo, l’accabadora sarebbe passata a maniere più drastiche: l'uso de sa mazzucca. L'abate Angius racconta si trattasse di un una corta e pesante mazza in legno, che veniva battuta contro il petto o contro il capo. Ma dei particolari si sa ben poco, dato che la donna veniva lasciata sola con il moribondo.
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 10-09-11 alle 23:34

  2. #12
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    Predefinito Rif: Eutanasia sarda...

    Citazione Originariamente Scritto da Tomás de Torquemada Visualizza Messaggio
    Questa figura è espressione di un fenomeno socio-culturale e storico e la pratica dell'eutanasia "ante Iitteram" nei piccoli paesi rurali della Sardegna e legata, non solo al rapporto che i sardi avevano con la morte, ma anche al matriarcato barbaricino. Nella cultura della comunità sarda, infatti, la donna e per tradizione dispensatrice di vita e custode dei morti. Non è mai esistita una vera paura di fronte agli ultimi istanti della vita dell'uomo. Si può anzi dire che i Sardi avessero una propria e personale gestione della morte'“' in cui la donna ha sempre giocato un ruolo fondamentale.
    Infatti, nell'ottica tradizionale, la donna presenzia alla vita e alla morte, essendo il principio femminile il reggitore del manifesto, di ciò che diviene, si alterna, muta incessantemente in un continuum senza sosta.

    La manifestazione è femminile, il ciclo continuo è femminile. Vita e morte hanno l'impronta del femminile, costituendo gli aspetti vistosi del contingente eterno.

    In una società matriarcale è logico che questi aspetti siano declinati al femminile anche nei loro estremi. Lo sarebbero comunque, lo sono comunque, poiché anche la morte, così come la nascita, riveste un femminile materno che si china sull'agonizzante come sul nuovo nato con la medesima cura.
    Anche perché la morte, a sua volta, è nascita in un "altrove".
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 20-02-10 alle 17:32
    "Così penseremo di questo mondo fluttuante: una stella all'alba; una bolla in un flusso; la luce di un lampo in una nube d'estate; una lampada tremula, un fantasma ed un sogno:"
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  3. #13
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    Predefinito Rif: Sa fèmina acabadora

    Ci si è interrogati a lungo sulla veridicità della figura dell'accabadora, ci si è spesso chiesti se non si tratti di pura leggenda, senza alcuna aderenza con la realtà. Della Marmora, nel 1826, era sicuro che queste donne fossero esistite davvero e, per quanto sottovoce, avessero operato. Ne rimase convinto almeno fino al 1839 quando, con la seconda edizione del suo Voyage en Sardaigne, smorzò toni e convinzioni, scrivendo: "Quanto all'uso di affrettare la fine dei moribondi, che si è preteso esistesse già nell'isola, dove ne sarebbero incaricate certe donne dette perciò acabadoras è veramente esistito? O come è probabilissimo, si tratta d'una semplice tradizione popolare? Non saprei deciderlo, nonostante la polemica vivace che questo argomento ha destato di recente: il fatto è che ai nostri giorni non ne esiste traccia alcuna".

    La Marmora si riferiva alle polemiche infuocate tra l'abate Vittorio Angius, osservatore oggettivo della nuda realtà che gli si proponeva, e Giuseppe Pasella che, sfruttando L'indicatore Sardo, giornale di cui era direttore, lo accusò a lungo di screditare Sardegna e sardi. Il risultato fu quello di creare confusione nell'opinione pubblica e silenzio fra i sardi, che meglio d'altri popoli sanno chiudersi a riccio e tacere.

    La confusione si attenuò quando Della Maria, sul Nuovo bollettino bibliografico sardo, riportò ciò che Monsignor Calvisi gli aveva riferito qualche tempo addietro. Calvisi, nel 1906, aveva avuto modo di assistere a Bitti alla conversazione fra la madre di un bimbo morente e una donna anziana. Gli parve chiaro che la vecchia fosse un'accabadora, dal momento che la madre, rifiutando il suo aiuto, le disse che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da solo.

