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    Predefinito 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)





    Da G. Spadolini, “Da Moro a La Malfa. Marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 9-13.


    16 marzo. Il Senato decide di chiudere entro la notte il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti, prima risposta al massacro di via Fani, all’agguato contro Aldo Moro e all’annientamento della sua scorta. Parlo alle 23 circa, in un’aula tesa, sgomenta.
    Ricordo la lunga polemica contro Moro, da sponde opposte, le accuse di “fatalismo” e di “rassegnazione”, lo snervante dibattito su una mediazione instancabile. “In realtà il massimo esponente dello scudo crociato avvertiva, e non da oggi, la dissoluzione di alcune fondamentali tavole di valore che pure avevano accompagnato la nostra evoluzione democratica; cercava di cogliere le aperture al nuovo, le assecondava, le favoriva, con l’intuito dello statista cui è concesso di guardare oltre la cronaca e oltre l’episodica, ma non si nascondeva la frana di taluni princìpi, la disgregazione di una parte del nostro tessuto sociale, l’infiltrazione di taluni fermenti eversivi verso i quali Moro non ha mai civettato, verso i quali non ha mai avuto, da democratico severo e conseguente, civetterie o indulgenze di alcun genere.
    “L’escalation di quella violenza, che rendeva indecifrabile il nostro futuro, confuso il nostro passato, precario il nostro presente, ha toccato, con l’agguato ad Aldo Moro, col rapimento dello statista, con l’assassinio dei cinque uomini della scorta, il suo acme, un acme drammatico, che non consente più neanche i paragoni, una volta d’obbligo, col Cile. Rischiamo di uscire dalla prospettiva cilena. Quello che è avvenuto a Roma supera tutti i precedenti delle società in via di destabilizzazione. Si è voluto colpire il cuore del potere politico, dopo aver investito, con la raffica degli attentati, i rappresentanti della pubblica sicurezza, i carabinieri, i magistrati, i giornalisti.
    “Quale traguardo più ambizioso si potevano porre i terroristi? Moro non è soltanto il presidente della democrazia cristiana, il partito al quale noi rivolgiamo oggi un commosso pensiero di solidarietà, nel ricordo delle battaglie comuni di questo dopoguerra, alcune delle quali recentissime e legate proprio al suo nome. No: Moro è un uomo che appartiene all’intera democrazia italiana, uno statista cattolico che è caro anche al cuore dei laici, per la sofferta comprensione della complessità della nostra storia, della sua molteplicità, della sua, talvolta, a lui non meno che a noi, impenetrabilità.
    “Protagonista della stagione del centro-sinistra, una stagione che coincise con l’allargamento di respiro della società italiana, col suo arricchimento, con la sua democratizzazione, con la più larga immissione di masse popolari nella vita dello Stato, Moro è l’unico che, in mezzo alle incertezze e spesso alle incomprensioni del suo stesso partito, ha intuito la terza fase, quella che solo da pochi mesi si è convenuto di chiamare l’ ‘emergenza’ ma di cui tanti si sono ostinati a negare l’attualità e la validità.
    “Moro non ha mai condiviso nella sua lunga battaglia politica nessuno schema di intolleranza o di manicheismo. È stato sempre l’avversario dello scontro e della lotta radicalizzata; si è battuto con influenza decisiva, anche nel corso dell’ultima crisi, per scongiurare la tentazione funesta delle elezioni anticipate, per elaborare una formula di composizione delle forze che nella storia della Repubblica hanno avuto un ruolo determinante, non importa se su posizioni diverse o anche contrapposte per anni e per decenni.
    “La risposta alla sua intelligente, ostinata, vorremmo dire inflessibile mediazione è giunta dalle bande terroristiche, che hanno alzato il segno fino alla sua persona, in vista di piegare la Repubblica, presumibilmente in coincidenza con la vicenda giudiziaria di Torino e con una perfezione tecnica agghiacciante che ricorda la recente vicenda germanica. È una risposta che la Repubblica deve raccogliere con assoluta fermezza ma anche con assoluta padronanza dei propri nervi.
    “Nessun discorso di circostanza; nessuna indulgenza alla retorica. Si è dichiarato guerra allo Stato democratico; e la sfida deve essere raccolta. Chi pensava di spaccare il paese in due sul referendum proposto per la legge Reale (una legge che l’incalzare del terrorismo rende ogni giorno più inadeguata, ma in senso opposto ai suoi detrattori) ha avuto una risposta consapevole e vorremmo dire anticipata dagli accordi di governo che il presidente del Consiglio ha riassunto nella forma abbreviata e drammatica che la gravità del momento richiedeva. Non è il caso di introdurre motivi di divisione in un paese su cui si protende l’ombra di un’aggressione armata, ormai incondizionata; il Parlamento deve apprestare nuovi strumenti di prevenzione e di difesa delle istituzioni che non consentano l’impunità finora troppe volte tollerata.
    “Vorrei ricordare ai colleghi che pochi uomini, come l’on. Moro, si sono battuti contro l’irresponsabile smantellamento dei nostri servizi segreti che ha trovato tante complicità e tanti colpevoli aiuti. Una polizia, che disponesse di un minimo di strumenti per indagare sulle origini e sulle colleganze internazionali del terrorismo, avrebbe potuto presumibilmente prevenire alcuni dei colpi che sono stati indirizzati, con insanguinato successo, a colpire i simboli del potere, giuridico, politico o morale del paese. Fautore di un’apertura alle classi più disagiate del nostro paese, nemico di ogni accigliato o rassegnato conservatorismo sociale, Moro è nel suo partito fermissimo nella difesa di una certa idea dello Stato, della democrazia, idea che non lascia nessun margine, neanche di circostanza, alla retorica permissiva degenerata poi nel terrorismo spietato di oggi.
    “Ha detto giustamente l’amico La Malfa, nell’altro ramo del Parlamento, che se nessuno può proteggere noi, come esponenti della classe politica, oltre un certo limite che i fatti del resto hanno vanificato, noi possiamo proteggere tutti con le nostre leggi. Non aver attuato, per esempio, le modifiche e le integrazioni alla legge Reale, previste nelle intese di luglio, è stato un errore, un errore grave, di cui portiamo intera, come classe politica, la responsabilità. L’aver trascinato stancamente tanti dibattiti sull’ordine pubblico, senza far seguire alle parole i fatti, ha accentuato quella tensione, quella pericolosa esasperazione dell’opinione pubblica di cui chi giri oggi per le strade di Roma avverte i segni, premonitori di una tempesta delle anime che potrebbe essa stessa abbattersi sulle nostre istituzioni: risvegliando istinti di autodifesa che anche nel mondo insegnante hanno avuto di recente talune zone di sviluppo (e il dramma della scuola italiana, una scuola che Moro ama con la sua fedeltà di docente all’antica, è sempre presente nella mente del presidente della democrazia cristiana, vittima dell’agguato terroristico).
    “Ricordo un’altra dolorosa coincidenza, proprio qui per la nostra aula di palazzo Madama. Il 15 novembre era terminato da due ore il dibattito, purtroppo abbreviato nei tempi, sull’ordine pubblico che da Torino giungeva la notizia dell’atroce ferimento di un giornalista che Moro ha sempre molto stimato, che tutti noi rimpiangiamo, nella pericolosa tendenza a tutto dimenticare che caratterizza questo nostro paese: Carlo Casalegno. Ancora Torino: ancora lo scenario delle Brigate Rosse. Qualcuno osservò allora che la mano del terrorismo non si sarebbe arrestata alla soglia dei giornalisti. Ed era stato facile anche se inascoltato profeta.
    “La Repubblica ha ancora sufficiente forza per resistere alle tendenze di disgregazione che si muovono nel suo seno, frutto anche di errori culturali che hanno avuto talvolta protezioni o indulgenze oggi purtroppo irripetibili o addirittura inconcepibili. Dobbiamo riaffermare in primo luogo il primato della ragione, contro l’ondata di un irrazionalismo dilagante che ha portato a esaltare il valore della violenza per la violenza, che ha risvegliato il clima del peggiore nazismo, quale che sia la maschera sotto la quale è contrabbandato. Se l’uomo non è più, come diceva Vauvenargues, al centro dell’universo, al centro dell’universo dei valori, noi dobbiamo ricollocare al vertice del nostro codice di vita la tolleranza, la libertà, il rispetto dell’uno per l’altro, la convivenza di tutte le fedi. In ogni momento, nella scuola, nella fabbrica, nella vita civile. Contro l’ondata della violenza e del terrorismo che mette in forse le stesse basi della Repubblica, che esige da noi, dal governo e dal Parlamento, un supremo coordinato sforzo di salvezza.
    “Credo che nessuno possa più dubitare, oggi, sulla legittimità dell’emergenza. Sia questo, almeno, un viatico per il governo che in mezzo a tante incertezze ha avviato oggi il suo cammino, circondato dalla fiducia delle forze costituzionali e assecondato dalle speranze di un paese umiliato, ferito e provato nella sua coscienza più profonda. Da oggi nulla sarà come prima”.


