Massimo Centini
II GERONTICIDIO TRA STORIA E LEGGENDA
Dalla figura della s'accabadòra al riso sardonico
(prima parte)
Tutto ha inizio da una figura sospesa tra storia e leggenda, la s'accabadòra: una donna che in Sardegna entrava in scena quando si trattava di porre fine alla sofferenza dei moribondi.
In questo nostro tempo in cui la discussione sull'eutanasia si è arrestata su posizioni inconciliabili, colpisce molto sentir parlare di una pratica che ha in sé toni drammatici in cui riverberano i riflessi del cosiddetto geronticidio, cioè l'uccisione degli anziani compiuta con modalità in alcuni casi colme di influssi rituali. Dolores Turchi, un'autorità nello studio delle tradizioni sarde, ha suggerito la possibilità che nel passato remoto la s'accabadòra fosse una sacerdotessa, insomma una figura che era ammantata di sacro e la cui attività rientrava nel "percorso" simbolico vita-morte senza attriti condiviso dalla comunità. [1] Anche se l'intervento della s'accabadòra non era limitato alle persone anziane, ma orientato verso gli agonizzanti in genere senza distinzione di età, questa pratica si pone sulla scia dell'uccisione degli anziani praticata in alcune culture. [2]
Le connessioni tra la tradizione e la storia, che potrebbero essere utili per cercare di comprendere l'effettiva esistenza della s'accabadòra, si avvalgono di tre tipologie di fonti
a) tradizioni sul riso sardonico (le più antiche);
b) le cronache dei viaggiatori (XVIII-XIX secolo) in cui si descrivere la s'accabadòra;
c) le testimonianze raccolte dagli etnografi nel corso delle indagini sul campo (fonti più recenti che costituiscono l'estremo legame con una pratica fortemente condizionata dalla leggenda).
Tra le fonti più datate abbiamo quella di Alberto La Marmora (Voyage en Sardigne de 1819 a 1825, ou description statistique, phisique et politique, Parigi 1826) che, pur chiarendo che la pratica era considerata un falso da molti intellettuali isolani, specificava: "Io però non posso nascondere che in alcune zone dell'isola, per abbreviare la fine dei moribondi, venivano incaricate specialmente delle donne". Poco tempo dopo gli faceva eco Henry Smyth che nel libro Sketch of the present state of the island of Sardinia (Londra 1828) scriveva: "In Barbagia esisteva una straordinaria pratica di strozzare i moribondi senza speranza, questo fatto era compiuto da una donna incaricata chiamata accabadora, ma questo costume fu abolito sessantanni o settant'anni addietro dal Padre Vassallo che visitò questi paesi come missionario". Smyth faceva riferimento a Giovanni Battista Vassallo, un gesuita piemontese che nel 1725 fu inviato in Sardegna ad insegnare la lingua italiana: nelle memorie della sua esperienza sarda, in cui sono documentate pratiche non di rado intrise di autentico paganesimo, non vi sono però riferimenti alla s'accabadòra. Questa inquietante figura, nella prima metà del XIX secolo trovò anche una collocazione nella narrativa, determinando reazioni da parte di chi in quell'adattamento letterario vedeva un modo per porre in rilievo una sorta di arcaismo dominante le tradizioni locali.
All'esterno dell'ambito eminentemente letterario-narrativo, in quel periodo anche l'indagine storica ebbe modo di porre in rilevo l'esistenza di una pratica per molti aspetti "primitiva". Nel 1833 Vittorio Angius pubblicò i dati raccolti sulla Sardegna nel Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna di Goffredo Casalis; alla voce "Bosa" il ricercatore inserì una precisa notizia sulla s'accabadòra: "donnicciuole, che troncassero l'agonia d'un moribondo, e abbreviassero la morte dando loro o sul petto o sulla coppa con un corto mazzello, sa mazzuca, tosto che sembrasse vana ogni speranza... La memoria di queste furie è ancora fresca in Bosa, dove sostengono alcuni essere solamente intorno a mezzo il secolo XVIII cessata cotanta barbarie, sarebbe riferito da persone di molta etade e di autorità debba allontanarla ancor più dai nostri tempi".