    Da allora le testimonianze della presenza reale de s'accabadora aumentarono notevolmente. Padre Vassallo e il gesuita Licheri non solamente credettero fermamente all'esistenza di questa enigmatica figura, ma se ne fecero accaniti oppositori, definendo la morte aiutata dalla sua mano un gravissimo peccato mortale. Oggi le attestazioni in merito a questa figura abbondano, e soprattutto "Eutanasia ante litteram in Sardegna - Sa femmina accabadora", di Alessandro Bucarelli, medico legale all'Università di Sassari e Carlo Lubrano, anch'egli medico, o il più noto "Ho visto agire s'accabadora" di Dolores Turchi sembrano non lasciare adito a dubbi.

    E che sa femina accabadora abbia fatto parte della storia sarda non è cosa che deve sorprendere più di tanto. Non solo una figura simile è stata condivisa da quasi tutte le realtà agro pastorali tradizionali, ma soprattutto il suo scopo sociale doveva essere considerato molto importante. Diversamente l'inquisizione l'avrebbe scovata e bruciata al rogo, imputandole sicuramente qualche vizioso legame con su tentadori.


    Ultima modifica di Silvia; 14-03-11 alle 22:40

  4. #14
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    Predefinito Rif: Sa fèmina acabadora

    Massimo Centini


    II GERONTICIDIO TRA STORIA E LEGGENDA


    Dalla figura della s'accabadòra al riso sardonico

    (prima parte)




    Tutto ha inizio da una figura sospesa tra storia e leggenda, la s'accabadòra: una donna che in Sardegna entrava in scena quando si trattava di porre fine alla sofferenza dei moribondi.
    In questo nostro tempo in cui la discussione sull'eutanasia si è arrestata su posizioni inconciliabili, colpisce molto sentir parlare di una pratica che ha in sé toni drammatici in cui riverberano i riflessi del cosiddetto geronticidio, cioè l'uccisione degli anziani compiuta con modalità in alcuni casi colme di influssi rituali. Dolores Turchi, un'autorità nello studio delle tradizioni sarde, ha suggerito la possibilità che nel passato remoto la s'accabadòra fosse una sacerdotessa, insomma una figura che era ammantata di sacro e la cui attività rientrava nel "percorso" simbolico vita-morte senza attriti condiviso dalla comunità. [1] Anche se l'intervento della s'accabadòra non era limitato alle persone anziane, ma orientato verso gli agonizzanti in genere senza distinzione di età, questa pratica si pone sulla scia dell'uccisione degli anziani praticata in alcune culture. [2]

    Le connessioni tra la tradizione e la storia, che potrebbero essere utili per cercare di comprendere l'effettiva esistenza della s'accabadòra, si avvalgono di tre tipologie di fonti

    a) tradizioni sul riso sardonico (le più antiche);
    b) le cronache dei viaggiatori (XVIII-XIX secolo) in cui si descrivere la s'accabadòra;
    c) le testimonianze raccolte dagli etnografi nel corso delle indagini sul campo (fonti più recenti che costituiscono l'estremo legame con una pratica fortemente condizionata dalla leggenda).

