di Adolfo Battaglia – Da A. Battaglia, “Né un soldo né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica”, il Mulino, Bologna 2015, pp, 169-175.
Fumi e furori provenienti dal Sessantotto furono all’origine dell’ulteriore incrinatura tra le due forze laiche più caratterizzate. Da una parte il Partito azionista-repubblicano di La Malfa, di ispirazione analoga al Partito radicale di Pannunzio[1]. Dall’altra il gruppo dei giovani neoradicali capeggiati da Marco Pannella, che allo scioglimento del loro partito nel 1963 ne raccolsero il nome e si proposero come forza strutturale di opposizione alle arretratezze del sistema italiano.
I “nuovi radicali”[2] erano nostri vecchi amici. Nelle università avevamo fatto battaglie comuni, avevamo gli stessi avversari, i riferimenti culturali non erano differenti. Il loro rifiuto della scelta per i socialisti ci univa su un punto essenziale: la necessità di una salda posizione terza, tra forze d’ispirazione marxista e forze cattoliche. Fu un peccato che i neoradicali preferissero invece dirigersi verso le tematiche baluginate in quel tempo a opera di una neosinistra occidentale molto aggressiva e poco riflessiva: il pacifismo, l’antimilitarismo, il disarmo nucleare unilaterale, cose non solo dubbie ma di pregnanza politica scarsa. Al loro congresso di rifondazione, nel 1967, i radicali decisero bensì l’integrazione di quei temi: scelsero tesi programmatiche importanti – diritti civili, condizione della donna, obiezione di coscienza, pacifismo e federalismo – ma altrettanto lontane dalla possibilità di trasformare un paese tanto in deficit di riforma come l’Italia.
Il progetto neoradicale guidato da Pannella era, in breve, assai diverso da quello repubblicano. Non mirava a modificare l’equilibrio politico fondato sul partito moderato cattolico, condizione prima della riforma della società, ma a colpire specifici aspetti arretrati dell’ordinamento giuridico-istituzionale. Non coglieva i punti centrali della condizione del paese: assetto internazionale, urgenza di affrontare i nodi della condizione finanziaria ed economico-sociale, sistema bloccato. Forniva certo alla cultura democratico-liberale alcuni contenuti nuovi, ma nello stesso tempo indeboliva il progetto di riequilibrio politico che restava il cuore del problema italiano. Anche l’apporto dato da Teodori alla elaborazione radicale, sulla base della sua esperienza americana[3], andava nella stessa direzione. E i neoradicali in verità fecero un certo numero di cose buone, alcune notevoli (tra l’altro la difesa di fronte alla magistratura di Enzo Tortora). Ma il tragitto politico della nazione non passava di là: e apporre oggi sul loro leader il “ritratto dell’artista da giovane” implica un restringimento agiografico dell’ottica in cui si guarda alla vita del paese. È certo, comunque, che in quegli anni Settanta si accentuò la divisione tra le due residue forze laiche, impegnate su questioni programmatiche del tutto diverse. E assai insidioso fu il tentativo di Pannella di ferire proprio i leader politici del mondo laico.
Comunque, quella radicale fu una obiettiva ventata di novità, alimentata da una gestualità che colpiva l’immaginario collettivo: digiuno, uomini-sandwich, bavaglio in televisione, pratica della non violenza. Comportava peraltro anche trovate dubbie o ambigue: l’iscrizione al partito dei mafiosi in carcere a Palermo, l’elezione alla Camera della pornostar Cicciolina, la difesa in Parlamento di un falso maître à penser del terrorismo, la funesta moltiplicazione dei referendum popolari. Ci si è domandati se queste iniziative non fossero manifestazioni dell’idea che il leader radicale aveva di sé, come potenza salvifica capace di purificare quanto tocca. Politicamente, però, il punto è che la presenza e la capacità decisionale all’interno delle istituzioni non sono meno importanti della mobilitazione dei limitati strati cui i radicali si dedicarono nei modi più vari.
Uno dei loro meriti fu la maturazione del problema del divorzio, tratto dall’oblio non tanto dalla proposta di legge presentata alla Camera dal deputato socialista Loris Fortuna quanto invece dalla serie di manifestazioni e di campagne organizzate dalla Lega per il divorzio, fondata da Pannella e Mauro Mellini. La proposta di nuova normativa (integrata poi da quella formulata dal liberale Antonio Baslini) implicava di per sé, peraltro, la necessità di affrontare un problema non propriamente minore: il rapporto tra lo Stato e la Chiesa, regolato dai Patti Lateranensi del 1929 e inseriti nella Costituzione repubblicana del 1948: “la difficoltà più rilevante per il governo”, la definiva il presidente del Consiglio dell’epoca[4]. E a ricordare i tratti del problema che insorse si intravedono le difficoltà che i laici incontrarono.