    Giovanni Spadolini, 16 marzo 1978.



    https://www.facebook.com/notes/giova...7540584337540/
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Camera dei Deputati - Seduta di giovedì 16 marzo 1978









    E' iscritto a parlare l’onorevole Ugo La Malfa. Ne ha facoltà.


    Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole Presidente del Consiglio, abbiamo tutti, credo, la consapevolezza di vivere l’ora più drammatica della nostra Repubblica. Dopo aver sacrificato decine di vite di cittadini che compivano il loro dovere (forze dell’ordine, magistrati, avvocati, giornalisti) queste bande di terroristi sono arrivate al vertice della nostra vita politica democratica. Con Aldo Moro essi, questi banditi, non hannocolpito soltanto il presidente della democrazia cristiana, ma hanno colpito anche un uomo che, per le sue elevate qualità morali ed intellettuali, per il suo saper guardare lontano, per saper vedere le luci e le ombre della nostra vita democratica, per aver saputo misurare il passato e prevedere l’avvenire, rappresenta appunto il vertice del nostro impegno democratico, la sostanza stessa della nostra dialettica. D’altra parte, onorevoli colleghi, pensiamoci bene: dove avrebbero potuto mirare con più efficacia le bande terroristiche? Che cosa potevano colpire più in là di quello che hanno colpito? Ci siamo resi conto di ciò? Non c’è un altro traguardo da raggiungere. Il traguardo cui si mirava per colpire lo Stato è stato raggiunto. A me pare di poter dire che c’è quasi l'espressione di un tragico dileggio nei nostri confronti; proprio una sfida sfrontata. Quasi si sconta la nostra impotenza, quasi si prevede il nostro vaniloquio. Credo che a questo occorra reagire. Guai a pronunciare discorsi di circostanza, perché questa non è una circostanza. Si è dichiarata guerra allo Stato, si è proclamata la guerra allo Stato democratico. Ma lo Stato democratico risponde con dichiarazione di guerra. E nonparlo così - come è stato detto questa mattina – perché sono stato preso dai nervi, ma perché conosco i rischi e i pericoli della vita politica. Una democrazia cui si rivolge una sfida di guerra non risponde con proclamazioni di pace. Quante volte, onorevoli colleghi, in questi giorni ho pensato a Monaco!
    Ricordate per quanti anni Monaco è stata l’emblema della debolezza e dell’impotenza della democrazia ? Ci si è riscattati da questo giudizio con milioni di morti. Ebbene, onorevoli colleghi, qualche volta ho l’impressione che stiamo vivendo una terribile Monaco interna; quasi non ci accorgiamo più di nulla. Salta l'economia, saltano le finanze, salta l’ordine pubblico, si uccidono magistrati, avvocati, poliziotti, saltano i vertici della vita democratica; e noi siamo qui a discutere della fiducia al Governo. Eun po’ poco onorevoli colleghi. La mia vecchia esperienza e la mia vecchia età mi fanno dire che nessuno può proteggere noi, anche se cittadini che fanno il loro dovere pagano la nostra protezione; nessuno può proteggere noi. E forse noi abbiamo bisogno di essere protetti? I reggitori dello Stato non hanno bisogno di essere protetti. Certo è che noi abbiamo troppo rischiato per irridere a questa minaccia. Continueremo a circolare ma se nessuno può proteggere noi, noi con le nostre leggi, possiamo proteggere tutti, e questo è il nostro dovere di legislatori (Applausi) .
    Nessuno, ripeto, può proteggere i reggitori dello Stato, ma l’ultimo dei cittadini ha diritto alla nostra protezione, e questo deve essere il nostro impegno. A situazioni di emergenza debbono corrispondere provvedimenti di emergenza; altrimenti, questa emergenza finisce per diventare nient’altro che un luogo comune, e non serve che a riempirci la bocca.
    Onorevole Presidente del Consiglio, noi voteremo la fiducia al suo Governo, ma nel contempo la preghiamo, in un momento così grave, così difficile e così tormentato della nostra vita democratica, in un momento in cui il mondo interoguarda a noi ed in cui abbiamo vista allontanare da noi una delle più alte figure della nostra vita democratica e - consentitemi di dire - un amico personale, la preghiamo, dicevo, onorevole Presidente del Consiglio, di riunire i segretari dei partiti per trovare il modo di fare quel che è necessario, perché i cittadini hanno diritto alla nostra protezione e devono sentirci presenti. Facciamo alfine il nostro dovere, con fermezza, con autorità, con determinazione.


    (Vivi applausi dei deputati del gruppo repubblicano, al centro e a sinistra).


    https://www.facebook.com/notes/ugo-l...8567161632284/
    Ultima modifica di Frescobaldi; 16-03-18 alle 14:48
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  3. #3
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Ripensando un decennio di storia italiana (1978)


    Da G. Spadolini, “Da Moro a La Malfa. Marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 14-18.