    Tra le fonti più datate abbiamo quella di Alberto La Marmora (Voyage en Sardigne de 1819 a 1825, ou description statistique, phisique et politique, Parigi 1826) che, pur chiarendo che la pratica era considerata un falso da molti intellettuali isolani, specificava: "Io però non posso nascondere che in alcune zone dell'isola, per abbreviare la fine dei moribondi, venivano incaricate specialmente delle donne". Poco tempo dopo gli faceva eco Henry Smyth che nel libro Sketch of the present state of the island of Sardinia (Londra 1828) scriveva: "In Barbagia esisteva una straordinaria pratica di strozzare i moribondi senza speranza, questo fatto era compiuto da una donna incaricata chiamata accabadora, ma questo costume fu abolito sessantanni o settant'anni addietro dal Padre Vassallo che visitò questi paesi come missionario". Smyth faceva riferimento a Giovanni Battista Vassallo, un gesuita piemontese che nel 1725 fu inviato in Sardegna ad insegnare la lingua italiana: nelle memorie della sua esperienza sarda, in cui sono documentate pratiche non di rado intrise di autentico paganesimo, non vi sono però riferimenti alla s'accabadòra. Questa inquietante figura, nella prima metà del XIX secolo trovò anche una collocazione nella narrativa, determinando reazioni da parte di chi in quell'adattamento letterario vedeva un modo per porre in rilievo una sorta di arcaismo dominante le tradizioni locali.




    All'esterno dell'ambito eminentemente letterario-narrativo, in quel periodo anche l'indagine storica ebbe modo di porre in rilevo l'esistenza di una pratica per molti aspetti "primitiva". Nel 1833 Vittorio Angius pubblicò i dati raccolti sulla Sardegna nel Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna di Goffredo Casalis; alla voce "Bosa" il ricercatore inserì una precisa notizia sulla s'accabadòra: "donnicciuole, che troncassero l'agonia d'un moribondo, e abbreviassero la morte dando loro o sul petto o sulla coppa con un corto mazzello, sa mazzuca, tosto che sembrasse vana ogni speranza... La memoria di queste furie è ancora fresca in Bosa, dove sostengono alcuni essere solamente intorno a mezzo il secolo XVIII cessata cotanta barbarie, sarebbe riferito da persone di molta etade e di autorità debba allontanarla ancor più dai nostri tempi".

    Sull'etimologia del termine s'accabadòra non ci sarebbero incertezze: "Angius indica in cabu/capo la radice del verbo accabbàre. Anche Wagner propone, (nel suo fondamentale Dizionario Etimologico Sardo) akkab(b)are (dalla radice kabu/fine) ma col significato di finire, terminare, dallo spagnolo acabar/ concludere, condurre a capo, finire. In sardo il verbo ha gli stessi significati dell'acabar spagnolo. In sardo l'aggettivo akkabbadu-akkabbada, si usa per indicare una cosa che è stata finita, ultimata, ma è anche usato per le persone o gli animali che sono stati uccisi o meglio che hanno ricevuto il colpo di grazia est istadu akkabbadu. Il canonico G. Spano, nel suo Vocabolario Sardo-Italiano (1851) dava del termine accabbadoras solo la variante femminile, in italiano ucciditrici, uccidenti. [3]

    Vi è, inoltre, tutta una serie di elementi di "contorno" che tenderebbero a rendere credibile l'effettivo svolgimento di quella pratica che ai nostri occhi risulta poco etica e incivile. Ad esempio, il moribondo, quando si trovava in una fase di estrema sofferenza, ma comunque non prossimo alla dipartita, veniva privato dei simboli religiosi (medagliette, scapolari, ecc.): questo era il segno del prossimo arrivo della s'accabadòra. L'eliminazione dei simboli cristiani aveva la funzione di non porre così alcun ostacolo all'azione della s'accabadòra. In alcune località la "spogliazione" doveva essere accompagnata da un'identica azione nella stanza in cui si trovava l'agonizzante: erano infatti tolte le immagini sacre, i crocifissi e altri elementi riferibili al Cristianesimo.


