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Discussione: L'Angolo Culturale

  1. #21
    Alleanza Ribelle
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Un articolo importante sulla tradizione musicale popolare italiana.

    Durante: “Chi fa musica folk è un professionista”

    Cosa distingue la musica folk dagli altri generi? Non ci sono in realtà ragioni tecniche, ma semplicemente storiche: da una parte si è infatti sviluppata una tradizione colta, ufficiale perché scritta, frutto di ricerche accademiche e di conservatorio e dall’altra una tradizione orale, popolare perché patrimonio del popolo, tramandata di generazione in generazione. Per questo motivo la musica folk è definita anche musica tradizionale, legata alla pre-cultura, utilizzata per rivivere i suoni, le usanze, le lingue nella loro forma più ancestrale. Oggi la musica folk è parte integrante del patrimonio storico di un popolo, espressione del suo spirito più puro e delle origini più antiche. Proprio perché libera da ogni condizionamento ufficiale è anche musica indipendente dall’influenza mediatica e dall’industria musicale, intrisa di argomento politico e mezzo di denuncia sociale, un vero e proprio canto del popolo, come del resto indica il termine tedesco da cui la parola folk trae origine, Volkslied. Il rai algerino, la musica tuareg, i ritmi devishi, l’hausa e la yoruba nigeriana, la balanta creola, il bamileke camerunense, il turku e il destan turchi, il khorasan persiano, il bhavageete e il bhangra indiano, la musica celtica irlandese, bretone e scozzese, il sami norvegese, il flamenco spagnolo, la tarantella napoletana, la musica gitana dei Balcani, la musica andina del Sud America, il tango argentino, la samba brasiliana, il bolero, la salsa, il son, la rumba e l’habanera cubana, il merengue domenicano, il reggaeton jamaicano sono solo alcuni dei generi propriamente folk che vengono da tutto il mondo. Si tratta di suoni semplici, selvatici, che coinvolgono facilmente e riescono a trasmettere molto più direttamente la cultura di un popolo rispetto a tanti libri o manuali di storia. Qualcuno potrebbe dire si tratti comunque di musica da stregoni e contadini e relegare il folk in un ambito inferiore rispetto al genere autoriale. In realtà il genere folk ha conosciuto una evoluzione senza eguali, una rivalutazione dal punto di vista storico e una costante opera di ricerca dal punto di vista tecnico, che vede oggi un grande numero di artisti, spesso non solo professionisti in quanto musicisti folk ma anche studiosi e ricercatori della tradizione culturale e storica da cui provengono. Espressione del rinnovato interesse verso la musica folk e la tradizione in Italia sono i numerosi festival folkloristici che ogni anno coinvolgono migliaia di persone,tra turisti e locali, in particolare nel Sud del nostro paese. Un vero è proprio fenomeno, non solo dal punto di vista culturale ma anche economico.

    Abbiamo intervistato Daniele Durante, direttore artistico di uno dei maggiori festival di musica popolare in Europa, La Notte della Taranta, un tributo alla pizzica salentina che attira ogni anno turisti da tutto il mondo e che si concluderà con il Concertone di Sabato 27 Agosto a Melpignano, trasmesso in diretta da Rai 5. Durante è uno tra i massimi esperti di musica popolare in Italia, musicista, docente di etnomusicologia e fondatore nel 1975 del Canzoniere Grecanico Salentino, il più importante gruppo di musica popolare salentina. Ecco qualche domanda per scoprire di più sulla musica folk e sulla sua diffusione.

    I festival di musica folk attirano ogni anno sempre più pubblico, anche “lontano” sia geograficamente che culturalmente. Secondo lei cosa lo incuriosisce?

    In primis perché la musica folk entra subito, è di facile ascolto, quindi non richiede una particolare preparazione. Essendo di tradizione popolare è una musica che è stata filtrata da tanti secoli di ascolti consapevoli, come è tipico della tradizione orale è difficile che qualcosa di troppo artificioso si conservi. Non essendo musica scritta non può essere molto complessa quindi incontra subito l’orecchiabile. Un altro punto a favore è il fatto che si possa ballare senza rispettare codici particolari, sentendosi libero di entrare nel ballo, esprimersi e sentirsi parte di una cultura anche se lontana.

    Il folk è per definizione libero dall’influsso mediatico e dell’industria musicale. Riuscirà a mantenere la sua identità? O rischia di ridursi a una moda commerciale?

    In Italia e in particolare in questo periodo è difficile diventare moda. Ormai l’industria discografica e le major di una volta stanno praticamente sparendo. Quello che potrebbe preoccupare sono altri aspetti mediatici, come la radio o il web, che sono sempre alla ricerca della novità e trasformano in frivolo e commerciale qualunque cosa per poi buttarla via. Detto questo non penso che la musica folk possa diventare vittima di questo sistema: coinvolge molte persone, questo è vero, ma persone consapevoli, è musica “ricercata” in un certo senso. Non penso corra il rischio di diventare un genere usa e getta dell’industria mass mediatica.

    La musica folk è musica locale, fortemente legata ai connotati di una cultura. Quanto è importante nella trasmissione della cultura locale alle nuove generazioni?

    Questa è una domanda molto complessa perché tocca un aspetto importante. Mi rendo sempre più conto di come le nuove generazioni perdano la passione per la propria cultura locale, pensiamo al dialetto ad esempio, in alcuni casi è quasi scomparso. Si è perso il valore della trasmissione orale, dello stare insieme. La musica folk ha aiutato e sta aiutando a conservare la tradizione, come ad esempio quella grecanica nel Salento. Non si tratta solo di salvare delle nozioni ma anche di conservare quell’orgoglio, quell’appartenenza culturale che la modernità ha violentemente spazzato via. Non bisogna vergognarsi delle proprie origini solo perché viviamo in una società che annulla le differenze.

    La musica folk è in tutto il mondo, ma sappiamo quando sia meravigliosamente folkloristico il Sud Italia. Pensa una maggiore rivalutazione di alcune realtà possa rappresentare anche un investimento fruttuoso per la ripresa economica?

    L’esempio dei comuni del Salento che si sono uniti, poi aiutati dalla Provincia e dalla Regioni, è la dimostrazione pratica di come la politica, se fatta con intelligenza, possa aiutare nella crescita di fenomeni culturali ma anche economici. Investendo in manifestazioni folkloristiche si coinvolgono non solo musicisti, ma anche artigiani e produttori enogastronomici: non solo si fa qualcosa di culturale e tradizionale, ma si dà lavoro, si contribuisce alla ripresa economica di realtà locali spesso molto piccole ma ricche di potenzialità. Bisogna rendersi conto di questi meccanismi e metterli in atto. La politica deve promuovere, deve prestare attenzione a questa realtà. Il turismo non va fatto solo con pubblicità e foto da copertina, ma invitando il turista a conoscere il folklore di un luogo, ad entrare nella sua cultura. Il Salento penso ci sia riuscito: il nostro trend è sempre in crescita, i turisti amano la nostra terra. Non c’è bisogno di economisti per capire quanto si possa investire nel folklore. I numeri de La Notte della Taranta lo dimostrano.