Sull'etimologia del termine s'accabadòra non ci sarebbero incertezze: "Angius indica in cabu/capo la radice del verbo accabbàre. Anche Wagner propone, (nel suo fondamentale Dizionario Etimologico Sardo) akkab(b)are (dalla radice kabu/fine) ma col significato di finire, terminare, dallo spagnolo acabar/ concludere, condurre a capo, finire. In sardo il verbo ha gli stessi significati dell'acabar spagnolo. In sardo l'aggettivo akkabbadu-akkabbada, si usa per indicare una cosa che è stata finita, ultimata, ma è anche usato per le persone o gli animali che sono stati uccisi o meglio che hanno ricevuto il colpo di grazia est istadu akkabbadu. Il canonico G. Spano, nel suo Vocabolario Sardo-Italiano (1851) dava del termine accabbadoras solo la variante femminile, in italiano ucciditrici, uccidenti. [3]
Vi è, inoltre, tutta una serie di elementi di "contorno" che tenderebbero a rendere credibile l'effettivo svolgimento di quella pratica che ai nostri occhi risulta poco etica e incivile. Ad esempio, il moribondo, quando si trovava in una fase di estrema sofferenza, ma comunque non prossimo alla dipartita, veniva privato dei simboli religiosi (medagliette, scapolari, ecc.): questo era il segno del prossimo arrivo della s'accabadòra. L'eliminazione dei simboli cristiani aveva la funzione di non porre così alcun ostacolo all'azione della s'accabadòra. In alcune località la "spogliazione" doveva essere accompagnata da un'identica azione nella stanza in cui si trovava l'agonizzante: erano infatti tolte le immagini sacre, i crocifissi e altri elementi riferibili al Cristianesimo.
La simbologia caratterizzante la "preparazione" all'intervento della s'accabadòra prevedeva delle varianti locali, ma che nella sostanza erano comunque orientate ad accelerare la fine del morente. Nel macrocosmo simbolico caratterizzante questa forma di eutanasia, va posto il giogo: che era collocato nei pressi del morente per abbreviare le sue sofferenze. Il giogo, il cui ruolo nel linguaggio dei riti legati all'agricoltura e alla fertilità è ben noto, era posto sotto la testa del morente e poteva avere la funzione di facilitare l'azione della s'accabadòra che lo utilizzava per rompere l'osso del collo del morente. Così l'azione diretta a procurare la morte e il meccanismo dei simboli convivevano al fine di rendere meno paradossale l'azione della donna che doveva uccidere. L'eccessivo prolungarsi dell'agonia era popolarmente indicata come effetto dei gravi peccati (la distruzione o il furto di un giogo era uno di questi): ne consegue che l'intervento della donna portatrice di morte assumeva una funzione liberatoria e quindi faceva sì che la stessa s'accabadòra risultasse accettabile nella comunità.
La s'accabadòra non era quindi una donna malvagia? La risposta deve necessariamente tener conto del relativismo implicito nella domanda: infatti, il suo intervento era sempre subordinato alle richieste dei parenti del morente e quindi vi era una complicità che, in parte, assolveva la portatrice di morte proprio perché la sua azione non era considerata un omicidio, ma intervento atto a ridurre le sofferenze a chi, oltretutto, aveva delle colpe sulla coscienza rivelate appunto dallo smisurato prolungarsi dell'agonia. Praticamente assenti le informazioni sulla collocazione della s'accabadòra nella società al di fuori della sua particolare attività. Mancando infatti riferimenti anagrafici precisi sulle persone praticanti quella primitiva forma di eutanasia, è piuttosto difficile farsi un'idea precisa. Dalle poche notizie che è possibile raccogliere, traspare comunque che la s'accabadòra era una figura contrassegnata da notevole alterità, che viveva ai margini della società nella quale era metabolizzata solo in funzione del suo ruolo, ma distaccata sul piano della quotidianità.
Massimo Centini – da Il Giornale di Misteri n. 459 (aprile 2010)
(immagini dal cortometraggio di Paolo Sechi "Sa femina accabadora, in pentitentzia de morte")
continua…