    La simbologia caratterizzante la "preparazione" all'intervento della s'accabadòra prevedeva delle varianti locali, ma che nella sostanza erano comunque orientate ad accelerare la fine del morente. Nel macrocosmo simbolico caratterizzante questa forma di eutanasia, va posto il giogo: che era collocato nei pressi del morente per abbreviare le sue sofferenze. Il giogo, il cui ruolo nel linguaggio dei riti legati all'agricoltura e alla fertilità è ben noto, era posto sotto la testa del morente e poteva avere la funzione di facilitare l'azione della s'accabadòra che lo utilizzava per rompere l'osso del collo del morente. Così l'azione diretta a procurare la morte e il meccanismo dei simboli convivevano al fine di rendere meno paradossale l'azione della donna che doveva uccidere. L'eccessivo prolungarsi dell'agonia era popolarmente indicata come effetto dei gravi peccati (la distruzione o il furto di un giogo era uno di questi): ne consegue che l'intervento della donna portatrice di morte assumeva una funzione liberatoria e quindi faceva sì che la stessa s'accabadòra risultasse accettabile nella comunità.

    La s'accabadòra non era quindi una donna malvagia? La risposta deve necessariamente tener conto del relativismo implicito nella domanda: infatti, il suo intervento era sempre subordinato alle richieste dei parenti del morente e quindi vi era una complicità che, in parte, assolveva la portatrice di morte proprio perché la sua azione non era considerata un omicidio, ma intervento atto a ridurre le sofferenze a chi, oltretutto, aveva delle colpe sulla coscienza rivelate appunto dallo smisurato prolungarsi dell'agonia. Praticamente assenti le informazioni sulla collocazione della s'accabadòra nella società al di fuori della sua particolare attività. Mancando infatti riferimenti anagrafici precisi sulle persone praticanti quella primitiva forma di eutanasia, è piuttosto difficile farsi un'idea precisa. Dalle poche notizie che è possibile raccogliere, traspare comunque che la s'accabadòra era una figura contrassegnata da notevole alterità, che viveva ai margini della società nella quale era metabolizzata solo in funzione del suo ruolo, ma distaccata sul piano della quotidianità.


    Massimo Centini – da Il Giornale di Misteri n. 459 (aprile 2010)

    (immagini dal cortometraggio di Paolo Sechi "Sa femina accabadora, in pentitentzia de morte")

    continua…

  5. #15
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    Predefinito Rif: Sa fèmina acabadora

    Citazione Originariamente Scritto da Silvia Visualizza Messaggio
    [La s'accabadòra non era quindi una donna malvagia? ]
    Ma certamente no, come dimostra questo interessantissimo articolo.
    Si tratta sicuramente di una figura particolare, investita di un compito altrettanto particolare, di un ruolo ritenuto indispensabile in una società arcaica allorchè le speranze di vita si stanno inesorabilmente spegnendo. Impossibile oggi comprenderne ed accettarne la funzione alla luce dei principii cristiani della società, secondo i quali si perpetrava semplicemente un omicidio, giudizio lontano da ogni considerazione specifica ed analisi particolare.. Ecco dunque il perché simbolico dell’allontanamento dei simboli cristiani dal morente. Con quei simboli si allontanava tutto un mondo, tutta una visione delle cose e un orientamento radicalmente differente da quello del contesto reale d’azione.

    Vale la pena notare il parallelismo implicito ma non espresso con le convinzioni legate al concetto di karma nell’antico oriente. L’azione vale ed ha riscontro causa-effetto in base all’intenzione di colui che la compie: se l’intenzione è nobile e pietosa i risvolti karmici avranno la medesima colorazione. Se l’azione è compiuta in modo del tutto impersonale, scevra da coinvolgimenti emotivi di sorta, l’azione non produrrà karma. Se l’azione ha l’avallo del consenziente o dell’intera società ed è normata essa diviene in qualche modo rituale e non dà luogo a nefaste conseguenze. Ricordiamo a tale proposito che nell’antichità il boia aveva il cappuccio per non essere riconosciuto. Esso era al tempo stesso il riconosciuto braccio punitivo della società cui era delegato l’esercizio della pena comminata e l’impersonale esecutore che non doveva avere un volto in quanto rappresentava tutti (riconoscimento sancito a volte con l’offerta di una moneta da parte del condannato) e l’uomo il cui volto nemmeno per sbaglio doveva restare nella mente del condannato come riconoscibile icona di un “nemico” che lo conduceva a morte suscitando un rancore che s’impietriva nell’atto della morte con tutte le conseguenze sottili del caso.