    La musica folk viene dal popolo e pertanto è nata con una forte connotazione politica. Continua ad essere un mezzo di denuncia sociale?

    Il mondo della musica folk è di spinta popolare, nasce da quella che una volta era la sinistra. Tuttavia ho dei forti dubbi sul fatto che sia rimasta questa particolare connotazione. Si è persa quella verve politica che c’era una volta. Oggi si può parlare più di musica folk di stampo progressista, vicina ai bisogni del popolo e dei lavoratori, ma non quanto lo era per i contadini di una volta.

    Lei è stato fondatore nel 1975 del Canzoniere Grecanico Salentino, il più importante gruppo di musica popolare salentina, nonché docente di etnomusicologia. Come si è evoluta la musica popolare in generale e la pizzica in particolare da allora?

    Quando fondai il mio gruppo, circa quarant’anni fa ormai, la musica folk era di connotazione fortemente politica, era una forma di intervento, un mezzo di resistenza e di opposizione all’imperialismo della cultura di massa per difendere la tradizione, quando ancora non si usava il termine globalizzazione ma già ci si opponeva, ritrovando la propria identità e la propria origine e mostrandola in maniera orgogliosa, attraverso la musica. Eppure con il tempo quella che una volta era musica semplice, priva di tecnicismi, diventava sempre più complessa, più studiata. C’era una maggiore esigenza di professionalità. Se prima lo scopo era solo gridare attraverso i microfoni la propria politicità, la propria protesta, adesso diventava fare della musica di qualità che poteva diventare un lavoro. E un lavoro richiede professionalità. Vorrei infatti sfatare questo mito e risolvere l’equivoco: chi fa musica folk oggi è un vero musicista, un professionista. Se non ci fosse stato questo percorso di specializzazione non ci sarebbe stata la consapevolezza che c’è oggi: certo, è una musica semplice e coinvolgente, ma ad oggi esistono diversi livelli di ascolto.

    Qualche anticipazione sul Concertone di sabato?

    Il Concertone di sabato conterrà quarataquattro pezzi e vanterà di una forte presenza al femminile. Cinque fantastiche ospiti, tra cui Fiorella Mannoia e Carmen Consoli, che apriranno con il brano Femmena Femmena e concluderanno il festival con una meravigliosa Buonanotte in grico, Kalifta. Il nostro scopo sarà anche quest’anno quello di condividere con orgoglio la bellezza della musica popolare pugliese con il nostro pubblico e, perché no, continuare a trasmettere alle generazioni più giovani quella cultura e quelle tradizioni che rischiamo di perdere per sempre.

    Durante: "Chi fa musica folk è un professionista" ? L'Indro
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  2. #22
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    The Clash - Una poderosa macchina da rock and roll

    di Francesco Paolo Ferrotti



    Giornalista musicale sin dal 1979, conduttore di Radio Rai, Federico Guglielmi ha scritto un numero enorme di articoli per le principali riviste specializzate. Attualmente, è responsabile per le pagine musicali del “Mucchio Selvaggio” e direttore del trimestrale di approfondimento “Mucchio Extra”. Inoltre, com’è noto, il giornalista romano è una delle voci più autorevoli in ambito punk, genere che egli segue con grande impegno e passione quasi sin dalle origini. Reduce dalla pubblicazione del suo libro dedicato proprio al punk del ‘77, Guglielmi ha offerto la sua disponibilità per parlare del gruppo che, partito dal punk, riscoprì le fondamenta del rock. Se è vero che a volte i Clash spiazzarono e divisero la critica, anche questa intervista non mancherà di riservarci qualche sorpresa, da parte di chi ha vissuto l’esperienza live del gruppo e il ritmo delle storiche uscite discografiche. C’è tuttavia qualcosa su cui, oggi come ieri, non possono esserci dubbi: ”I Clash erano una poderosa ed eccezionale macchina da rock’n’roll”.

    1. "Il punk è morto quando i Clash hanno firmato per la Cbs": nel 1977, fu la famosa dichiarazione di Mark Perry. Quanto c'era di vero, secondo te? Un gruppo come i Clash avrebbe potuto prendere una strada alternativa e al tempo stesso scrivere grandi pagine della storia del rock?

    Devo essere onesto: ai tempi, valutando le cose dalla mia prospettiva di diciottenne italiano di trent'anni fa, credevo che Perry esagerasse e che il punk avesse ancora davanti un lungo e luminoso futuro. Con il senno di poi, devo dire che l'editore di "Sniffin' Glue" non aveva tutti i torti: lo spirito spontaneo e ingenuo del punk originario, all'inizio del '77, iniziava già a spegnersi, soffocato dal suo esser diventato "moda" e dal business che gli stava crescendo attorno. Per il resto, i Clash sono stati un gruppo in costante evoluzione, come provato dalla loro discografia e dall'incredibile quantità di canzoni composte e pubblicate in un lasso di tempo molto ristretto. Il loro periodo punk è stato tutto sommato brevissimo e credo che il loro percorso sia stato assolutamente naturale: le loro radici erano nel r'n'r e nell'r&b e a quelle radici, dopo la sbornia punk, sono in qualche modo ritornati, seppure in chiave non canonica e attraverso varie contaminazioni. Non so dire cos'altro i Clash avrebbero potuto fare, a livello stilistico, ma non riesco a immaginare in che modo avrebbero potuto essere diversi.

    2. Una formazione spesso citata a proposito dei Clash, sono gli Who: gruppo per certi versi punk ante-litteram, poi anche artefice di complesse opere musicali. Al contrario dei Led Zeppelin, che ereditarono qualcosa degli Who più maturi, qualche anno dopo i Clash guardarono ai primi Who... Quanto è stata determinante la loro influenza nella musica dei Clash?

    All'inizio della carriera, quando si presentarono con "My Generation", gli Who erano indiscutibilmente punk ante litteram... non solo per la ruvidezza della musica, ma anche per alcuni testi: una strofa come "I hope I die before I get old" è, in tal senso, inequivocabile. Un paio di riff di canzoni dei Clash sono ricalcati su quelli di pezzi degli Who, e proprio agli Who - come per chiudere un cerchio - i Nostri fecero da spalla nel tour Usa del 1982. Comunque, per l'intera generazione punk oltre che per i Clash e per Joe Strummer in particolare, Pete Townshend e compagni sono stati una specie di modello ideale, uno dei pochi gruppi dei Sixties a non essere trattati da "vecchi scorreggioni".