    “È difficile dire che cosa accadrà. L’avvenire non è più nelle nostre mani”. È una frase che ci aveva particolarmente colpito in uno degli ultimi discorsi di Aldo Moro, proprio nel pieno della complessa e tormentosa crisi di governo che la sua sottigliezza “demiurgica” era riuscita a comporre alla fine, senza rompere l’unità del proprio partito, senza spezzare nessuno dei delicati equilibri democratici del paese. Ed è una frase che, nei commenti affrettati e superficiali di una certa stampa, aveva rinverdito le accuse di “fatalismo” e di “rassegnazione” mosse, e non da oggi, al presidente della democrazia cristiana, bersaglio dell’agguato terroristico del 16 marzo.
    In verità quella frase nasceva da un ripensamento sofferto degli ultimi dieci anni della vita italiana, quali Moro ha vissuto in posizione talvolta di spettatore talvolta di comprimario e solo da alcuni anni di protagonista. Non dimentichiamo – per un ritratto ideale dello statista – che pochissimi “leaders” della DC erano stati accantonati e umiliati come Aldo Moro. La contestazione del ’68 non travolse solo un complesso di assetti politico-culturali ma sembrò spazzare via la forma di centro-sinistra mediatore, dialettico, in certi casi temporeggiatore, cui Moro aveva legato il suo nome e le sue spesso insondabili energie.
    Il governo Moro fu congedato, dopo le elezioni de maggio ’68, con una impassibilità che rasentava la freddezza. Ci fu solo un giornale italiano (e non importa che ricordi quale) a dedicare un articolo di fondo al bilancio del centro-sinistra moroteo, nel luglio ’68, dopo l’impennata del disimpegno socialista, dopo la frantumazione dell’alleanza fra cattolici e socialisti (un’alleanza che non sarà ristabilita più, cui seguirà la fuga in avanti della scissione socialdemocratica, con tutto quello che ne deriverà, incremento comunista compreso).
    Moro aveva guidato con saggezza e prudenza la svolta del centro-sinistra, ma sembrò esaurirsi con la consumazione della sua formula. L’appendice dorotea del centro-sinistra, coi Rumor e i Colombo, non rientrava più nella logica morotea, anticipava una capitolazione del potere politico alle centrali sindacali che sotto Moro non sarebbe stata neppure concepibile, difensore com’è, lo statista pugliese, di una certa idea dello Stato e della democrazia, tanto aperta verso il mondo del lavoro quanto rigorosa nella definizione di confini e di spazi che il trasformismo doroteo abbandonerà tranquillamente alla conquista avversaria.
    1968-1973. Sono gli anni in cui il peso di Aldo Moro è assai scarso in un partito travagliato, che rischia di perdere la “leadership” politica nonostante l’abile mediazione di un Arnaldo Forlani, un democristiano cui non sono estranei tratti della sensibilità o della mentalità dello stesso Moro. È il periodo in cui l’ex-presidente del Consiglio arriva alle soglie della presidenza della Repubblica, ritirando il suo nome non appena intuisce che possa spaccare la DC (l’ “anti-Gronchi” in questo caso). È il periodo in cui l’apertura problematica, e talvolta non priva di equivoci, alle sinistre interne del partito ridà alla piccola falange morotea uno spazio di iniziativa, che evita l’isolamento o la soffocazione, ma senza garantire nessun ritorno ad un’autentica “leadership” politica.
    Nel frattempo Aldo Moro riflette: egli è uno dei democristiani più inclini alla meditazione, più estranei alle parole d’ordine, alle suggestioni dei miti o delle infatuazioni contingenti. Questo professore, che continua a fare lezione, che difende la compatibilità dell’insegnamento universitario con la milizia politica, coglie le vene della contestazione studentesca con molto maggiore finezza e immediatezza di quei ministri della pubblica istruzione che fino al ’72 si succedono in viale Trastevere, tutto concedendo senza nulla capire. Si delinea, di fronte ai nuovi movimenti della società italiana – movimenti talvolta tellurici -, una linea che potremmo chiamare di “progressismo conservatore”, di apertura al dialogo col mondo nuovo che avanza ma nella coscienza di certi irrinunciabili princìpi, nella difesa di certe inviolabili tavole di valori, che l’onda limacciosa del “rinnovamento” rischierà di investire o addirittura di travolgere.
    Nasce da questa esperienza, anche intellettuale, il nuovo orientamento di Aldo Moro: quello che lo porterà all’alleanza di palazzo Giustiniani con Fanfani, l’altro cavallo di razza, al rientro nel governo come ministro degli esteri di Rumor, alla funzione di tessitore paziente e sagace della tela del “bicolore” con La Malfa, al ruolo di anticipatore della “terza fase”, quella che avrebbe dovuto cominciare il 16 marzo nelle aule parlamentari col suo determinante sostegno e la sua essenziale presenza. L’uomo, che ha incarnato col bicolore l’ultima esperienza del centro-sinistra, almeno nei confini della maggioranza se non nei riflessi della composizione governativa, intuisce come la formula a lui tanto cara della collaborazione fra socialisti e cattolici non regga più all’impatto con la nuova, drammatica e spesso indecifrabile realtà italiana.
    Il referendum sul divorzio, cui Moro ha assistito con ostile silenzio, ha messo in moto un meccanismo, anche di secolarizzazione della società, che spezza un certo patrimonio acquisito della democrazia cristiana, innestato sullo sfondo di una società rurale e patriarcale che non c’è più. La logica coalizionista, su cui si sono rette tutte le accortezze e le astuzie di Moro come secondo Depretis, si è infranta, probabilmente in forme definitive. Il “no” socialista a qualunque governo senza i comunisti nella maggioranza obbliga la democrazia cristiana a trovare nuove formule di composizione con l’avversario storico proprio per non perdere il proprio ruolo di partito egemone, o almeno largamente compartecipe del potere (un potere che per Moro, pur tanto diverso da Andreotti, è indispensabile alla tenuta unitaria della DC).
    La “terza fase” inizia nel luglio del ’76, dopo la rottura degli equilibri tradizionali codificata dal turno elettorale del giugno, quello che Moro ha guidato come presidente del monocolore. Di nuovo lo statista è congedato dalla DC con qualche durezza e ingratitudine (ma chi vive la vita dei partiti sa che si tratta di un pedaggio obbligato). Non gli chiedono neanche per cortesia di tornare alla guida del governo: ostile alla formula monocolore, che aveva dovuto subire nel febbraio ’76, non avrebbe neanche accettato. Il rischio era minimo, ma il partito non lo corre. Moro si apparta di nuovo ma elabora una nuova strategia politica in cui l’esperienza degli anni settanta è comunque determinante: per l’intuizione delle nuove forze sociali entrate in campo, per l’ingresso di nuovi fermenti di revisione e talvolta di eversione, che trovano il loro sbocco esplosivo in un malessere ormai alle soglie del terrorismo organizzato.
    La componente del terrorismo, in cui si colloca la suprema sfida del suo rapimento, non è affatto estranea alla valutazione pessimistica, ma insieme realistica e conseguente, che porta Moro, attraverso l’iniziale maggioranza delle astensioni occasionali, a codificare l’intesa del luglio ’77 (nel frattempo è assurto alla presidenza del partito: dopo un’iniziale votazione respinta) e poi ad avallare la costituzione del monocolore Andreotti disposto ad accettare, a certe precise condizioni, il voto di fiducia comunista. Nonostante tutti gli interdetti e le scomuniche delle rumorose minoranze della DC, che il suo silenzio riesce a piegare.
    Un giornalista colto, che ha previsto tutto quello che sta accadendo in pagine di impressionante fantapolitica oggi perfino superate dai fatti, Gianfranco Piazzesi, ha scritto pochi giorni prima del rapimento che il potere di Moro era arrivato, nelle file della democrazia cristiana, ad un livello tale da superare la stessa “leadership” di De Gasperi. Forse è un’esagerazione; ma emblematica e rivelatrice. L’agguato contro Moro è stato concepito e realizzato nel momento in cui la riflessione, accorata ma sempre lucida, di dieci anni era arrivata a un primo e preciso approdo. Si è tentato di “decapitare” la democrazia cristiana nell’ora in cui il grande e complesso partito tenta un’uscita in mari aperti, che richiede doti certamente non inferiori a quelle che De Gasperi dovette prodigare nella difficile collaborazione coi comunisti e socialisti all’indomani della liberazione.
    Si è parlato spesso di un “secondo ‘47” magari a segni rovesciati: allora l’esclusione dei comunisti dal governo, oggi il loro reingresso nella maggioranza. È un parallelo che ha un certo fondamento, anche se con limiti precisi. A rischiararlo basterà un richiamo della fantasia: immaginare cosa sarebbe stato un rapimento di De Gasperi, con assassinio della scorta (allora minima), nell’inverno-primavera del 1947. E quali conseguenze avrebbe potuto avere nella vita italiana.

    Giovanni Spadolini, 18 marzo 1978.
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    L’impegno degli intellettuali (1978)


    Da G. Spadolini, “Da Moro a La Malfa, marzo 1978 – marzo 1979. Diario della crisi”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 18-21.


    “Cultura e libertà”. In altri tempi sarebbe sembrato un titolo o retorico, o pleonastico. Nei giorni successivi al rapimento di Moro ha rappresentato, nella sua semplicità, un atto di fede, una testimonianza di serietà: nel gran dilagare della polemica degli intellettuali sui doveri della cultura rispetto alla difesa della Repubblica, contro il terrorismo e la violenza. “Cultura e libertà”: è la formula che l’università di Firenze ha scelto per un convegno di tutte le sue componenti, svoltosi con discrezione e senza riflettori, come testimonianza di solidarietà verso un collega rapito, verso Aldo Moro professore di università prima ancora che uomo di governo. Un convegno, a Palazzo Vecchio, cui hanno aderito tutti gli istituti universitari europei presenti a Firenze, circa una trentina, a cominciare dall’università europea sorta sulla badia fiesolana dopo tante attese, dopo tante delusioni e amarezze, per estendersi alle accademie, alle soprintendenze, agli enti culturali di ogni genere, ai sindacati, agli studenti.
    A me è toccato di portare il saluto della facoltà di scienze politiche di Firenze, gemella, e gemella più anziana, di quella dove Moro insegna a Roma, dove stava andando la mattina del rapimento (con le tesi di laurea sottobraccio). A me è toccato di ricordare il Moro professore, devotissimo ai suoi allievi e alle sue lezioni, tenace nella difesa di una “compatibilità” con l’insegnamento che egli sente come parte di se stesso, quasi come necessario conforto alle amarezze della lotta politica; ma il discorso a Firenze non si è fermato al doveroso e discreto omaggio al collega oggi sequestrato dai banditi, ha investito i doveri della cultura di fronte all’estendersi dell’irrazionalismo e della violenza, che tocca le basi stesse di sopravvivenza della Repubblica.
    Questa Repubblica deve essere difesa? O possiamo farne getto come di qualcosa di logoro, di marcio, un involucro dal buttar via dopo la corruzione di un trentennio? Erano presenti docenti comunisti, cattolici, azionisti, liberal-democratici: l’università di Firenze rifletteva in quelle persone tutte le componenti di una cultura variegata e differenziata, in una città che ha visto solchi profondi, dilaceramenti antichi. Eppure la risposta è stata unanime; nessuna tentazione alla resa è affiorata. Il dubbio, che tormenta Sciascia, non ha tormentato nessuno di noi. L’equidistanza, cui alcuni intellettuali guardano e che difendono con formule cha avrebbero esasperato Gobetti, non ha trovato in quella riunione di studiosi la minima indulgenza, la minima tolleranza.
    La Repubblica deve essere difesa perché si identifica col regime che gli italiani hanno scelto nella lotta per la libertà: un regime che, pur nelle sue contraddizioni o nelle sue involuzioni, mai ha conosciuto momenti di sospensione o di rottura delle supreme garanzie costituzionali, la libertà del voto, la libertà di stampa, la libertà di ricerca e di movimento, la libertà di dissenso e di contestazione. Trent’anni di vita repubblicana – è stato ricordato da Giorgio Amendola – hanno segnato il più grande progresso nell’evoluzione civile, di costumi e di cultura dell’Italia che mai si sia verificato: il paese è cambiato in questi trent’anni più di quanto sia cambiato nei cent’anni precedenti. Nessuna equidistanza fra lo Stato repubblicano e il terrorismo è possibile; il “processo” verso la classe politica, di cui si continua a favoleggiare, è affidato costantemente alla libera espressione della volontà popolare, all’intreccio fra forze sociali e forze politiche, al peso, talvolta determinante, della società civile anche oltre le fluttuazioni del voto.
    Eugenio Garin, che proviene da una lunga milizia di sinistra, è andato più in là: si è domandato dov’erano i savi quando saliva la marea dell’intolleranza, quando imperversava il terrorismo delle parole e delle ideologie prima del terrorismo armato, quando minoranze rissose e tracotanti soffocavano con rumorose scomuniche ogni pur pacato dissenso, nelle aule universitarie o in quelle dei massimi istituti di cultura. Dov’erano?
    È un quesito legittimo, che meriterebbe di essere approfondito, anche per la definizione di tutte le responsabilità, nella situazione attuale, dove il caos delle coscienze non sembra minore di quello degli istituti. Ma è un quesito che non assolve nessuno, da qualunque parte fosse nei giorni delle prime violenze, dal dovere di assumere oggi una posizione non equivoca sul terrorismo, che non ha nulla a che fare con la contestazione del ’68. I ritardi, le deviazioni, le inadempienze riformatrici (particolarmente gravi quelle nel campo della scuola) non giustificano nessuna condanna sommaria, e tanto meno nessuna esecuzione sommaria. Le strutture garantiste consentono tutto, consentono la riparazione di qualunque errore; l’abbattimento del Palazzo, con la complicità indiretta o meno delle varie bande terroriste, aprirebbe la strada soltanto a un nuovo fascismo.
    Nonostante il dilagare della violenza, l’Italia è uno dei paesi di maggiore libertà nel mondo. Il rapporto della fondazione Amnesty, su tutte le forme di oppressione e di coartazione nel mondo, ci riserba due sole pagine, rispetto alle molte dedicate al sud-Africa o alla Persia o all’Argentina (5.000 uomini scomparsi nel nulla, 8.000 uccisi dai battaglioni della morte governativi). Preferiremmo non avere neanche quelle due pagine, dedicate ai testimoni di Geova o a un obiettore di coscienza; ma sappiamo che su quelle esili basi nessuna giustificazione del terrore e della violenza sarebbe mai legittima.
    Gli pseudo-giustificazionismi sociologici hanno fatto troppo male per essere invocati ancora. C’è un’Italia della ragione cui gli uomini di cultura possono e debbono restare fedeli, senza rinunciare in nulla alla loro funzione di critici e di giudici del potere. Contropotere e terrorismo non hanno nulla in comune.