    Ora, la funzione dell’accabadora è in qualche modo assimilabile a questa figura ferale, con la differenza che qui essa giunge per lenire il dolore di una prolungata agonia: non uccide per condanna bensì per pietas, ma la sua figura è emanazione della pietas sociale del contesto nel quale essa si muove. E’ in qualche modo una funzione rituale e per questo si comprende come essa potesse apparire rivestente una funzione sacerdotale, al di fuori da lla vita ordinaria e collocata anche fisicamente al di fuori della società.

    Veramente interessante. Anche il fatto che fosse sempre una donna. Come alcuni post sopra ho notato.
    "Così penseremo di questo mondo fluttuante: una stella all'alba; una bolla in un flusso; la luce di un lampo in una nube d'estate; una lampada tremula, un fantasma ed un sogno:"
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  6. #16
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    Predefinito Rif: Sa fèmina acabadora

    Citazione Originariamente Scritto da primahyadum Visualizza Messaggio
    Ma certamente no, come dimostra questo interessantissimo articolo.
    Si tratta sicuramente di una figura particolare, investita di un compito altrettanto particolare, di un ruolo ritenuto indispensabile in una società arcaica allorchè le speranze di vita si stanno inesorabilmente spegnendo. Impossibile oggi comprenderne ed accettarne la funzione alla luce dei principii cristiani della società, secondo i quali si perpetrava semplicemente un omicidio, giudizio lontano da ogni considerazione specifica ed analisi particolare.. Ecco dunque il perché simbolico dell’allontanamento dei simboli cristiani dal morente. Con quei simboli si allontanava tutto un mondo, tutta una visione delle cose e un orientamento radicalmente differente da quello del contesto reale d’azione.
    Esatto. Anche se questa pratica è tuttora avvolta nel mistero, si è ipotizzato che l'accabadura resistesse soprattutto nelle famiglie che, pur con etichetta cristiana, ancora praticavano rituali pagani. E nel mondo precristiano non c'era vita "a tutti i costi", né c'erano motivi accettabili per perpetuare la disarmonia di una sofferenza senza soluzione.

  7. #17
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    Predefinito Rif: Sa fèmina acabadora

    Massimo Centini

    II GERONTICIDIO TRA STORIA E LEGGENDA


    Dalla figura della s'accabadòra al riso sardonico

    (seconda parte)


    Alla tradizione della s'accabadora si lega trasversalmente il tema del riso sardonico. L'aggettivo "sardonico" è rinvenibile per la prima volta nell'Odissea (XX, 302) ed è stato sempre oggetto di discussione, in particolare per quanto riguarda il suo legame con la Sardegna. Due sostanzialmente i campi di applicazione:

    a) riso caratterizzante gli anziani uccisi secondo l'antica pratica del geronticidio (le cui applicazioni sono diversamente motivate); I
    b) riso determinato dall'ingestione di erbe velenose (la cosiddetta "erba sardonica", forse l'Oenanthe crocata o il Rannunculus sceleratus di cui abbiamo notizia in numerose fonti antiche).