    3. Vorrei farti qualche domanda sui lavori del gruppo di cui in genere si parla meno, cominciando dal secondo album, "Give 'Em Enough Rope": dopo trent’anni, a me sembra un ottimo disco, con brani trascinanti come "Safe European Home", "Tommy Gun" e "Cheapskates", con la bellissima "Stay Free" e con la finale "All The Young Punks" in cui i Clash riuscirono anche a fotografare il momento stesso che stavano vivendo. Musicalmente, mi sembra un album potente e che incarna ciò che dovrebbe essere il "rock" senza ulteriori specificazioni. Forse, però, uno dei possibili difetti che trovo è proprio questo: essere troppo "duro e puro" per un gruppo che fece il suo punto di forza nella commistione di diverse influenze musicali. L'altro possibile difetto, il fatto di esser troppo legato al momento storico in cui uscì (come testimonia "All The Young Punks"). Quali sono secondo te i motivi che ne hanno sempre fatto soffrire il paragone con "The Clash" e "London Calling"?

    Beh, direi che solo il fatto di essere uscito tra un esordio folgorante e un album che la storia ha eletto tra i migliori di sempre in ambito rock basta a "squalificarlo", no? Comunque, all'epoca, gli si rinfacciò il suo non essere più tanto punk, anche per via della produzione filo-americana di Sandy Pearlman... la sua perdita di grezzezza a favore di una formula più ragionata. Anch'io penso che, nel complesso, il disco sia più valido di come in genere lo si dipinge - c'è un altro brano eccezionale che non hai citato, "English Civil War" - e che probabilmente senza il suo cambio di rotta non avremmo avuto "London Calling"... ma rimane comunque un vaso di coccio tra due di ferro.

    4. L'Ep "The Cost Of Living" ha segnato, prima ancora di "London Calling", il passaggio dal sound del '77 a sonorità più ricercate. Da dove attingono i Clash in ballate come "Gates Of The West" o "Groovy Times"? Confesso che la prima è in assoluto la mia canzone preferita dei Clash: non trovi che sia un brano da recuperare?

    È un bel pezzo, che guarda nettamente ai Sixties e da lì trae ispirazione pur vantando un "tiro" e una sguaiatezza di chiaro stampo punk. In quei giorni i Clash correvano anche nel ritmo delle uscite discografiche, ed è logico che qualche traccia non abbia goduto di grandi attenzioni: nell'Ep c'erano la cover di "I Fought The Law" e "Capital Radio", episodi più di impatto, e negli Stati Uniti sia "Groovy Times" che "Gates Of The West" videro la luce solo in un 45 allegato all'edizione Usa di "The Clash"... che però fu pubblicata solo nell'estate del 1979, pochi mesi prima del ciclone "London Calling".

    5. "Sandinista!": album monumentale, progetto ambizioso, affascinante intreccio di culture e sottoculture musicali. A volte non sono mancate tuttavia accuse di poca coerenza interna, di dispersività, persino di incompiutezza. Vorrei che mi parlassi un po’ di questo album, del giudizio che ne dai...

    È la definitiva interpretazione della black music data dai Clash, anche se - ovviamente - senza dimenticare il rock'n'roll. Le accuse di scarsa coerenza lasciano il tempo che trovano: era un album nato da una precisa "urgenza", tant'è che uscì appena un anno dopo "London Calling"; vista la quantità di canzoni in esso contenute, pretendere pure un'estrema coesione sarebbe stato eccessivo. Magari, asciugando la scaletta di una decina di tracce, sarebbe suonato più compatto ed equilibrato, ma era pur sempre un triplo Lp venduto al prezzo di un doppio: i pezzi c'erano e si poteva pubblicarli, e allora perché non farlo? I Clash viaggiavano spinti dall'adrenalina e non si curavano dei commenti dei loro contemporanei... figuriamoci se potevano mai preoccuparsi di quello che avrebbero detto, decenni dopo, gli storici del rock.

    6. "Cut The Crap": lo consideri un album dei Clash? E’ da recuperare o da dimenticare?

    Fondamentalmente è un album di Joe Strummer e Paul Simonon, ma con un pesante fardello sulle spalle. A me, ventidue anni fa, non dispiacque, e tutt'ora penso che almeno tre pezzi non siano malvagi. Anche se resta il peggiore disco a nome mai immesso sul mercato, qualche buona freccia al suo arco ce l'ha... di sicuro più di "Carbon/Silicon", l'ultima prova di Mick Jones, del quale taluni sono riusciti non si sa come a parlare bene.

    7. Quanto è stata determinante nella musica dei Clash la maggiore preparazione "tecnica" rispetto ad altri gruppi punk? Può essere considerato come l'elemento che ha permesso ai Clash di sopravvivere al '77?

    All'inizio non credo abbia contato nulla: le armi vincenti sono state la grinta, la forza dirompente delle canzoni e una presenza scenica a dir poco formidabile. In seguito, a fare la differenza sono state la qualità del songwriting e soprattutto l'apertura mentale. Alla tecnica, a quei tempi, non badava nessuno, e comunque non è che il repertorio dei Clash fosse l'ideale per esaltarla.

    8. Ascoltando le registrazioni dei live, ho spesso l'impressione che i Clash fossero diversi in studio e sul palco: molto precisi in studio, molto irruenti e spettacolari (ma spesso poco precisi) sul palco. A questo proposito, che impressione ne avevi tu che, negli stessi anni delle uscite discografiche, li hai visti dal vivo più di una volta?

    Ho in effetti assistito a tre loro concerti: 1980, 1981 e 1984. Però non è che ricordi tantissimo, se non l'eccitazione e l'entusiasmo... insomma, non è che "vivisezionassi" l'evento, mi bastava viverlo. Però ho bene impressi in mente l'elettricità che c'era nell'aria e il dinamismo dei musicisti, che assieme - mi riferisco alle date di Bologna e Firenze, a Roma Jones non c'era già più - costituivano una poderosa, eccezionale macchina da rock'n'roll. Non erano precisi? Credimi, è l'ultima cosa alla quale si poteva pensare, con quei quattro sul palco. E poi, onestamente, non mi pare proprio che i loro dischi siano capolavori di "bella forma": sono ruvidi, piuttosto sporchi, pieni di energia...

    9. Sei stato tra i fortunati ad assistere al primo storico concerto dei Clash in Italia, a Bologna nel 1980. In quell'occasione, pare che Joe Strummer fu dissuaso dall'indossare la t-shirt delle Brigate Rosse, quella che possiamo vedere nel film "Rude Boy"… come andò esattamente? Secondo te, nel 1980, quel tipo di simbologia estremista era soltanto una provocazione in stile "punk" (un po' come la svastica dei Sex Pistols), oppure rischiava di esser presa più sul serio, in particolare dalle nostre parti?

    Il rischio che fosse presa sul serio c'era, eccome... adesso determinate questioni sono state storicizzate e vengono quindi recepite in maniera diversa, ma in quegli anni ancora di piombo c'era poco da scherzare. Non che le svastiche di Siouxsie e di Sid Vicious non evocassero orrori anche più gravi, ma mentre la Seconda Guerra Mondiale era finita trentacinque anni prima, nel 1980 le Br erano ancora un tema di scottante e drammatica attualità. Non so di preciso come andò, non sono stato testimone oculare di nulla, ma se davvero qualcuno convinse Joe Strummer a cambiare T-shirt fece benissimo: lui di sicuro non si rendeva conto di che razza di casino sarebbe accaduto, e per una semplice provocazione - perché di questo si trattava: una cosa è avere idee di sinistra, un'altra appoggiare la lotta armata - non ne valeva la pena.

