Nel saggio (Einaudi) il giornalista critica il populismo ma non considera i suoi punti
di forza: chi esalta la dimensione nazionale ha delle ragioni da non sottovalutare
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Chissà se Stefano Feltri — il giovane e valente vicedirettore del «Fatto Quotidiano», autore del libro Populismo sovrano appena uscito da Einaudi — ha considerato una tipica manifestazione di sovranismo anche la protesta che il governo italiano ha inoltrato qualche giorno fa a quello francese per quanto i suoi gendarmi avevano appena combinato a Bardonecchia. Sovranismo, come è noto, è il termine carico di significato negativo che le élite occidentali avvalendosi della loro egemonia culturale e del potere che gliene deriva di dare il nome alle cose — hanno dato alla difesa del «potere di decidere a livello nazionale o regionale il proprio destino», fatta ostinatamente propria in genere da chi dell’élite non fa parte. Una difesa che Feltri giudica essere diventata ormai un’«ossessione» e alla quale egli attribuisce un ruolo centrale in quell’altro e maggiore morbo ideologico diffusosi di recente nelle democrazie occidentali, che è il «populismo».


Feltri perlustra accuratamente l’universo populista. In modo particolare, i mille casi in cui la mentalità complottista tipica del populismo stesso è spinta a scorgere ogni volta, dietro i conti in disordine e i fallimenti delle politiche dei governi nazionali, soltanto le presunte macchinazioni dei circoli finanziari internazionali oppure le malefatte delle potenti burocrazie «senza patria» al servizio dell’Unione Europea, del Fondo monetario, del Wto o di chi sia.

Ad un’analoga, impietosa, radiografia egli sottopone gli argomenti che vengono adoperati per solito dai fissati della sovranità nazionale contro la loro seconda bestia nera, la globalizzazione. A questo universo non privo di tratti talvolta paranoici Feltri, avvalendosi della propria notevole cultura economica, contrappone da un lato l’analisi dettagliata dei molti benefici economici della cooperazione internazionale, e dall’altra la vacuità fallimentare di ogni soluzione alternativa proposta, di ogni illusoria autoreclusione nello spazio nazionale. E i suoi argomenti risultano quasi sempre convincenti. Così come convincenti sono pure le sue considerazioni sui molti motivi alla base della crisi nelle nostre società del rapporto tra le élite e il resto della popolazione.

Anche chi non ha ragione tuttavia può avere delle ragioni. Ciò vale anche per il sovranismo populista, che a mio giudizio ha delle ragioni forti che però in queste pagine non sono affatto considerate. Sono proprio le ragioni che specialmente muovono l’animo e l’emotività dell’opinione pubblica, nutrendo la sua profonda avversione nei confronti di tutto ciò che le sembra ledere l’autonomia dello Stato nazionale. E che saranno pure ragioni spessissimo manipolate per servire a una sgangherata polemica politica, ma che non per questo cessano di tirare in ballo altrettanti ambiti cruciali per tutti i regimi democratici.

Il primo di tali ambiti è quello simboleggiato dal suffragio universale. Mi spiego. Il «potere di decidere il proprio destino», l’idea di essere titolari di un tale potere «a livello nazionale e regionale», come dice Feltri, non è certo una bizzarra pretesa dei populisti. Direi che rappresenta puramente e semplicemente il cuore del suffragio universale: il quale a sua volta è, come si sa, l’espressione più compiuta della sovranità popolare. Feltri sostiene che il sovranismo populista fa di tale potere di decisione una vera e propria «ossessione». Può essere che in più di un caso sia vero: ma al di fuori dei limiti indicati in Italia dalla nostra Costituzione chi decide quando la volontà di esercitare quel potere è fondata e quando no, quando diventa un’«ossessione»?

Ciò che l’antisovranismo fatica ad accettare è il fatto che la sovranità popolare quale si esprime nel suffragio universale — ambedue pietre angolari della democrazia — sia in realtà tutt’uno precisamente con la sovranità nazionale. Cioè sia tutt’uno con uno spazio storico-culturale (quello rappresentato dalla nazione appunto) che, tranne casi rarissimi, s’identifica anche con uno spazio geografico.

L’esistenza di questo legame inscindibile è testimoniata innanzi tutto dalla storia: non è mai esistito, infatti, un regime democratico che non si sia affermato in uno spazio nazionale e rivendicando alla nazione-popolo la sovranità su di esso. Il che vuol dire che non è facile mettere sotto accusa la sovranità e considerarla quasi alla stregua di una reliquia del passato, come in sostanza mi sembra faccia questo libro, senza per ciò stesso mettere una pericolosa ipoteca sul suffragio universale e cioè sul cuore stesso della democrazia. Chi si muove in questa prospettiva deve saperlo.

Vengo alla seconda delle due principali ragioni forti del sovranismo trascurate da Feltri. Quella a cui allude la Costituzione stessa quando afferma che l’Italia consente alle limitazioni della sua sovranità, ma «in condizioni di parità con gli altri Stati». Ora è per l’appunto dal vedere come di fatto questa condizione di parità sia venuta progressivamente meno — in particolare nell’ambito di quella che è la più importante istituzione limitatrice della sovranità italiana, l’Unione Europea — è precisamente da ciò che in molta parte dell’opinione pubblica è nato un crescente, comprensibile, sentimento a sfondo diciamo così «sovranista».

Che poi tutto ciò sia avvenuto per colpa soprattutto delle inadeguatezze e delle incapacità della nostra classe politica e di governo, è vero: ma lungi dall’essere un’attenuante non ha fatto e non fa altro che alimentare ancora di più l’avversione per le élite del Paese.

https://www.corriere.it/cultura/18_a...62e05f02.shtml