La Santa Sede, in effetti, si mosse vigorosamente, inviando due note della segreteria di Stato nell’agosto 1966 e nel febbraio 1967. Sostenevano la tesi della violazione dell’art. 34 del Concordato ed era inevitabile che il governo e il Parlamento rispondessero adeguatamente. Ma erano entrambi a maggioranza democratico-cristiana e fu dunque una fortuna che nel governo due laici solidi (il vicepresidente del Consiglio socialista, Pietro Nenni e il ministro della Giustizia repubblicano, Oronzo Reale) si intendessero efficacemente con due cattolici memori dell’insegnamento degasperiano: Moro e Fanfani (il quale ultimo, però, tornato nel 1974 segretario della Dc, mutò radicalmente il suo orientamento).
Reale, oltre tutto, aveva già in corso una fiera discussione con la Dc e il mondo cattolico sulla riforma del diritto di famiglia da lui preparata (che verrà approvata solo nel 1975). E chiarì immediatamente in Consiglio dei ministri che mai avrebbe in Parlamento portato un parere contrario del governo all’approvazione della legge Fortuna: implicitamente prospettando, così, la crisi del governo se si fosse voluto forzarlo con un voto di maggioranza.
Il ministro della Giustizia ebbe poi parte tanto rilevante quanto riservata nello scioglimento dei nodi cruciali della questione. Il primo fu quello esaminato a lungo, non nelle piazze delle città, appunto, ma sui tavoli dei governi. Sulla base dei patti del 1929, il Vaticano riteneva inammissibile un’iniziativa unilaterale dello Stato italiano in materia di divorzio. E indentificava nel governo della Repubblica la controparte atta a bloccarlo in Parlamento attraverso la sua maggioranza. Una terza nota vaticana sulla questione, alla fine del dicembre 1969, fu particolarmente rigida: si richiamava seccamente all’articolo del Concordato che prevedeva l’intesa tra i due Stati in casi di interpretazioni differenti della normativa. Ne fu direttamente investito Mariano Rumor che presiedeva il governo e che all’inizio del gennaio 1970 si dimise. Gli pesavano certo sia la strage di piazza Fontana del dicembre, sia i logoranti contrasti fra i due socialismi, più in generale il clima torbido del paese. Ma il suo gesto fu anche interpretato negli ambienti laici come la volontà di sottrarsi alla responsabilità di uno scontro col Vaticano su un tema per esso delicatissimo. Dopo una lunga crisi, peraltro, il governo Rumor si ricostituì; e ne seguirono gli incontri decisivi tra Santa Sede e Italia, cui parteciparono il segretario di Stato cardinale Villot e monsignor Casaroli, da un parte, e i ministri degli Esteri e della Giustizia, dall’altra.
Moro, che era un buon cattolico, chiese al collega laico, Oronzo Reale, di illustrare la posizione italiana. Nel corso della crisi di governo, era stato Fanfani a metterla a punto, nell’intento di ritrovare l’intesa con le forze laiche. La tesi era ineccepibile: nell’ordinamento costituzionale italiano l’esecutivo è vincolato al voto del Parlamento nell’interpretazione delle clausole concordatarie; e siccome il Parlamento aveva già deliberato in proposito, il governo non poteva che attenersi al suo giudizio. Ciò che invece il governo poteva fare (detto sottovoce) era l’accelerazione della legge di attuazione dell’istituto del referendum, in modo che la normativa del divorzio potesse eventualmente essere sottoposta al voto popolare. Reale ribadì questa tesi al cardinale francese che era segretario di Stato Vaticano, il quale non sembrò particolarmente interessato a una vicenda tipicamente italiana. Si raggiunse così un “accordo sul disaccordo”: la questione sollevata dalla Santa Sede era stata respinta.
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[1] M. Pannunzio e L. Valiani, Democrazia laica, epistolario, documenti, articoli, a cura di M. Teodori, Torino, Nino Aragno, 2012.
[2] M. Teodori, P. Ignazi e A. Panebianco, I nuovi radicali, chi sono, da dove vengono, dove vanno, Milano, Mondadori, 1977.
[3] Suo è il libro pubblicato nel 1969 negli Stati Uniti a proposito della New Left, e due anni dopo tradotto in Italia: M. Teodori, La nuova sinistra americana, Milano, Feltrinelli, 1971.
[4] Cfr. M. Rumor, Memorie, 1943-1970, Venezia, Neri Pozza, 1991.