    Per quanto riguarda il riso sardonico le fonti non mancano: un frammento attribuito a Timeo indicherebbe che in Sardegna gli anziani di settant'anni erano uccisi a bastonate e sassate dai figli e quindi gettati in un fossato: "Nel perire i vecchi ridevano di un riso che per la crudele situazione e l'ambiente in cui si svolgeva il rituale, veniva chiamato sardonio; secondo una diversa lettura a ridere erano invece gli uccisori, mentre i vecchi venivano sacrificati a Crono (...) Altre varianti imputano la soppressione dei settantenni non ai Sardi, ma ai Cartaginesi coloni in Sardegna". [4] Qualcuno ha voluto vederne un riferimento nella nota maschera fittile rinvenuta a San Sperate (CA) caratterizzata da una morfologia facciale che si muta in una sorta di smorfia agghiacciante, per certi aspetti simile al riso. Indicativa in questo senso la versione fornita da un informatore locale: un giovane che portava il vecchio padre sulle spalle verso un precipizio dal quale intendeva farlo precipitare, fu colpito dal continuo ridere dell'anziano. Quando chiese lumi su quell'atteggiamento, il padre disse che rideva perché pensava a quando suo figlio si sarebbe trovato nella sua posizione. Da quel giorno la pratica del geronticidio fu interrotta...




    Le fonti antiche non lesinano sulle notizie: così Timeo di Taormina (IV secolo a.C.) nelle sue Storie: "In Sardegna erano soliti ridere i vecchi che venivano spinti con bastoni in una fossa, nella quale venivano sepolti. Per questo alcuni sostengono che ci sia questo detto, poiché ridono di un riso triste". Anche Demone, contemporaneo di Timeo, si soffermò sull'argomento: "Riso sardonico: proverbio di quelli che muoiono ridendo; ciò perché i Sardi immolavano gli schiavi più belli e i vecchi ottuagenari a Saturno, i quali ridevano mostrando di fronte alla morte la propria forza". È stato anche suggerito un legame con la divinità fenicia Sarda-Sandan: il concetto di riso sarebbe infatti determinato dal sacrificio spontaneo di quanti si immolavano nei fuochi accesi in onore di questo dio.

    Il legame tra riso sardonico e s'accabadòra venne sostenuta dall'Angius, che però sottolineava la variazione del processo: mentre ab origine quel ghigno era una sorta di icona per simbolizzare le pratiche di geronticidio, in seguito perse il proprio effettivo legame con la storia definendosi come fossile culturale. La pratica dell'uccisione dei vecchi si modifica divenendo un'esperienza riservata esclusivamente ai moribondi. In sostanza, la situazione generale rimane vaga e mentre propone alcuni accenni comparitivisti con gli echi di geronticidio suggeriti dalla ricerca etnologica, si rivela nell'insieme una pratica che non crediamo sia un errore definire "straordinaria", in particolare quella legata alla s'accabadòra, che come abbiamo visto alcuni consideravano un antico retaggio dell'uccisione rituale dei vecchi.


    NOTE

    1. D. Turchi, Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton, Roma 2001, p. 165
    2. G. Dumézil, "Quelques cas de liquidation des vieillards: historie et survicances" in Revue International des Droits de l'Antiquitè, 1950, v. IV, pp. 447-454
    3. M. G. Cabiddu, "Akkabbadoras: riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna" in Quaderni Bolotanesi, 1989,15, p. 349
    4. I. Didu, I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia , Scuola Sarda, Cagliari 2003, pp. 22-23


    Massimo Centini – da Il Giornale di Misteri n. 459 (aprile 2010)

  8. #18
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    Predefinito Re: Sa fèmina acabadora

    Una galoppata notturna per portare la morte. È la corsa della femina agabbadori, consolatrice dei moribondi in Gallura. La donna che batteva le campagne come un'ombra correva lungo i sentieri vicini al mare; arrivata nella casa dove la malattia stava irrimediabilmente consumando qualcuno, con un colpo preciso di martello al capo poneva fine a tutte le sofferenze. Chiamata dai familiari del moribondo, tollerata dalle istituzioni e dalla Chiesa, rimossa dalla coscienza e dalla tradizione gallurese.

    A Luras, nel museo etnografico "Galluras" c'è l'ultimo mazzolu, così si chiama in gallurese il martello della femina agabbadori. Lo custodisce gelosamente Pier Giacomo Pala, ideatore e proprietario del museo: ha trovato il martello in uno stazzo. Un oggetto che certo non tranquillizza. Non è costruito a regola d'arte, più che altro è un ramo di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, con un manico che permette un'impugnatura sicura e precisa. Lo strumento che amministrava la morte negli stazzi.