    Giovanni Spadolini, 22 marzo 1978.
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Un malinconico anniversario del 18 aprile (1978)



    Da. G. Spadolini, “Da Moro a La Malfa, marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 22-25.


    Press’a poco un anno fa, in un libro dedicato agli Anni della Repubblica, Giorgio Amendola, che nel partito comunista non conta solo come storico o come intellettuale, proposte di prolungare al 18 aprile 1948 il periodo della “ricostruzione unitaria” prima infallibilmente bloccato al maggio 1947: secondo una periodizzazione in sei fasi della vita della Repubblica che registrava nell’ultimo periodo, quello in corso, l’instaurarsi di “nuovi rapporti fra DC e PCI”.
    Fu il primo segnale dell’armistizio, non solo storiografico, col giorno del grande successo elettorale democristiano, di cui scoccano oggi trent’anni. È vero che a partire dal 18 aprile 1948 si apriva il periodo che Amendola chiamava, con qualche semplificazione, del “dominio democratico cristiano” (e che meglio sarebbe stato definire la fase del centrismo); ma è altrettanto vero che i mesi essenziali della preparazione elettorale di quel confronto e più spesso scontro erano ricompresi nel quadro della “collaborazione democratica delle grandi forze popolari”, e non soltanto in omaggio al prolungarsi dello sforzo comune nelle aule della Costituente, sforzo simboleggiato dal permanere della stessa presenza di Terracini alla guida dell’assemblea.
    In realtà, già dalla fine del ’76 e inizi del ’77, si erano avvertiti i segni di un mutamento radicale di giudizio, nella storiografia e nella politica comunista, rispetto a quella data decisiva nella storia della Repubblica che è stato il 18 aprile: non minore, in ogni caso, del diverso tono e linguaggio che la democrazia cristiana, sotto l’influenza prevalente di Moro, almeno sul piano intellettuale, usava nei riguardi delle posizioni e del travaglio, passato e presente, del PCI. Di fatto, nella storia italiana, un rovesciamento così completo di posizioni non era avvenuto se non nel trentennio post-risorgimentale, e in misura forse inferiore: con l’omaggio alla monarchia e al moderatismo delle forze di estrazione democratica e radicale, fatta salva la pattuglia mazziniana isolazionista e almeno fino al 1895 irriducibile.
    Le scomuniche di una volta, da una parte e dall’altra, si erano trasformate gradualmente in una forma di approccio cordiale, volto a ricercare le ragioni di convergenza e a sfumare i motivi di contrasto. Le contrapposizioni manichee di una volta erano dimenticate. Il comunismo abbandonava sempre di più, anche alla luce dei documenti diplomatici via via scoperti, la tesi di un De Gasperi “servitore” dell’America, “lacchè” dell’Occidente (quella che sopravvive in certi films di propaganda antidemocristiana, tuttora ispirati al clima della guerra fredda); ma dall’altra parte i democristiani non ripetevano più gli slogans del ’48, dei comunisti “servi di Mosca”, di Togliatti “agente del Cominform”.
    La distinzione fra “piano politico” e “piano costituzionale” usciva dall’ambito degli studi storici o giuridici, entrava di prepotenza nel dibattito politico. Si riconosceva da entrambe le parti che la rottura del maggio ’47, con la conseguente esclusione di comunisti e socialisti dal governo De Gasperi, non aveva mai rotto quel patto di solidarietà costituzionale e di fedeltà repubblicana che attingeva le sue radici nella resistenza e si era prolungato, a concretato, nelle aule della Costituente.
    La discussione sul 18 aprile ha preceduto, in questo senso, il trentesimo anniversario che l’Italia ricorda nel clima accorato del rapimento di Moro, nelle ore tragiche ritmate dalla “condanna a morte”, insensata e demenziale, preannunciata da un tribunale rivoluzionario che pretende di parlare in nome di una sinistra armata, proprio mentre la sinistra storica corregge le intransigenze di una volta e ammette anche gli errori di anni e decenni (si legga, con attenzione, la relazione di Bufalini, fatta coincidere non a caso con questo momento, forse il più drammatico nella storia della Repubblica). Fu un dibattito in cui intervenne anche il “prigioniero” delle Brigate rosse, Aldo Moro, nei giorni cui si ricordava – agosto 1977 – l’anniversario della morte di De Gasperi. Pretesto: il volume, stimolante anche se suscettibile di riserve e di obiezioni, di Pietro Scoppola sulla “proposta politica” del presidente trentino. Proposta che avrebbe dispiegato intera la sua efficacia, trent’anni dopo.
    Moro temperava gli entusiasmi eccessivi, ma rivendicava una certa eredità problematica di De Gasperi, contro tutti i fautori dello scontro frontale, della lotta radicalizzata. Scriveva in quell’occasione, proprio sulle colonne del “Popolo”, il presidente della DC: “Noi sappiamo che cosa De Gasperi ha fatto, e perché lo ha fatto, qual era il tipo di partito e di elettorato di cui disponeva, quali le forze con cui collegarsi in un disegno armonizzato fra molti. Sappiamo solo che aveva identificato difficoltà dirimenti, restando il giuoco democratico”. “Che questo quadro, il quadro democratico – aggiungeva Moro – sia rimasto integro e ci dia oggi delle possibilità di gestione politica, senza alterare gli orientamenti di fondo del paese, è un segno di validità e vitalità, di cui dobbiamo essere grati a De Gasperi…”.
    C’era in quelle parole di Moro l’anticipazione della “terza fase” della vita italiana, quale lo statista cattolico avrebbe poi più puntualmente individuato nei mesi della grande crisi delle formule politiche, dall’ottobre 1977 a quel 16 marzo. Il 18 aprile si scaricava, nella visione di Moro, non a caso filo-dossettiano in quegli anni, di ogni tensione integralista o esclusivista, tendeva a riproporre l’immagine di una DC proiettata verso l’alleanza col mondo laico, prima il mondo delle forze centriste risorgimentali, poi il mondo socialista, poi, anche, con tutte le cautele del caso, il mondo comunista; purché capace di portare avanti la revisione di modelli e di dottrine iniziata ma tutt’altro che completata. Secondo tempi lenti e meditati, quanto repentine e perentorie erano state, fra ’47 e ’48, le svolte degasperiane…
    Questo anniversario del 18 aprile non consente di dare più nulla di acquisito. La “terza fase” morotea è stata rimessa in discussione, prima ancora di aver decollato (col rapimento del “leader” democristiano cinquanta minuti prima della seduta del Parlamento destinata a ratificare la nuova maggioranza programmatico-parlamentare). I vecchi schieramenti sono dissolti; i nuovi equilibri, o armistizi, appaiono lungi dall’essersi consolidati.
    L’ombra del terrorismo, e del partito armato, si distende, con tutta la sua carica di complicità e di debolezze, sull’orizzonte di una Repubblica, chiamata all’esame di coscienza di se stessa nel momento in cui tutti i problemi vengono al pettine, errori e inadempienze di decenni prolungano i loro effetti moltiplicatori. Il folle processo dei terroristi al trentennio repubblicano si mescola col travaglio di ogni partito, e tanto più grande nei maggiori partiti, nessuno esente da colpe. Fuori da ogni trionfalismo, o vittimismo, è l’ora, per tutti i democratici, di severe assunzioni di responsabilità. I lontani avversari del 18 aprile hanno almeno un interesse comune: salvare la Repubblica, questa Repubblica.


