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Un testo inquinato da un fastidioso determinismo tecnologico; oppure espressione di un messianesimo pernicioso e politicamente dannoso sulla fine ineluttabile del capitalismo. Il Manifesto accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek (Laterza, pp. 60, euro 7) è stato aspramente criticato a partire proprio da queste due interpretazioni, al punto che i due filosofi hanno ritenuto opportuno approfondire, articolare il loro punto di vista con il ponderoso libro, tradotto da Nero editions con il titolo Inventare il futuro, dove hanno implicitamente risposto alle critiche che hanno accompagnato la diffusione di questo provocatorio pamphlet (https://ilmanifesto.it/lo-scippo-del-tempo-che-verra/).
Pubblicato nel 2013 il Manifesto accelerazionista è stato dunque variamente interpretato e stigmatizzato. Solo pochi studiosi hanno provato a misurarsi con i problemi che poneva – la disoccupazione di massa dovuta all’automazione dei processi lavorativi – e alcuni dei loro testi compongono l’interessante affresco de Gli algoritmi del capitale (ombre corte).
La tesi di Williams e Srnicek – entrambi molto impegnati, come indipendenti, nel Labour Party di Jeremy Corbyn – prende spunto da fattori sotto gli occhi di tutti: il capitalismo produce disoccupati perché l’automazione non sostituisce con macchine solo il lavoro manuale ma anche quello «cognitivo». Chi viene espulso dal mercato del lavoro non può cioè sperare, come era accaduto con le altre «rivoluzioni delle macchine», di trovare lavoro in settori emergenti, perché l’automazione riguarda l’insieme delle attività produttive.
Il pamphlet dei due studiosi punta l’indice verso la sinistra europea e statunitense – uno dei limiti del libro è che è circoscritto alla realtà occidentale – che balbetta sulla necessità di tornare alla piena occupazione attraverso un rinnovato protagonismo dello «stato imprenditore». L’automazione non si può fermare, sostengono Williams e Srnicek; compito di una innovativa, e radicale, sinistra politica non è quindi di fermare il processo, bensì di proporre soluzioni adeguate a un capitalismo fondato sulla disoccupazione strutturale. La misura migliore dalla quale partire è quindi il reddito di cittadinanza (o universale o di esistenza), intendendo con ciò non tanto il vecchio sussidio di disoccupazione vincolato alla accettazione di qualche lavoretto dequalificato o sottopagato come prevede il workfare britannico o le proposte, per citare la situazione italiana, del Movimento 5 Stelle o del reddito di inclusione del Partito democratico.
È stata l’ineluttabilità dell’automazione e la proposta del reddito di cittadinanza che ha fatto gridare allo scandalo i critici del Manifesto accelerazionista. Critiche fondate su una nostalgia politica del passato dove il lavoro era posto a fondamento della cittadinanza . I due autori sostengono che quel mondo è stato cancellato dalla controrivoluzione neoliberista. Prendere atto di ciò non è velleitario o espressione di un estremismo teorico, bensì è un’adesione a un principio di realtà. Ma è su questo crinale che si addensano i problemi del Manifesto accelerazionista, a partire dalla visione del Politico – il partito come luogo principe di una politica della rappresentanza sociale – che i due autori propongono.
Williams e Srnicek sostengono che fattore preliminare è la conquista di un’egemonia culturale. Più o meno come hanno fatto i neoliberisti che con i loro media e think-thank hanno veicolato i mantra del libero mercato, della deregolamentazione del mercato del lavoro, dell’inutilità dell’intervento statale. Centri studi e media, ampiamente finanziati da capitalisti spregiudicati. La sinistra deve fare lo stesso, anche se è difficile pensare a chi finanzi il lavoro culturale di questa egemonia culturale, a meno che non si creda nella favola che basta diffondere contenuti su Internet come se fossero virus.
Altro aspetto debole del Manifesto accelerazionista è la forma politica ipotizzata per una realtà segnata da disoccupazione di massa e il proliferare di «lavoretti» precari e che non hanno spazi univoci dove vengono svolti. I due autori la fanno tuttavia troppo semplice quando invocano il ritorno alla forma partito che opera una sintesi dei tanti «particolari». Hanno sì ragione da vendere quando criticano le folks politics dei movimenti sociali caratterizzate da localismo, «orizzontalismo» e sterile democraticismo – il discutere all’infinito su come discutere – e afasico settorialismo. Dimenticano però di citare la folk politic di chi contrappone il precariato agli operai old style, alimentando così il feroce darwinismo sociale della guerra tra i poveri perché occulta il fatto che ormai precario è tutto il lavoro vivo e che la precarietà non è prerogativa di alcuna generazione messa all’angolo da chissà quali «garantiti».
Serve cioè un politica immaginativa che faccia Rete, che metta in relazione figure lavorative diversificate, eterogenee tra loro. La posta in gioco è fare Rete per costruire «istituzioni», contropoteri. I partiti servono infatti solo nella contingenza. Occorre cioè, per elaborare un Politico adeguato al mondo dell’automazione e dell’indisponibilità alla sintesi operata all’esterno del lavoro vivo, volgere lo sguardo alla forma Rete. Ma su questo il Manifesto accelerazionista non fa che balbettare proposte che hanno anch’esse il sapore dolciastro della nostalgia.