    Suggestione orribile, eppure affascina la figura della donna che sino alla fine dell'Ottocento ha aiutato i malati ad evitare una lunga agonia. «Nel museo - è Pala a parlare - abbiamo anche altri oggetti rituali che accompagnavano le ultime ore dei malati terminali. Come ad esempio lu iualeddu, un piccolo giogo in legno che veniva messo sotto il cuscino del moribondo». La riproduzione del giogo simboleggiava la fine della vita. Staccato dai buoi (la forza che trainava l'aratro e il carro), rappresentava il corpo dell'ammalato, privo di vigore e incapace ormai di assolvere al suo compito. Ma se lu iualeddu aveva un valore simbolico, il martello della femina agabbadori è un oggetto funzionale e soprattutto, sino alla seconda metà dell'Ottocento, funzionante.





    Franco Fresi, studioso delle tradizioni della Gallura, ha scritto pagine interessanti sul martello e conosce bene l'argomento. Dice: «Ho avuto la possibilità di parlare direttamente con il nipote di una donna che aveva aiutato i malati a morire. Un uomo molto anziano che aveva superato i 100 anni. Mi ha raccontato di questa eutanasia praticata in Gallura. Un'usanza che oggi può apparire terribile ma che negli stazzi, lontani molti giorni di cavallo da un medico, serviva ad evitare le sofferenze e aveva un suo significato. Il fatto che fosse affidata ad una donna significa che aveva una importanza notevole».

    Le cose andavano così. «La femina agabbadori arrivava nello stazzo di notte, sempre. Ai familiari che le stavano di fronte e che l'avevano chiamata diceva questa frase: "Deu ci sia" (Dio sia qui). Poi faceva uscire dalla stanza del moribondo tutti i presenti. La donna assestava il colpo di mazzolu provocando la morte del malato. Quasi sempre il colpo era diretto alla fronte. Tanto è vero che la parola agabbadori deriva dallo spagnolo acabar, terminare, ma alla lettera "dare sul capo". La femina agabbadori andava via dallo stazzo senza chiedere niente, accompagnata dalla gratitudine dei familiari del malato».

    L'argomento del martello è stato trattato più volte da antropologi e studiosi di tradizioni popolari. Uno dei primi a parlarne è Vittorio Angius nel 1832; ma Zenodoto cita Eschilo che parla delle usanze di una colonia cartaginese in Sardegna: usanze che prevedono il sacrificio degli anziani. Giovanni Lilliu parla della rupe babaieca a Gairo, dove venivano soppressi gli anziani e i malati.

    La pratica dell'eutanasia "rurale" è legata al rapporto che si aveva in Sardegna con la morte. Dell'argomento si è occupato Alessandro Bucarelli, cagliaritano, ordinario di medicina legale dell'Università di Sassari, aprendo ad Alghero, un anno fa, un convegno di medicina necroscopica. «Sì - spiega il docente - in quell'occasione dovevo spiegare perché fosse stata scelta la Sardegna come sede del convegno. Nell'isola storicamente c'è stato un rapporto tutto particolare dell'uomo con la morte. Un atteggiamento che può essere definito realistico. Non è mai esistito nella cultura della comunità sarda un terrore vero e proprio rispetto all'ultimo atto della vita di un uomo. Anzi si può parlare quasi di una gestione della morte. Il fenomeno della femina agabbadori, o in logudorese acabbadora, va inquadrato in questo modo: i familiari si adoperano per evitare che il malato soffra pene atroci e mettono fine alla sua esistenza».