    Giovanni Spadolini, 18 aprile 1978.



    https://www.facebook.com/notes/giova...1870617571203/
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  6. #6
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Difendo l’immagine di Moro (1978)


    Da G. Spadolini, “Da Moro a La Malfa, marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 25-28.


    Diciamo la verità. Bisognava opporsi fin dall’inizio, e con decisione, al tentativo di “interpretare” in qualunque senso le lettere estorte a Moro, nell’inferno del carcere. Ogni analisi stilistica doveva essere esclusa in partenza; ogni verosimiglianza rifiutata. Ci fu qualcuno, nel mondo laico, che lo propose fin dai primi giorni del dramma che si prolunga intorno a noi, che è lungi dall’essere concluso: La Malfa, per esempio.
    Il presidente del PRI dichiarò fin dal primo momento che nessun scritto con la firma di Moro, che uscisse da quel nascondiglio, con quei terribili condizionamenti, con quelle forme immaginabili o no di tortura, sarebbe stato da lui mai accettato o discusso. Non solo: ma si preoccupò di avvertire che qualunque lettera con la sua calligrafia, nella eventualità che la tragedia di Moro si ripetesse per lui, dovesse essere disattesa dai familiari, indipendentemente da qualunque contenuto o indicazione.
    Più di un mese dopo un gruppo di intellettuali cattolici, tutti uomini legati in un modo o nell’altro ad Aldo Moro, è arrivato alle stesse conclusioni e le ha codificate in un documento coraggioso e conseguente. Ho detto, e ripeto, che il mondo della cultura laica non può non condividere lo spirito e la lettera di quel documento: che dovrebbe essere aperto alle firme di tutti gli uomini di pensiero, indipendentemente dalla tessera politica o dalla milizia culturale e indipendentemente dagli stessi rapporti di amicizia col presidente democristiano prigioniero della Brigate rosse. “L’Aldo Moro che conosciamo – hanno detto i ‘vecchi amici’ dello statista pugliese – non è presente nelle lettere dirette a Zaccagnini: esse costituiscono un tentativo di distruggere la fisionomia di Moro, tentativo colpevole quanto la minaccia di ucciderlo”.
    È un sacrosanto richiamo alla realtà. Le Brigate rosse perseguono un disegno, chiarissimo e spietatamente lucido, di destabilizzazione del sistema politico. Vogliono travolgere il meccanismo di equilibri su cui regge la Repubblica, e di cui l’alleanza parlamentare di salute pubblica voluta da Moro è parte fondamentale. Vogliono trasformare l’emergenza economico-sociale, in atto da anni per errori più o meno gravi delle maggiori forze politiche, in una emergenza istituzionale, in una situazione di collasso delle istituzioni (già il rapimento del 16 marzo è di per sé un tentativo di “colpo di stato”, una forma nuova e inedita di “golpe”). In questo piano essenziale è distruggere l’immagine del maggiore statista democristiano che a questa politica, obbligata ma pur da tante parti contrastata, aveva legato il proprio nome: appunto Aldo Moro.
    La demolizione morale del personaggio Moro, a tal fine, è perfino più importante della sua eliminazione fisica. I quaranta giorni di “suspense”, e quelli che verranno, si inquadrano in questa visione, crudele ma a suo modo terribilmente coerente. Il dovere delle forze politiche, e degli intellettuali, è uno solo: respingere in partenza il ricatto, rifiutare l’apertura di una discussione su documenti che, se fatti circolare, se fatti uscire da una prigione sconosciuta e soffocante, servono esclusivamente ai fini delle Brigate rosse.
    Moro non è un uomo libero, non è in questo momento un uomo che possa controllare i testi a lui attribuiti, dettati od estorti. Non entriamo nella dissertazione sulla capacità degli psico-farmaci di alterare ogni resistenza mentale o fisica, di spezzare tutti i freni inibitori. Non siamo specialisti di tali discipline, siamo solo credenti nella religione dell’uomo. E sappiamo che l’uomo esiste in quanto è libero, che l’uomo schiavo, prigioniero, degradato nella sua condizione umana non è in grado di trasmettere il proprio messaggio, di comunicarci la propria verità. Possiamo anche immaginare che i carcerieri di Moro non farebbero mai uscire dall’oscura prigione un documento che tornasse a onore del prigioniero, che non servisse alla causa di una cinica e feroce strumentalizzazione.
    Di Moro prigioniero non sappiamo nulla. Dobbiamo solo fidarci degli uffici tecnici del ministero dell’interno che assicurano l’attendibilità delle due foto diramate nel corso di quasi un mese e mezzo (e sulla prima, non dimentichiamolo, ci fu un ripensamento della magistratura). Non sapendo nulla, non possiamo giudicare nulla. Ignoriamo perfino se Moro conosca l’esatta natura dei suoi rapitori. Qualcuno ha osservato che in nessuna delle lettere a lui attribuite si parla mai di “Brigate rosse” e mai si evoca il massacro della scorta; perfino l’identità dei sequestratori non è affiorata nei documenti che comunque gli sono stati attribuiti. Ignoriamo perfino se il protagonista della tragedia è al corrente dell’assassinio della sua scorta: cosa vuol dire l’uso del termine “eccidio”, riferito a se stesso, nell’ultima lettera inviata al giornale “Vita”?
    E come possiamo permetterci di giudicare noi, che viviamo dall’altra parte della barricata? Con quale diritto possiamo introdurre i nostri “distinguo” su una violenza che non si arresta davanti al segreto della coscienza, che nulla risparmia? Nella via della demolizione del personaggio, tutto è possibile: anche la contrapposizione fra comunisti e socialisti che affiora nell’ultima lettera dello pseudo-Moro e che rientra in un preciso calcolo politico, inserendosi nel dramma che sta vivendo la nuova maggioranza parlamentare, colpita proprio dal rapimento di via Fani.
    La logica del partito armato si oppone sempre alla logica della composizione, o equilibrio, fra forze diverse e anche alternative, riassunta nel pensiero e nell’opera di Aldo Moro. La caricatura fra tragica e macabra dello spirito mediatorio, che affiora in questi documenti, obbedisce al fine di liquidare l’ultimo punto di forza su cui si regge la Repubblica in crisi, di fare “tabula rasa” di un sistema che si vuole condannare, con le sue libertà, coi suoi diritti umani, con le sue conquiste irreversibili. Il dovere della cultura è uno solo: non dialogare coi mostri, resistere alla minaccia della nuova barbarie.


    Giovanni Spadolini, 27 aprile 1978.
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  7. #7
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    La scelta laica della DC (1978)


    Da Giovanni Spadolini, “Da Moro a La Malfa, marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 29-31.


