Noi togliamo il nostro sostegno a questi inetti.





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C'è un'antica sapienza costituzionale in questa "esplorazione" dall'esito annunciato ma non inutile. Perché è chiaro che al Quirinale non occorre attendere la giornata di venerdì per capire che, anche questo giro, non porterà né un governo, né un serio e credibile "innesco" di trattativa tra centrodestra e Cinque Stelle o tra Lega e Cinque stelle. Basta scorrere le dichiarazioni, anche quelle odierne, dei due vincitori dimezzati per registrare che il solco, se possibile, si è ancora allargato, con veti e puntigli dai toni quasi elettorali. E lo stesso accadrà domani quando il centrodestra si presenterà unito al giro supplementare chiesto dalla Casellati. Anzi, proprio questa foto del centrodestra unito, maliziosamente annunciata da Silvio Berlusconi all'uscita, fa franare l'ultimo appello rivolto da Di Maio a Salvini, quel "rompa con Berlusconi" diventato ormai un disco rotto.

E se l'esito è, appunto, annunciato, il passaggio politico che si sta consumando in queste ore è tutt'altro che irrilevante. Perché venerdì mattina, al temine del mandato "lampo", sarà certificato il fallimento dello schema centrodestra-Cinque Stelle, su cui si è girato a vuoto per 45 giorni. Cer-ti-fi-ca-to. Ecco. È questo il senso di un mandato "mirato" conferito alla Casellati. Il capo dello Stato, pare un dettaglio ma è sostanza, non ha chiesto una esplorazione tout court, rivolta a tutti i partiti, ma l'ha circoscritta a quello che finora – e a parole - è stato l'unico perimetro di gioco, tra il primo partito e la prima coalizione. E a certificare il fallimento, questo il punto, sarà un autorevole esponente del centrodestra come la Casellati. Spetterà all'esploratrice spiegare che non ci sono le condizioni per proseguire, per tutti i motivi che ormai anche una vasta opinione pubblica ha chiaramente compreso: il veto di Di Maio su Berlusconi, Salvini che non rompe con Berlusconi, Di Maio che non rinuncia alla sua pretesa di andare a palazzo Chigi.

A quel punto una pagina si chiude politicamente e mediaticamente senza alcuna forzatura da parte del capo dello Stato che, pazientemente, ha concesso due giri di consultazioni, un supplemento di esplorazione e nessuno potrà dirgli "noi volevamo provarci, ma non ce lo hai permesso". E, a quel punto, si inizierà a ragionare su un nuovo schema di cui già si annusa qualcosa nell'aria (leggi qui Angela Mauro), incentrato sul dialogo tra Cinque Stelle e Pd. A meno di clamorose novità politiche è nelle cose che al Quirinale si prepara una altrettanto paziente – e non breve - verifica del rapporto tra Pd e Cinque Stelle, anche utilizzando lo stesso metodo dell'esplorazione. Un mandato esplorativo, anche in questo caso mirato e circoscritto, al presidente della Camera è un'ipotesi su cui si è già ragionato nei tanti brainstorming con i consiglieri giuridici del Colle e che sarà all'ordine del giorno da venerdì in poi. Magari di mezzo ci saranno un paio di giorni di riflessione, ma è chiaro che con Fico si obbliga al confronto i Cinque Stelle e il Pd. Diciamo così: si obbliga il leader pentastellato a confrontarsi seriamente con i democratici, senza avere più il forno leghista a disposizione e si obbliga il Pd a scendere dall'Aventino, ora che non ci sono popcorn da gustare davanti al giuramento del "governo populista".

È una pagina tutta nuova, per nulla scontata a considerare le scorie non smaltite della campagna elettorale e del velenoso dopo voto, che richiederà altrettanta pazienza e capacità di attesa affinché maturino condizioni che al momento non si vedono. Perché se da un lato c'è Berlusconi dall'altro c'è Renzi, un altro scarsamente avvezzo ai passi indietro. Anzi, si intensificano le voci di un suo possibile passo in avanti, inteso come ritorno in campo ora che i due vincitori dimezzati si sono infranti contro il muro della realtà. È complicato che, anche in questo caso, puntigli e veti – quello di Renzi su Di Maio, quello di Maio su Renzi – possano produrre un rapido innesco di trattativa. È però altrettanto chiaro che queste esplorazioni, sapienti e maieutiche, fatte di tentativi andati a male, riflessioni e fallimenti, hanno anche l'innegabile funzione di preparare, diciamo così, la scelta solitaria del capo dello Stato quando la situazione lo renderà necessaria e quando il tema del governo non sarà più rinviabile. Proporre un nome e, con esso, un "governo del presidente" dopo il voto sarebbe stato visto, in questo dibattito politico primitivo nelle categorie propagandistico nella forma, come un "golpe" contro la volontà dei cittadini. Proporlo dopo averle tentate tutte, ma proprio tutte, tra esplorazioni, consultazioni e settimane di riflessioni, diventa una "necessità" a cui è difficile sottrarsi. Ma per questo c'è tempo.