    Andrea Busia - Unione Sarda

    Femina Agabbadora

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    Predefinito Re: Sa fèmina acabadora

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    Predefinito Re: Sa fèmina acabadora

    S’ACCABADORA



    Nient'altro in Sardegna è coperto da un'omertà più tignosa. Il rituale – che cominciava quando i familiari del moribondo avvisavano la femina accabbadora e finiva quando questa lasciava la casa del lutto – veniva fatto fino agli inizi del Novecento in Gallura e in Barbagia, ma ancora oggi è praticamente impossibile conoscere i nomi delle sacerdotesse della morte.

    Non ci è riuscito neanche Franco Fresi, scrittore e studioso di tradizioni popolari, che alla fine degli anni Settanta intervistò il nipote dell'ultima femina accabbadora della Gallura. "Era un'uomo che aveva quasi cent'anni e viveva in uno stazzo, su un'altura vicino al mare" - racconta . "Mia nonna era l'ultima di quelle donne che portavano consolazione ai malati che desideravano morire e conforto alle loro famiglie. La chiamavano perchè era decisa e forte: non andava volentieri, ma sapeva di dover fare un'opera buona. Non ti voglio dire come si chiamava" - mi avvertì il vecchio - "però ti posso dire che veniva chiamata Cunsuleddha, proprio perchè era una consolatrice". Il vecchio racconta che sua nonna, "nonostante la carità che fece per tutta la vita, alla fine soffrì molto per questa sua attività. Ne abbiamo sofferto tutti in famiglia. E proprio per questo una mia nipote si è fatta suora per espiare".

    Quell'uomo, spiega Franco Fresi, sentiva ancora tutto il peso di quella eredità. Quando gli chiesi se potevo vedere il martello lui non fece una piega. Nonostante l'età salì come uno scoiattolo su una scala a pioli, arrivato in cima scoperchiò alcune tegole e porto giù una pesante mazzuola di legno coperta di fuliggine. Ci soffiò sopra e, svanita la nuvoletta, mi colpì la lucentezza del martelletto, come quella di un oggetto levigato dall'uso. Purtroppo ebbi la cattiva idea di tentare di fotografarlo. Il vecchio si infuriò e lo lanciò lontano, in fondo alla vallata. Sono tornato diverse volte , per tentare di recuperare la mazzuola. tutto inutile, forse il vecchio, che conosceva quei luoghi meglio di me, se l'era già ripresa.




    In Gallura l'ultimo rituale fu fatto a Luras, nel 1929, quando la femina accabbadora accompagnò nell'ultimo viaggio un uomo di settant'anni. La donna, oramai anziana, finì davanti al procuratore del regno, ma il caso venne presto archiviato. E' questo il fascicolo che, da anni, studenti universitari e studiosi di tradizioni popolari cercano disperatamente tra i faldoni polverosì dell'archivio del tribunale di Tempio Pausania. Tra quelle carte ci dovrebbe essere anche il verbale dei carabinieri che, dopo aver interrogato i familiari del morto e diversi paesani, scrissero: E' appurato che i parenti del malato hanno datto il loro consenso

    A Orgosolo, invece, l'episodio più recente in assoluto: si sa che avvenne nel 1952, il resto è coperto dal silenzio più ostinato. Nel Nuorese, comunque erano di Ottana le accabbadoras più ricercate. Venivano chiamate in tutti i paesi del circondario e loro - femmine alte, magre, il colorito giallo per la malaria - arrivavano e salutavano con un cenno del capo. Formule e gesti antichi, sempre uguali. Deu ci siada, sussurrava l'accabbadora. Che Dio sia qui. Arrivava sempre di notte e, dopo essersi assicurata che tutti erano d'accordo, veniva subito accompagnata al capezzale del moribondo. Con un gesto mandava via i parenti, chiudeva la porta, si faceva il segno della croce e, afferrato il martello che nascondeva sotto lo scialle, con un solo colpo sulla nuca del malato finiva il suo compito. Riapriva la porta, annunciava che quella era la casa del lutto, e andava via...



 

 
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