    Dobbiamo riconoscerlo apertamente. Nella storia del dopoguerra repubblicano, mai un partito politico di maggioranza o di governo si è trovato nelle condizioni tragiche e angosciose in cui è venuta a trovarsi la democrazia cristiana nelle ultime settimane. Decapitata del proprio capo, all’indomani di una svolta per tanti aspetti decisiva ed entro certi limiti dirompente; dilaniata fra gli obblighi della pietà – pesanti per tutti ma pesantissimi per un partito di ispirazione cattolica, nato dalla stessa contrapposizione allo Stato liberale – e i doveri della solidarietà nazionale.
    Sottoposta la DC ad un’offensiva “umanitaria” che trovava larghi appoggi nelle file dell’episcopato, in fasce vaste e rappresentative di cattolici del dissenso (estesi fino al mondo sindacale) e alla fine fatta propria da un partito autorevole alleato della DC e innestato profondamente in taluni settori della società italiana, il partito socialista; messa di fronte alla terribile scelta fra la ricerca delle vie, da altri vagamente proposte o abbozzate, per salvare Aldo Moro – il suo presidente – e l’obbligo di rispettare i precetti della Costituzione, che non prevedono nessun trattamento di privilegio per l’uomo politico rapito rispetto agli infiniti uomini, giovani, ragazzi, donne sottoposti a sequestri non politici a fini di rapina o presi a bersaglio di attentati terroristici altrettanto sanguinosi e spietati.
    In ultimo il dilemma più tremendo. L’intero partito posto nella condizione di scegliere fra l’insegnamento di Aldo Modo – quale risulta da un pensiero trentennale e da un’azione conforme – e l’interpretazione più o meno esatta delle lettere estorte o imposte o suggerite al presidente della DC, dal fondo di una prigione oscura, tormentata e in ogni caso terribile. E ad un certo punto l’imbarazzo paralizzante nel respingere l’ “autenticità” delle lettere: riconosciute dalla famiglia, dai socialisti, da taluni ecclesiastici, da molti giornali, elevate a strumenti per impostare negoziati impossibili o per delineare assurdi baratti.
    Dobbiamo dirlo noi laici, che crediamo nei valori della ragione e della libertà, anche indipendentemente dal conforto della fede: la tenuta, complessivamente fermissima, della DC, almeno fino a questo momento, non sarebbe stata possibile senza l’appoggio del Papa e della Santa Sede. Diciamo, non a caso: Santa Sede e non mondo cattolico. Il mondo cattolico è stato diviso dal caso Moro non meno di tanti altri settori della società italiana. Prima delle iniziative dell’on. Craxi, c’è stato il documento della conferenza episcopale italiana che indicava la via delle trattative, per la liberazione di Aldo Modo, con accenti non dissimili da quelli risuonati nel linguaggio socialista.
    Il manifesto di “Lotta continua”, contemporaneo alla beffa del lago della Duchessa, conteneva autorevoli firme di vescovi, e non solo pugliesi, non solo legati alla “pietas loci” o all’orgoglio del campanile. La cultura cattolica si è divaricata, pur trovando nel documento del cardinale Pellegrino e degli “amici di Moro” la sua più alta e conseguente espressione: un’espressione che è stata ribadita anche all’indomani dell’invio delle lettere in serie, a presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, presidenti delle Camere, coincidenti con la giornata di sabato. Abbiamo letto ieri, su un quotidiano, la lettera di padre Turoldo, un nome che dice qualcosa per le giovani generazioni del dissenso cattolico, che vede integralmente l’uomo Moro rispecchiato nelle lettere che le Brigate rosse fanno giungere, con puntigliosa impressionante regolarità, ai più svariati indirizzi.
    Ma chi consulti la collezione dell’ “Osservatore romano”, che è l’organo non solo del Papa ma della Santa Sede, non troverà una sola sbavatura, un solo abbandono. L’organo vaticano continua a usare, come dovrebbero fare tutti i giornali laici, le virgolette ogni volta che parla delle lettere “scritte” dall’on. Moro. Il Papa non è mai andato, nei suoi ripetuti commossi appelli, oltre la formula lanciata per la prima volta, e che tanta eco ha suscitato anche nel cuore del mondo laico: la formula della liberazione di Moro “semplicemente”, “senza condizioni”. L’arcivescovo di Sorrento, monsignor Zama, pure citato in una delle lettere dello pseudo-Moro, non ha cambiato parere dopo l’ostentata rivendicazione dell’autenticità di quei documenti da parte della sgomenta famiglia. E il Pontefice non ha mai reso noto il contenuto del messaggio a lui indirizzato dal prigioniero: assumendo in questo una linea che sul versante dello Stato è stata comune – e gli sia data lode – al presidente del Consiglio Andreotti.
    Se l’offensiva dell’umanitarismo socialista si fosse unita a quella dell’universalismo cattolico, portato a privilegiare i valori sommi della persona rispetto a quelli del “bene comune”, non abbiamo la certezza che il documento finale della democrazia cristiana sarebbe stato analogo a quello che ha concluso il travaglio di questi giorni. Rimettendo ogni decisione, sulla praticabilità delle vie suggerite dai socialisti, al governo, al governo della Repubblica, e alle forze sulle quali tale governo si fonda (e che non rappresentano solo le componenti cattoliche della nostra storia), il partito di maggioranza relativa ha compiuto un gesto che gli assicura il diritto di conservare la guida del paese, nelle forme e con gli equilibri che i verdetti popolari via via gli assegneranno. Ogni altra via avrebbe coinciso con la rinuncia preventiva a quella che le sinistre chiamano, o chiamavano l’ “egemonia”. Trent’anni di storia repubblicana, da De Gasperi e Moro, non sono passati per niente.


    Giovanni Spadolini, 5 maggio 1978.



    https://www.facebook.com/notes/giova...9842972440634/
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  8. #8
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Il nostro debito con Moro (1978)


    di Ugo La Malfa - “La Voce Repubblicana”, 10 maggio 1978


    Mi è quasi impossibile in questo angoscioso momento, trovare parole di commemorazione del grande Uomo politico, che una banda di criminali ha sottratto alla vita democratica del nostro paese. I ricordi mi si affollano nella mente. Aldo Moro è stato presente nella mia vita politica da almeno 20 anni, poco tempo dopo la scomparsa di Alcide De Gasperi, che fu uno degli altri uomini di Stato del quale conservo un incancellabile ricordo.
    Dai repubblicani iniziata la lunga e difficile battaglia per la svolta di centro-sinistra, mi incontrai con Aldo Moro che come segretario della DC, seguiva quella battaglia con eccezionale interesse ed acume politico, convinto delle stesse ragioni di cui ero convinto. Egli portò la DC alla collaborazione con il PSI. Della svolta, Egli, come presidente del Consiglio, soffrì tutte le speranze e le delusioni, stretto fra le esigenze di una marcia prudente e le spinte di una sinistra non sempre coerente.
    Quando, in anni recenti, la politica di centro-sinistra si mostrò ormai inadeguata alla gravità della crisi che andava investendo il paese, nel tentativo di salvare lo Stato e la società italiana da un collasso estremo, Egli come me attento osservatore della evoluzione del partito comunista italiano, si pose lo stesso problema che io mi andavo ponendo. E come agli inizi degli anni sessanta la minoranza repubblicana sentì il dovere di uscire per prima dalla trincea, lo stesso avvenne negli ultimi mesi, quando, attraverso la collaborazione con il PCI bisognava trovare quello schieramento di emergenza che solo poteva salvare il paese dalla catastrofe. Così, ancora una volta, un filo quasi invisibile unì l’azione di un esponente della minoranza risorgimentale all’azione dell’insigne esponente del maggior partito italiano.
    Sono certo che è stato fatto pagare a Moro il tenace e lungimirante sforzo di impedire la rovinosa destabilizzazione della vita politica italiana. In questo senso Egli è il grande caduto della causa della democrazia del nostro paese. Ed è nella difesa della sua strenua azione politica e nel ricordo commosso della sua eroica scomparsa che noi dobbiamo continuare la battaglia.


    Ugo La Malfa
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  9. #9
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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Non è morto solo Moro (1979)


    “Panorama”, 20 marzo 1979 – Intervista a Ugo La Malfa curata da Claudio Rinaldi


    D. Che cosa ha significato il rapimento, e poi l’uccisione di Moro per la vita politica italiana?

    R. Mi parve subito un evento terribile. Lo legai al fatto che Moro si era impegnato nella realizzazione della maggioranza di solidarietà democratica: col sequestro si voleva colpire l’uomo che più di ogni altro aveva mirato al raggiungimento di quell’obiettivo, sia pure circondandolo delle cautele che risultano dai suoi precedenti discorsi. Moro, come me, aveva l’impressione che una crisi sempre più grave stesse investendo il paese, e che potesse sfociare anche in una estrema debolezza dell’Italia dal punto di vista internazionale. La politica di solidarietà gli appariva il solo mezzo valido per superarla.

    D. Che cosa era per Moro l’ingresso dei comunisti nella maggioranza: un punto d’arrivo o di partenza?

    R. Non si può dire che quello rappresentasse per lui puramente e semplicemente un punto d’arrivo. Si può dire, forse, che egli intravedeva qualche ulteriore passo per consolidare la politica di solidarietà, anche se non è facile capire di quale passo si trattasse. Moro aveva il problema di muovere tutto intero il partito nel riconoscimento di determinate necessità. Molte volte, durante le trattative per la formazione dell’ultimo governo Andreotti, affermò esplicitamente che la DC non poteva andare oltre la partecipazione a una maggioranza che fu allora definita programmatica; ma non è possibile stabilire se a suo giudizio la maggioranza poteva rimanere a lungo nella posizione da lui fissata. Certo egli concepiva quella maggioranza come strumento per superare l’emergenza, il che implica che riteneva necessario, probabilmente, uno spazio di tempo non breve.