    10. Vorrei concludere con una domanda che riguarda, più che il gruppo, la tua personale esperienza con la loro musica. Cosa hanno rappresentato, per te, i Clash? Come hanno accompagnato la tua carriera e la tua vita in questi tre decenni?


    Per la mia carriera sono stati una specie di maledizione: nel 1979 non capii subito la grandezza di "London Calling" e lo scrissi, nel 1985 recensii positivamente "Cut The Crap" e nel 1988 - venne fuori - non so come - un assurdo errore di cronologia in un articolo retrospettivo per "Rockerilla". Un incubo. Li ho conosciuti a Firenze, ma ci ho scambiato solo quattro chiacchiere, nulla di ufficiale... e devo dire che non ne ricavai nemmeno un'impressione positiva: sembravano un po' pieni di sé, ma magari era solo un effetto collaterale del "bagno di folla" di quella sera. Il rapporto con la loro musica, invece, è stato molto più liscio, anche se - a parte la presenza ai concerti dei quali si è detto prima - non c'è nulla di personale che mi leghi al gruppo: per me in quanto ascoltatore e appassionato, in quegli anni, sono stati ben più importanti i Ramones, i Devo, i Germs, i Dead Kennedys. Tuttavia riascolto assai di frequente i loro dischi, specie "The Clash" - oltre ai 45 giri che gli fecero da corollario - e "London Calling", più gli altri loro pezzi di orientamento reggae. Nel 1982 mi sono poi trovato ad avere una relazione conflittuale con "Combat Rock", che li innalzò definitivamente al ruolo di star: lo ritenevo “paraculo” e in fondo non sono poi così sicuro di avere cambiato idea, anche se rimane un album straordinario.

    Risponde il critico - - The Clash - Una poderosa macchina da rock and roll :: Gli Speciali di OndaRock
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  3. #23
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Prima che venga chiuso il canale, consiglio a tutti di vedere questo documentario sui Disciplinatha. Band bolognese, politicamente scorretta e sempre pronta a sperimentare (almeno nei tre dischi pubblicati). Non si tratta di un gruppo neofascista. La provocazione è di chiara matrice situazionista e punk. BUONA VISIONE.

    Ultima modifica di LupoSciolto°; 26-05-18 alle 10:07
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  4. #24
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    CARMELO BENE: un gigante




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  5. #25
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Per chi avesse l'occasione, mostre d'arte contemporanea italiana, sul sito informazioni e date.

    Arte Contemporanea, le migliori esposizioni dell'Italia
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  6. #26
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Hermann Nitsch nasce a Vienna in Austria nel 1938.




    Fin dal 1957 concepisce, intimamente legato alla tradizione cristiana, il teatro dell'orgia e del mistero, "Orgien Mysterien Theater", una nuova forma di opera d'arte totale in cui, nel corso di sei giorni, si mettono in scena azioni reali e si coinvolgono tutti e cinque i sensi.

    Ideatore e fondatore di Arte in azione, è profondamente coinvolto nell'attività del gruppo, a Vienna, a partire dagli anni '60, incorrendo ripetutamente in problemi con la giustizia, a causa delle sue forti provocazioni.

    La prima Aktion sperimentale (Blood Organ) si svolge nel dicembre 1962 a Vienna e dura circa 30 minuti. Un uomo è incatenato come se fosse crocifisso e viene coperto con un lenzuolo bianco. L’artista versa sulla sua faccia del sangue che si riversa sul lenzuolo.

    Durante le sue performance – ad oggi oltre 120 - I primordiali istinti umani, che l’artista ritiene repressi dalle norme e dalle imposizioni sociali, riemergono prepotentemente. Ricorda i suoi esordi l’artista: “il colore della carne, del sangue e delle interiora era diventato importante. Dominava il rosso. Il monocromatismo assunse un ruolo arcaico. Tutto si orientava verso il colore dell’estasi, della vittima del sacrificio, della passione, del sangue, della carne”.

    Il modo in cui il sangue (o il colore) si fissano sulla superficie del telo, scorrendo liberamente verso il basso, sarà lo stesso in cui negli anni seguenti Nitsch crea gli Shuettbilder, o “dipinti versati” che caratterizzano la sua produzione.

    In queste opere, è forte il richiamo ai relitti di performance, ovvero i teli utilizzati durante l’azione, impregnati di sangue animale. I motivi degli oli su tela sono assolutamente ricorrenti. Non importa infatti l’originalità della rappresentazione, o la ricerca di elementi figurativi, ma piuttosto la ripetizione di un piano d’azione essenzialmente identico.

    Dal 1971 realizza rappresentazioni a Prinzendorf, sua residenza austriaca, attività che combina con esposizioni, conferenze e concerti in U.S.A., Europa e Austria.

    Nel corso degli anni il suo teatro di performance diviene via via più complesso. Vengono utilizzati animali, come agnelli e vitelli, provenienti dal mattatoio e sfuggiti al ciclo della catena alimentare. Questi capri espiatori vengono sacrificati su croci lignee e sviscerati durante un rito di espiazione collettivo a metà tra simbologia cristologica e pagana. L’artista orchestra le performance che durano anche sei giorni consecutivi, al pari di un sacerdote o di un direttore sinfonico. Il sottofondo delle Aktionen è infatti la partitura di sue composizioni, simili a litanie dei monaci ortodossi.

    Alla fine degli anni ’80 inizia ad utilizzare anche altri colori rispetto ai consueti nero, rosso e viola. Del resto il percorso artistico di Nitsch, simile ad un cammino spirituale, non può fermarsi solo alla pittura. I dipinti versati sono molto simili uno all’altro, e, allo stesso modo delle azioni, comunicano l’intenzione di far vivere un’intensa esperienza esistenziale.

    Nitsch ha esposto al Kunstverein di Colonia nel 1970, a Documenta V e VII di Kassel, alla Biennale di Sidney nel 1988, all'Akademie der Künste di Berlino nel 1993, al Centre Georges Pompidou nel 1994, allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1995. Il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedica una retrospettiva l’anno successivo, cui seguono altre due importanti retrospettive al Konsthallen Goeteborg in Svezia e al Musee d’Art e d’Histoire in Lussemburgo.

    Negli ultimi anni si susseguono mostre antologiche, cui Nitsch alterna le sue infinite performances. Gli viene conferito l’Austrian State Prize in occasione della 122 Aktion al Burgteather di Vienna nel 2005.

    Nel maggio 2007 la città di Mistelbach, a nord di Vienna ha inaugurato un museo a lui dedicato, l’Hermann Nitsch Museum.