    D. E dopo?

    R. Una volta superata l’emergenza, Moro secondo me pensava al ritorno a una normale dialettica democratica, cioè al costituirsi di forze di maggioranza e di forze d’opposizione.

    D. Moro come teorico dell’alternanza, insomma?

    R. Nell’alternarsi dei partiti al potere Moro vedeva la garanzia per un migliore funzionamento delle istituzioni. Il fatto che la direzione dello Stato fosse stata affidata permanentemente alla DC, secondo lui derivava da uno stato di necessità che alla lunga aveva prodotto, accanto a risultati positivi quali l’inserimento pieno dell’Italia del mondo occidentale, anche risultati negativi. L’attenzione che Moro prestava, oltre che ai tradizionali alleati della DC, alla revisione ideologica e politica del PCI rispecchiava la sua aspirazione a che l’alternanza avvenisse nel quadro di una sicurezza democratica pienamente acquisita. L’obiettivo finale di Moro era l’occidentalizzazione piena della vita italiana.

    D. Proprio mentre varava la maggioranza a cinque, Moro irritò i comunisti favorendo la costituzione di un governo Andreotti quasi uguale al precedente, con molti ministri nei quali il PCI non aveva fiducia…

    R. Che io sappia, Moro non esercitò un’influenza determinante sulla formazione del governo. Mi risulta invece che si mostrò favorevole al minor numero possibile di mutamenti: aveva fatto fare al partito un notevole passo avanti dal punto di vista politico, e non voleva caricarlo di altri problemi. Ciò nonostante ci fu almeno un grosso cambiamento nella composizione del governo.

    D. Quale?

    R. Il passaggio del ministro Pandolfi dalle Finanze al Tesoro, da me ripetutamente invocato e, alla fine, ottenuto. Quello che è avvenuto dopo non dà certamente torto alla mia insistenza, perché da Pandolfi è venuto il documento attraverso il quale si è delineata la politica economica del nuovo governo.

    D. Davanti al rapimento Moro i partiti della maggioranza adottarono di comune accordo, almeno in un primo momento, la linea della fermezza: nessuna trattativa con le Brigate rosse, nessun cedimento. Fu una scelta giusta?

    R. Su questo punto il mio partito è stato fermissimo e continua a esserlo. Ero legato a Moro da una grande stima e da una profonda affinità nel modo di guardare il problemi del paese; eppure nel discorso che pronunciai il giorno stesso del sequestro affermai che gli uomini collocati al vertice della vita pubblica dovevano essere pronti a pagare gli stessi prezzi e a correre gli stessi rischi di poliziotti, giornalisti, magistrati, avvocati.

    D. Dopo qualche tempo il fronte della fermezza si incrinò; i socialisti si mostrarono favorevoli a un’iniziativa umanitaria per tentare di salvare Moro…

    R. In circostanze così eccezionali ciascun partito ha la facoltà di comportarsi come crede. Io continuo a pensare che se si fosse arrivati a una trattativa con i terroristi si sarebbe dato l’ultimo colpo a uno Stato già tanto gravemente indebolito. È terribile, certo, che proprio Moro abbia dovuto pagare con la vita l’estremo atto di difesa dello Stato democratico. Penso a volte che per salvare dal collasso il nostro Stato, la nostra società, noi dobbiamo impegnarci in una sorta di guerra interna contro noi stessi. Nelle mie meditazioni, Moro mi appare come la grande, illustre vittima del tentativo di vincere questa guerra interna.

    D. Dal rapimento Moro in poi lo Stato ha fatto qualche passo avanti nella lotta al terrorismo?

    R. Quando appresi del sequestro parlai di coprifuoco, di stato d’assedio. A qualcuno sembrarono dichiarazioni dovute all’emozione del momento. Ma il mio pensiero era che se si fossero adottate misure eccezionali a Roma e dintorni il compito delle forze dell’ordine sarebbe stato reso più facile. Non so se le autorità di sicurezza avessero preparato un piano comprendente misure del genere. Probabilmente no, poiché non si pensava a un rapimento così diabolicamente ardito. Forse ci si è pensato dopo, una volta apparso chiaro che il terrorismo andava percorrendo un cammino rapidamente ascendente.

    D. Molti pensano che proprio quel 16 marzo di un anno fa, col rapimento di Moro, cominciò l’agonia della settima legislatura. Lei è d’accordo?

    R. Sì, nel senso che la maggioranza di solidarietà democratica subì allora il più duro colpo, con la scomparsa dell’uomo che con la sua intelligenza politica l’aveva resa possibile. Il che presuppone l’esistenza, negli assassini di Moro, di un’intelligenza politica contrapposta alla sua. Tuttavia il sacrificio di Moro avrebbe potuto servire da cemento, se altri fatti non fossero intervenuti: fatti dei quali siamo tutti responsabili. La fine di un uomo che ha lasciato tracce così profonde nella vicenda politica italiana avrebbe meritato una solidarietà, una compattezza che non si sono avute.

    D. Lei questa compattezza ha cercato invano di ricrearla nelle scorse settimane…

    Ho cercato di essere leale verso le posizioni che ogni partito mi esponeva. In questo spirito ho fatto una proposta con la quale mi impegnavo, se fossi diventato presidente del Consiglio, a una consultazione periodica con i massimi dirigenti dei cinque partiti, ferme restando le prerogative del governo e del parlamento. Non è bastato. Col presidente della Repubblica ho considerato le incertezze di una soluzione interna ai partiti della solidarietà democratica, e ho desistito. Gli avvenimenti successivi hanno dimostrato che non avevo sottovalutato le difficoltà insormontabili che si ponevano per una ricostituzione della maggioranza.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: 16 marzo: nulla sarà più come prima (1978)

    Fra l’emergenza e la “terza fase” (1978)


    Da Giovanni Spadolini, “Da Moro a La Malfa, marzo 1978-marzo 1979. Diario della crisi italiana”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 32-37.


    Ebbi l’ultimo colloquio con Aldo Moro, a quattr’occhi, il 9 febbraio, nel pieno della crisi del monocolore Andreotti, quando nulla era ancora deciso, quando tutto sembrava incerto. Nel suo quieto studio di via Savoia, come sempre. Nelle ore del tardo pomeriggio, quelle che egli preferiva, in genere incline a riserbare al mattino le ore delle lezioni universitarie (e quei lunghi colloqui successivi con gli studenti) o degli impegni personali. Senza mai la fretta, o l’impazienza, che caratterizzavano altri uomini politici di tanto minore spicco e muniti di tanta maggiore disponibilità di tempo. Gli incontri con Moro erano destinati sempre a protrarsi per alcune ore, spaziavano sui temi più diversi, con la franchezza di confessioni impreviste, con l’apporto di riferimenti disincantati, mai retorici.
    Il presidente democristiano, il cui corpo straziato è stato ritrovato a mezza strada fra le Botteghe Oscure e piazza del Gesù, non faceva mai pesare il tempo sul suo interlocutore, non faceva squillare nessun telefono ammaestrato nel suo studio, raccolto e riservato com’era nello stile dell’uomo. Uomo di riflessione come pochi altri, nemico di ogni intemperanza e di ogni precipitazione, amava il pacato confronto delle idee, ascoltava rispettosamente le obiezioni degli altri, andava diritto al cuore dei problemi.
    Il Moro oratore politico era diversissimo dal Moro conversatore. Quella complessità intellettuale, che talvolta sembrava ai superficiali tortuosità, si scioglieva nel contatto umano in una forma di estrema confidenza e naturalezza, che lo portava a pronunciarsi con semplicità e fermezza sui vari problemi, a giudicare con lucidità talvolta impietosa uomini e cose. L’avevo conosciuto bene dall’inizio degli anni sessanta, gli anni della mia direzione del “Carlino”, e da allora avevo contratto l’abitudine periodica di scambi d’idee, che non si limitavano ai fatti contingenti, alla cronaca spesso fastidiosa o pettegola, che cercavano di risalire alle radici di quella crisi italiana da lui vissuta via via in posizione di protagonista, appunto dagli esordi della formula politica di centro-sinistra, una formula cui il suo intuito e la sua saggezza politica avevano conferito quella “flessibilità” e quel “realismo” necessari per il compiuto successo.
    In quel giorno di febbraio, il discorso cadde sulla prospettiva della democrazia cristiana, sulle possibilità di uscire dalla grave crisi. Moro non dava affatto per acquisito o per irreversibile il “compromesso storico”, nonostante le raffigurazioni semplicistiche dei suoi detrattori e la violenza di una polemica che aveva infuriato all’interno del suo stesso partito; al contrario. La stessa formula “compromesso storico” non lo aveva mai convinto, neanche dal punto di vista, vorrei dire, lessicale, di stile.
    La semplificazione estrema della vita italiana, implicita nel “duopolio” comunisti-cattolici, cozzava contro quella intuizione, che in Moro derivava da De Gasperi, ma non senza un passaggio dossettiano, della complessità della storia italiana, della complessità dello stesso mondo cattolico, irriducibile a questo o a quello schema prefabbricato. Da mesi, invece, Moro lavorava intorno a un’altra parola, la parola “emergenza”: per molto tempo – mi sottolineò in quell’incontro – “ho evitato di parlarne, ho deplorato coloro del mio partito che l’hanno troppo facilmente esclusa, abbinandola nella stessa condanna o nello stesso rifiuto del compromesso, adesso mi sono convinto che una qualche formula di emergenza, senza annullamento delle distinzioni e dei ruoli fondamentali, si impone, se vogliamo uscire da una situazione di crisi che rischia di diventare istituzionale, che nulla risparmia”.
    In un discorso a Bologna, pronunciato alla fine dell’anno, aveva usato undici volte il termine “emergenza”: egli che mai abbondava nell’uso delle parole, che detestava le ripetizioni, i superlativi, qualunque forma di enfasi. “L’ho fatto non a caso”: mi sottolineò in quel colloquio di via Savoia. Si trattava di iniziare un esperimento nuovo, di cui era difficile ai suoi occhi valutare le possibilità di successo e anche la durata: ma che si imponeva per il logoramento delle formule precedenti, per la sclerosi della dialettica politica che si era creata con la consumazione di quell’esperienza storica in cui nessuno aveva creduto come Moro, cioè il centro-sinistra, ma che gli appariva irreparabilmente chiusa col suo governo bicolore, dc-repubblicani, del 1974-1976.
    Ricordo che nell’agosto del ’74, in pieno governo Rumor, quello tripartito sopravvissuto alle dimissioni di La Malfa dal Tesoro e all’accentuata crisi economica, in un “taccuino” che tenevo allora su un periodico del nord, avevo scritto press’a poco: “il centro-sinistra non potrà esaurire definitivamente il suo ciclo senza che Moro torni a guidarne, almeno, l’ultima incarnazione. Neanche lo Stato liberale del ’19-’20 poté chiudere la sua stagione senza tentare, in extremis, di affidarsi alla saggezza e alle cure di Giolitti”. Moro mi scrisse una lettera affettuosa, mostrando di apprezzare lo spirito informatore di quell’osservazione e della conseguente previsione, abbastanza singolare in un momento in cui lo statista appariva lontano dalla prospettiva di un ritorno alla guida del governo, almeno per i nuclei dirigenti del suo partito.
    Lo stato di reciproca paralisi dei due partiti socialisti, qualche mese più tardi, nel novembre del ’74, riportò Moro alla presidenza del Consiglio, in una “piccola coalizione” che egli molto amò e che continuò a portare ad esempio, anche negli anni agitati e nevrotici che hanno preceduto il suo rapimento e la sua fine terribile. “Piccola coalizione”, ma sempre nell’ambito del centro-sinistra, nella cornice di una certa filosofia politica, di una visione mediatrice e conciliatrice dei contrasti che intanto irrompevano più inquietanti nel paese, che sfuggivano ai vecchi sistemi di controllo o di interdizione.
    Il gesto di De Martino, che aveva portato all’affossamento del bicolore agli inizi del ’76, aveva lasciato una profonda traccia in Aldo Moro. L’uomo che aveva difeso sempre a viso aperto i socialisti, anche contro i tanti critici del suo partito, l’uomo che aveva valorizzato la collaborazione di Nenni vice-presidente del Consiglio, l’uomo che aveva condotto nel ’68 una leale campagna elettorale anche per gli alleati di governo, senza sottintesi esclusivisti o intolleranti, si era persuaso da quel momento della estrema difficoltà di ricuperare un appoggio socialista, comunque determinante e imprescindibile per le sorti di un qualsiasi governo a maggioranza democratica precostituita.
    La “terza fase” morotea nasce da lì. Nessun spirito di capitolazione o di resa “musulmana” al comunismo, come una certa propaganda della “maggioranza silenziosa” ha finito per far credere in taluni settori anche troppo vasti della pubblica opinione; nessuna inclinazione alla “democrazia consociativa”, per un uomo che aveva ben precisi i confini e i limiti del regime rappresentativo. Ma la convinzione, fermissima in Moro, che con le elezioni del giugno 1976 qualcosa era cambiato, e in modo irreversibile.
    Anche le forme e i modi dell’ “egemonia democristiana”, esercitata più o meno nel corso del trentennio, non avrebbero mai potuto essere gli stessi che, coi temperamenti delle alleanze laiche più o meno condizionanti, avevano caratterizzato le epoche del centrismo o del centro-sinistra. Il “processo” alla DC e al suo trentennio, cominciato nei giornali, nei libri di letteratura, negli spettacoli teatrali e cinematografici (un “processo” che si era riflesso anche nella sinistra immagine del presidente democristiano assassinato sugli schermi attraverso la straordinaria interpretazione di Volonté), un processo cui aveva aderito una certa parte della cultura e dell’opinione pubblica italiane, non era passato senza influenzare profondamente il pensiero politico dello statista pugliese.
    Chi interpretò il discorso sul processo Lockheed alla Camera del marzo ’77 come un discorso di ostentata arroganza democristiana, di rivendicazione esclusiva del monopolio del potere, ne dimenticò il senso più profondo, che consisteva piuttosto in un invito a difendere insieme il trentennio democratico, allargato anche a coloro che ne erano stati gli oppositori costituzionali, a cominciare dal partito comunista. Diffidente all’inizio del monocolore Andreotti, almeno nella prima formula casuale e un po’ accidentale delle convergenza occasionali e non negoziate, Moro si dedicò, a partire dalla primavera 1977, ad approfondire la possibilità di convergenze più larghe, riflesse prima nell’intesa di luglio e poi concretate nel tentativo di maggioranza programmatico-parlamentare, contro cui si è scatenata la furia delle Brigate rosse. Il primo monocolore Andreotti si tradusse prima in un monocolore concordato e poi in un monocolore sorretto dallo sforzo solidale delle forze che, con l’eccezione dei liberali, avevano concorso all’edificazione della Repubblica e trent’anni dopo si ritrovavano di fronte all’appuntamento di una specie di secondo “patto costituzionale” da rinnovare per le esigenze di una società profondamente trasformata rispetto a quella degli anni quarantacinque. E quasi irriconoscibile rispetto ai vecchi modelli.
    Quando chiesi a Moro, in quel 9 febbraio, se egli vedeva prossima l’alternativa, una possibile polarizzazione delle forze, con la DC da una parte e un tendenziale fronte delle sinistre, marxiste e no, dall’altra, fronte magari favorito dall’indubbia revisione in atto nel partito comunista, egli mi rispose: “possibile, ma lontana. Prevedo un periodo assai lungo in cui si impone una forma di collaborazione o di convergenza fra i partiti su cui pesa la responsabilità storica della difesa della Repubblica”. Lo inquietava il terrorismo, ma più ancora lo inquietavano le radici e i consensi giovanili che il terrorismo raccoglieva. La crisi dei giovani, lo spettro della disoccupazione intellettuale crescente attraverso la dequalificazione delle università, costituivano uno dei temi prediletti dei suoi interventi. Non a caso l’argomento dei possibili rimedi alla crisi degli atenei rappresentava, da un quindicennio e più, uno dei motivi prevalenti nei nostri incontri e nei nostri scambi d’opinione.
    Il trapasso dell’Italia dal 1948 al 1978 era evidente nella mente di Aldo Moro come forse in quella di nessun altro statista di formazione democristiana. I gruppi criminali, che hanno portato a termine il loro piano, impunito e inflessibile fin dall’inizio, nel centro di Roma, non potranno mai immaginare il travaglio che quest’uomo ha vissuto di fronte all’interrogativo sugli strumenti politici, e anche sulle formule, atte a sanare la frattura fra il paese legale e una parte del paese reale, che gli appariva con estrema, spietata chiarezza. Per avere egli offerto quei sofferti motivi di riflessione al suo partito e al paese, Aldo Moro è stato assassinato.
    Una Repubblica, che rischiava di perdere la sua identità, è stata richiamata brutalmente all’esame di coscienza delle sue origini, della sua storia, del suo destino. Un destino in cui si ritroveranno, intorno all’immagine del presidente ucciso, cattolici e laici: quasi a ricostituire la trama che la violenza si illudeva di spezzare.


    Giovanni Spadolini, 11 maggio 1978.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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