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    Mostre personali

    2015
    "existenzfest. Hermann Nitsch und das theater", theatermuseum Vienna, (A)
    "12 works on paper", Galerie Thoman, Innsbruck, (A)
    group shows: "sleepless", 21er haus - Museum for contemporary art, Vienna, (A)
    "Vienna for art's sake", Winterpalais, Vienna, (A)
    "My body is the event", Mumok, Vienna, (A)
    scheduled "Inauguration's action" theatermuseum Vienna; lectures: animal ethic - in dialogue, vetart-kunstforum/Nitsch Museum, Mistelbach, (A)
    Nitsch Museum Mistelbach concerts: "sinfónia für mexico city", ex Teresa Arte Actual, Mexico.
    2014
    "aktionsmalerei", dirimart, Istanbul, (TK)
    "New York 2011", Nitsch Foundation, Vienna, (A)
    "Arena - Opere dell'opera", Nitsch museum, Mistelbach, (A)
    "Malaktionismus", Museo Nitsch, Napoli, (I)
    "Das orgien mysterien theater", Danubiana Meulensteen art museum, Bratislava, (SK)
    "Carne e luce", fondazione Ducci, Rome, (I)
    "Hermann Nitsch", Culture Industries Association, Hong Kong, (JPN)
    "Maculations", Nitsch foundation, Vienna, (A)
    2013
    "sinne und sein - retrospektive", Nitsch Museum, Mistelbach, (A)
    "world metamorphosis", Nitsch Foundation, Vienna, (A)
    "Hermann Nitsch", Studio Morra / alnitak art agency, art Berlin contemporary, (G)
    "Performance Photography - 1960 to 1979", Nitsch Foundation, Vienna, (A)
    2012
    Hermann Nitsch personale im Museum Moderner Kunst Kärnten, Klagenfurt, (A)
    Hermann Nitsch: aus dem gesamtkunstwerk, Galerie Walker, Schloss Ebenau, Rosental, (A)
    In vivo Hermann Nitsch im Centre Pompidou, Paris, (F)
    5 jahre Hermann Nitsch Museum, Mistelbach, (A)
    2011
    Mike Weiss Gallery, Hermann Nitsch: 60 Painting Action_60.Malaktion, New York (USA)
    frühere werke aus der Duerckheim collection, mzm, Mistelbach, (A)
    Hermann Nitsch, Leopold Museum, Vienna, (A)
    2010
    Personal structures. Time-space-existence, Künstlerhaus Bregenz Masterpieces from the Deuerkheim Collection, Hermann Nitsch Museum, Mistelbach (A)
    Pentecost celebration: 130. aktion, Museum Nitsch, Neaples, (I)
    Drawings exhibition at the cabinet des dessins, Musée d'art moderne, St. Etienne, (F)
    Museum Nitsch, Neaples, (I), new nuseum installation
    Stella art foundation, Moscow (RUSSIA)
    Conference, Brixner symposium, Brixen (I)
    Smelling, Nitsch foundation, Vienna (A)
    Concert, Nitsch quintett, Musée d`art moderne, St. Etienne
    2009
    Behind the altar of Hermann Nitsch, Galleria Boxart, Verona (I)
    56. painting performance, Hermann Nitsch Museum, Mistelbach (A)
    Künstlerhaus, Wien (A)
    First representation ägyptischen symphony, Hermann Nitsch Museum Mistelbach (A)
    Publication of the book "das sein"
    Kavernen, Salzburg (A)
    De Pont Museum Tilburg, Holland, incubate festival in Tilburg, Holland GAM, Turin, (I)
    Exhibition Dirimart, Istanbul (T)

    2008
    Galleria Boxart, Verona (Italy)

    2007
    Galerie am Stein, Schärding (A);
    Galerie Fortlaan 17, Ghent (B);
    Niederösterreichisches Landesmuseum St, Pölten (A);
    Galerei Maringer, St. Pölten (A);
    Fondazione Morra, Naples (I)

    2006
    Galerie Curtze (A);
    Galerie White Space, Beijing; Mike Weiss Galery, New York (USA);
    Galerie Yamamoto Gendai, Tokyo (JNP);
    Martin-Gropius-Bau Berlin (G);
    Large Retrospective, Galerie Weihergut (A);
    Primo Piano LivinGallery, Lecce (I);
    Galerie 422, Gmunden (A)

    2005
    Lower Austrian Centre of documentation for modern art, DOK, St. Pölten (A);
    Saatchi Gallery, London (GB);
    Neue Galerie Graz, Graz (A);
    Galerie Christine König, Wien (A);
    Galerie Jünger, Baden (A);
    Station Museum of Contemporary Art Houston, Texas (USA) «actions 1962-2003», Slought Foundation, Phildelphia (USA)

    2004
    Mike Weiss Gallery, New York (USA);
    Museum moderner Kunst Stiftung Ludwig, MUMOK, Vienna (A);
    Galerie Heike Curtze, Vienna (A);
    Brucknerhaus, Linz (A);
    Haus der Musik, Vienna (A);
    Galerie am Stein, Schärding (A)

    2003
    Galerie Kunst & Handel, Graz (A);
    Haus der Musik, Vienna (A);
    Galerie Gerersdorfer, Vienna (A);
    Galerie im Traklhaus, Salzburg (A);
    Hermann Nitsch, works from Sammlung Essl 1960–2000, Sammlung Essl, Klosterneuburg (A)

    2002
    Fondazione Morra, Naples (I);
    Kulturhaus, Bruck an der Mur (A);
    Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, Vienna (A);
    Galerie Heike Curtze, Wien (A);
    Galerie Krinzinger, Vienna (A);
    Museum der Moderne Salzburg Rupertinum, Salzburg (A);
    Galerie Elisabeth und Klaus Thoman, Innsbruck (A);
    Galerie 422, Gmuden (A)

    2001
    Österreichische Galerie Oberes Belvedere, Vienna (A)

    2000
    White Box Gallery, Philladelphia (USA);
    Palazzo Steline, Milan (I)

    1999
    Museum Moderner Kunst Stiftung, Vienna (A);
    Palais Liechtenstein, Wien (A);
    Kiscelli Museum, Budapest (H);
    White Box Gallery, together with Günther Brus, New York (USA), Galerie am Stein, Schärding (A)

    1998
    >Galerie Frank Hänel, Frankfurt/M. (G);
    Galerie Hundertmark, Cologne (G);
    Galerie Fortlaan 17, Gent (B);
    Kulturhaus, Weiz (A);
    Galerie Lindinger & Schmid, Regensburg (G)

    1997
    Retrospective, Konsthallen Göteborg (S);
    Retrospective, Musée d’Art et d’Histoire, Luxemburg (L);
    Neue Galerie, Linz (A);
    Underwoodstreet Gallery, London (GB);
    Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 20er Haus, Vienna (A);
    Kunstraum Innsbruck (A);
    1996
    Gallery Stefania Miscetti, Rome (I);
    Museum Moderner Kunst Stiftung Wörlen, Passau (G);
    Retrospective, Sala Parapalló, Valencis (I);
    painting action and exhibition, Schömer–Haus, Klosterneuburg (A);
    Galleria Guiseppe Morra, Neapel (I);
    Retrospective, Casa Solleric, Palma de Mallorca (E)

    1995
    Retrospective show, Künstlerhaus, Vienna (A);
    Galerie Barlach, Halle k, Hamburg (D);
    Ausstellungen und Aktionen in der Trinitatiskirche, Cologne (G)

    1994
    Raiffeisenhalle, Frankfurt (G), Galleria Tumult, Turin (I);
    Kunsthalle Krems, Krems an der Donau (A);
    Casina Vanvitelliana, Fusaro, Neapel (I);
    Kärntner Landesmuseum, Klagenfurt (A);
    Galerie Fred Jahn, Munich (G)

    1993
    Rány a Mystéria (injuries and mysteries) National Gallery, Prague (CZ);
    Neues Museum Weserburg, Bremen (G);
    Galerie Fred Jahn, München (G);
    Galerie Heike Curtze, Düsseldorf (G);
    Galleria Cattellani, Modena (I)

    1992
    Retrospective on the occasion of the world exhibition, Pabellón de las Aetes, Sevilla (E);
    Galerie Heike Curtze, Schloss Prinzendorf (A);
    Galerie Ursula Krinzinger, Wien (A);
    Galerie Thaddaeus Ropac, Paris (F)

    1991
    St. Petri, Lübeck (D);
    Festspielhaus Bregenz (A);
    Traklhaus, Salzburg (A);
    Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Trento (I);
    Studio d’Arte Cannaviello, Milan (I)
    1990
    Gemeentemuseum, Den Haag (NL);
    Aktionsmalereien, Galerie Heike Curtze, Wien (A);
    1960–63, 1989–90, Düsseldorf Hafen (D);
    Galerie Ottesen, Kopenhagen (DK);
    Galerie AK, Frankfurt am Main (D);
    Galerie Maeght Lelong, Zürich (CH);
    Rupertinum, Salzburg (A);
    Galerie Beaumont, Luxemburg (L)
    1989
    Museum des 20. Jahrhunderts, Wien (A);
    Kunstverein, Salzburg (A);
    Luhring & Augustine, New York (USA);
    Galerie Donguy, Paris (F)

    1988
    David Nolan Gallery, New York (USA);
    Städtische Galerie im Lenbachhaus, Munich (G)

    1987
    Villa Pignatelli, Naples (I);
    20th painting action and exhibition, Wiener Secession, Vienna (A)

    1985
    Galerie Maeght Lelong, Zurich (CH)

    1984
    Galerie Franz Paludetto, Turin (I)

    1983
    Van Abbe Museum, Eindhoven (NL);
    Galerie Fred Jahn, München (G);
    Neue Galerie, Linz (A)

    1982
    Galerie Gadenstätter, Zell am See (A)

    1981
    Galerie Pakesch, Vienna (A);
    Kulturhaus, Graz (A)

    1979
    Galerie Heike Curtze, Düsseldorf (G);
    Galerie Petersen, Berlin (G)

    1978
    Retrospektive 1960–77, Modern Art Galerie, Vienna (A)

    1977
    Galerie de Appel, Amsterdam (NL)

    1976
    Kunstverein, Kassel (G)

    1975
    Galerie Ursula Krinzinger, Innsbruck (A);
    Galerie Stadler, Paris (F)

    1974
    Studio Morra, Naples (I);
    Galerie Diagramma, Milan (I)

    1973
    Galerie Werner, Köln (G);
    Galerie Klewan, Vienna (A)

    1964
    Galerie Junge Generation, Vienna (A)

    1963
    Galerie Dvorak, Vienna (A)

    1961
    Galerie Fuch, Vienna (A)

    1960
    Loyality Club, Vienna (A)

    Mostre collettive

    2014
    "made in Austria", sammlung essl, klosterneuburg; "Im dialog - wiener aktionismus", mdm, Salzburg, (A)
    Biennale di disegno, Rimini, (I)
    142nd action, feast of Pentecost, Prinzendorf Castle; (A)
    77. Painting Performance, Galerie Thoman, Vienna, (A)
    summit "senses and being", Nitsch Museum, mistelbach; aec, Linz, (G)
    “selten gehörten musik”, theater Casino Zug and Musikakademie Basel.
    2013
    "Personal structures", Palazzo Bembo, Venice, (I)
    "La perversión de lo clásico: anarquía de los relatos", Museo Archeologico, Cuba pavillon, 55th biennale Venice, (I)
    "Flesh and blood", museum on the seam, Jerusalem, (ISR)
    "Faces past and present", Ernst museum, Budapest, (U)
    "Seeing Wagner", k.u.k. post- and Telegraphenamt Vienna, (A)
    "Ernesto Balducci and the 'mass of the artists'", fondazione Ernesto Balducci, palazzo Medici Ricardi, Florence, (I)
    "Duetto per Napoli" (Attersee e Nitsch), Castel dell'Ovo, Naples, (I)
    138th action (3-day-play), Centraltheater Leipzig, (G)
    140th action (teaching action), abc Berlin, (D)
    66th painting action, Istanbul contemporary, 141st action (teaching action), Nitsch Foundation Vienna, (A)
    Universität Leipzig, Museum der bildenden künste Leipzig, (G)
    aec linz; concerts: streichquintett "1938", Nitsch Foundation, Vienna, (A)
    "Leipzig symphony" centraltheater, Leipzig, (G)
    "Composition for organ", jesuitenkirche, Vienna, (A)
    Duetto per napoli (attersee/nitsch), teatrino di corte, Naples, (I)
    2012
    Utopie Gesamtkunstwerk im 21er haus, Vienna, (A)
    Levitikus, Innsbruck/Vienna, (A)
    Kunstkulturkirche, Frankfurt; Thoman Modern, Innsbruck, (A)
    Explosion painting as action, Moderna Museet, Stockholm, (SV)
    Galerie 422 margund lössl, Gmunden;, (G)
    Explosion painting as action; Fondacio Joan Miro, Barcelona, (S)
    “A bigger splash: painting after performance art“, Tate Modern, London, (GB)
    135th action Havanna, Cuba, (CUBA)
    64th painting performance at Museo di Arte Moderna e Contemporanea, Mart Rovereto, (I)
    concerts: sinfonie for 100 pianists and 33 pianos and 1 synthesizer, tag der tausend finger / oö kulturquartier Linz, (G)
    2011 Blood Lines, mca Denver;
    60th Painting Action, Mike Weiss Gallery, New York (USA)
    Obsession and intimacy: the body in Contemporary Austrian drawings - from Alfred Kubin to Birgit Jürgenssen, b&m theocharakis foundation for the fine arts and music, Athens, (GR)
    131th teaching action, Leo König inc., New York, (USA)
    Eroi, GAM, Turin, (I)
    Personal Structures, Palazzo Bembo, Venice, (I)
    Costumes and settings by Hermann Nitsch for Saint Francois d`Assise by Olivier Messiaen, bayerische staatsoper München, (G)
    Organ Concert, Mozarteum, Salzburg, (A)

    http://www.boxartgallery.com/profilo.php?id=68#
    Ultima modifica di LupoSciolto°; 22-05-18 alle 20:24
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  7. #27
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Angel Boligan e l’umorismo amaro dei suoi fumetti




    Si chiama Angel Boligan Corbo, ed è l’autore di una serie di fumetti e caricature che contengono messaggi piuttosto amari. Nato il 10 maggio 1965, negli anni ’80 Boligan si diploma presso la Scuola Nazionale di Istruttori d’Arte a L’Avana, Cuba. Attualmente collabora come fumettista editoriale della rivista Umorismo “El Chamuco” ed è grazie a questa attività che ha ricevuto ben 120 diversi premi e menzioni in concorsi internazionali del fumetto.

    Come spesso accade, gli artisti sfruttano le loro capacità artistiche per esprimere diversi stati d’animo, ricorrendo a tecniche disegnative e colori adattati al tipo di messaggio che vogliono trasmettere all’osservatore.
    Quella del fumettista cubano, si pone proprio questo principale obiettivo: far riflettere il suo pubblico con tratti decisi e con uno stile particolare e caratterizzante.

    La sua non è altro che una denuncia contro la società del nostro tempo. Sono tanti gli aspetti negativi che vengono messi in evidenza nelle sue illustrazioni, tra cui il consumismo, la corruzione, l’ipocrisia, la violenza, la maleducazione (una sottocultura dell’ignoranza), ma anche la solitudine, la vanità e la disperazione, componendo così un grigio affresco della situazione sociale e politica che stiamo vivendo.

    Quasi come un “umorismo pirandelliano“, le vignette pungenti di Boligan Corbo mescolano al ridicolo la pietà, provocando risa amare.

    Di seguito un breve rassegna delle vignette più crude di Boligan.

    Angel Boligan e l'umorismo amaro dei suoi fumetti







    https://www.blogdicultura.it/angel-b...etti-2252.html
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  8. #28
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Laibach, la scoperta tardiva di una band decennale




    La stampa internazionale scopre oggi l’esistenza dei Laibach raccontando l’evento di Pyongyang e spesso fraintendendo l’essenza della band e dell’evento in sé. Ma è una scoperta buona che lascia sospeso il giudizio verso le intenzioni della band ( Epochè sembra essere un concetto essenziale anche per il progetto Laibach ) e forse apre nuovi meritati scenari per la band Slovena anche tra un pubblico fino ad ora indifferente.


    aibach è il granitico nome germanico della città slovena di Lubjana. Ma è a Trbovlje che un coraggioso ensemble di figure interessate alla musica d’avanguardia e all’espressione artistica prende il nome di Laibach per iniziare una esplorazione di incandescenti panorami industriali fatti di suoni concreti e campionamenti ambientali della produzione seriale e dell’eco sferragliante dei capannoni. Siamo nel 1980 e nel mezzo della cosiddetta “cortina verde”, in un ambiente storico e politico poco favorevole alle libertà espressive, difficili da incasellare, iniziano le prime emanazioni di un progetto di ampio respiro che comincia subito a farsi un nome nei circuiti sotterranei paralleli alla mail art fatti di cassette scambiate e di produzioni a tiratura estremamente limitata.
    Attorno al gruppo Laibach si crea una sorta di movimento artistico simile a quello della avanguardie europee d’inizio secolo. Il movimento chiamato Neue Slowenische Kunst si occupa soprattutto di estetica del dominio, dell’annullamento dell’individuo nella grandezza della massa. Si mette in scena l’architettura e le coreografie delle dittature assolute del novecento assorbite ormai come archetipo estetico. L’accompagnamento fatto di suoni duri, proto-elettronici e industriali sono la colonna sonora per le disturbanti performance fatte di proclama politici situazionisti e di estetica militare portata in scena senza parvenza di critica o analisi di sorta ma semplicemente come pura immagine e manifestazione di potere e dominazione. Tutto questo diventa emanazione di una nazione psicogeografica ideata dai Laibach come specchio dove l’occidente può specchiare il suo vero volto: la NSK.

    Musicalmente i Laibach passano negli anni da una difficile musica concettuale ad un turbinio più accostabile fatto di suoni elettrici e marziali. Riproducono dischi storici della musica occidentale (da Let it be dei Beatles al Machbet) come traduzione censoria di un ipotetico MinCulPop di nazione fantasma isolata dal mondo esterno. Traducono il pop attraverso voci rudi quasi gutturali, suoni duri e potenti distorsioni. Producono un album (Volk) dove reinterpretano tutti i più importanti inni nazionali trasformandoli in pezzi complessi e spesso aggressivi. Con il tempo diventano una band fondamentalmente mainstream influenzando silenziosamente una grossa fetta di musica moderna fino a firmare la colonna sonora del polpettone fantascientifico da botteghino Iron sky . Arrivano fino ai tempi recenti con Spectre, un disco raffinato e dal respiro elettronico europeo.
    I Laibach sono una band che divide e lascia spesso basiti anche i fan più radicali. Non sempre è chiaro dove sia il confine tra burla e seria operazione musicale come nel caso di alcune strane cover anche di sconosciuti pezzi pop Italiani . Difficile capire dove si trova il limite tra convinzione artistico-ideologica e situazionismo estremo per una band come i Laibach però quello che è certo è il loro ingresso nella storia come prima band occidentale a suonare a Pyongyang in occasione delle celebrazioni ufficiali per la fine della seconda guerra mondiale. L’evento è stato il 19 e 20 Agosto nel teatro delle Arti di Ponghwa di fronte a un pubblico selezionato. E’ curioso come sia proprio una band che trasmette l’estetica di un certo tipo di occidente rimosso ad essere la prima ( e forse unica) band occidentale invitata ad esibirsi nell’ultimo dei regni lontani inaccessibili al mondo esterno. La corea del nord, ultima delle nazioni ostili per antonomasia. Una di quelle nazioni sfuggite al disgelo della guerra fredda. Un ricordo di tempi lontani di blocchi contrapposti, di isolamento culturale sfuggito all’appiattimento.
    Inutile dire che questa decisione porta con sé un mare di polemiche per chi si è trovato, dopo 30 anni di carriera per la band Slovena, a rendersi conto che in fondo quello dei Laibach non è affatto uno scherzo né una posa. Una parte di fans si ribella alla decisione di prestarsi ad una dittatura all’indice di Amnesty International. Qualcuno pensa al boicottaggio ma la cosa sembra essere per lo più superata dalla rivelazione che di band limpide e artisticamente coerenti come i Laibach non ce ne siano molte.

    La stampa internazionale scopre oggi l’esistenza dei Laibach raccontando l’evento di Pyongyang e spesso fraintendendo l’essenza della band e dell’evento in sé. Ma è una scoperta buona che lascia sospeso il giudizio verso le intenzioni della band (Epochè sembra essere un concetto essenziale anche per il progetto Laibach) e forse apre nuovi meritati scenari per la band Slovena anche tra un pubblico fino ad ora indifferente.

    Laibach, la scoperta tardiva di una band decennale | L' Intellettuale Dissidente
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  9. #29
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Storia del rock russo


    San Pietroburgo, fino al 1991 chiamata Leningrado, è stata per lungo tempo la capitale russa del rock, punto di riferimento e luogo di avanguardie musicali dando vita a gruppi musicali che sono rimasti nella storia di questo genere.

    A tutti gli interessati, SPB24 propone una piccola storia del rock russo evidenziando le tappe principali della sua evoluzione ed i nomi degli artisti e delle band che hanno rappresentato i caposaldi nel periodo dell’URSS ed in quello successivo della Federazione Russia: Sokol, Skify, Veselye Rebjata, i più recenti Akvarium, Kino, DDT o Alisa sono un must per tutti coloro che vogliono saperne di più sulla storia russa degli ultimi cinquant’anni. Accanto alla traslitterazione in caratteri latini riportiamo anche i nomi originali per tutti coloro che volessero effettuare una ricerca più approfondita.

    Troppe di queste canzoni si sono scolpite nelle abitudini dei russi e vengono costantemente cantate o riproposte ad ogni festa: fanno parte di questa cultura in quanto rispecchiano gioie, dolori, timori e grandezze di questo popolo.

    Questo video è del gruppo Chaif, il cui nome è una sorta di fusione tra le parole russe "kaif" (sballo) e "chaj" (te, che presso i russi è molto diffuso). Il titolo della canzone in italiano è "Ahi, ahi, nessuno sentirà":



    Gli anni ‘60

    Esattamente come nel resto dell’occidente, il rock è apparso in Russia, all’epoca chiamata URSS, negli anni ’60: infatti, i primi gruppi beat si sono formati proprio in quel periodo e proponevano cover delle hit europee o americane. La storia del rock russo può essere divisa in due “ondate” e gli anni ’60 rappresentano il primo momento di splendore di questo genere.

    La prima canzone rock in lingua russa risale al 1965 e fu opera del gruppo chiamato Sokol («Сокол»), collettivo storico ispirato ai primi gruppi hippies di Mosca che, nonostante non fossero visti di buon occhio, si andavano formando nella capitale: la canzone si chiamava «Il sole sopra noi» («Солнце над нами») ed in brevissimo tempo divenne bandiera del movimento in espansione.

    Altri gruppi di successo nel decennio furono gli Skify («Скифы»), gli Argonavty («Аргонавты»), i Sokol («Сокол»), gli Skomorokhi («Cкоморохи»). Recentemente, all'inizio degli anni 2000 i membri del gruppo Skify incisero quei pezzi che non avevano potuto incidere all'epoca e questo dà l'idea dell'ottimo livello del rock russo degli anni '60: le moderne sonorità di quelle canzoni potranno essere apprezzate non solo dai conoscitori della lingua russa, ma da tutti gli amanti della musica in generale, grazie agli originali effetti sonori ed alla qualità del suono.

    Gli anni '60 erano il periodo dei Beatles, passione ai limiti dell'idolatria che inevitabilmente approdò anche nell'URSS. Quasi in ogni scuola venivano fondate delle tribute band in onore dei ragazzi di Liverpool ed alcune di queste divennero col tempo tra i più autorevoli esponendi della musica russa: ricordiamo, tra i tanti, i Rubinovaja Ataka («Рубиновая атака»), gli Udachnoe priobretenie («Удачное приобретение»), i Mashina Vremeni («Машина времени»).

    Si dice che con l'inizio degli anni '70 scemi anche il primo momento di splendore della musica rock: l'apoteosi avvenne in corrispondenza con il festival Erevanskij, che si svolse annualmente dal 1968 al 1972 e che attirò sui propri palchi i più importanti gruppi dell'epoca.

    Per proseguire nella lettura e nell'ascolto
    Storia del rock russo
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  10. #30
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    ESSERE PUNK E SENTIRSI PUNK: GIOVANNI LINDO FERRETTI E NOI

    di Paolo Bonari


    Questo non vuole essere e non sarà l’ennesimo articolo dedicato all’ultima “mattana” di Giovanni Lindo Ferretti, né la rassegna aggiornata degli insulti che quotidianamente vengono riversati nei suoi confronti, dai luoghi più disparati della Rete: innanzitutto, perché la questione della sua inversione (o contorsione) ideologica non è affare di oggi né di ieri, ma data a quasi tre lustri fa; poi, perché il suo caso può dirci qualcosa di molto più interessante e che riguarda tutti noi, ancor più che lui.

    “Scandalizzare gli scandalizzatori”: forse, l’ultimo tratto della parabola evolutiva dell’ex leader dei CCCP Fedeli alla linea, dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) e dei PGR (Per Grazia Ricevuta) potrebbe essere riassunto così, con la precisazione che il complemento oggetto dello slogan necessita di una riformulazione. “Finti scandalizzatori”, ovvero nuovi conformisti. Leggere le mutazioni di Giovanni Lindo Ferretti significa leggere (almeno) gli ultimi trent’anni di storia italiana: se, negli Ottanta, si andava affermando una generazione progressista filo-occidentale, sulla scorta della nascita del quotidiano “la Repubblica” e della scelta di campo atlantica del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer, al punk Ferretti non restava che appartenere a una sinistra radicalmente alternativa, densa di riferimenti vintage e addirittura kitsch, filo-sovietica e addirittura filo-islamica, tracciare un curioso meridiano che unisse l’Appennino tosco-emiliano e gli Urali.

    L’obiettivo polemico di riferimento, insomma, non era tanto o soltanto la destra nuova di Reagan e Thatcher, che si era recentemente impossessata del potere negli Stati Uniti e nel Regno Unito, quanto un certo ceto medio e medio-progressista. (Si perdoni la dizione fantozziana, ma è così che si presentava il Megadirettore Galattico in persona, replicando al Ragioniere che, trasfigurato in agitatore rosso e rannicchiato sull’inginocchiatoio, avanzava rischiose ipotesi ideologiche: “Bè, proprio comunista no… Vede, io sono un medio-progressista”). Non sarà facile, allora, assistere alla glorificazione di Giovanni Lindo Ferretti presso certi ambienti – peraltro gli unici, oggi, in grado di allestire una glorificazione come si deve –, dominati da un’élite culturale che si è affermata e ha scalato posizioni sull’onda delle parole d’ordine di ogni e qualsiasi micro-rivolta sia divampata in Italia: comodamente adagiata sugli stilemi auto-promozionali e comunicativi che sono entrati in voga nel Sessantotto e dai quali, mezzo secolo dopo, non riusciamo ancora a liberarci, quest’umanità diffusa di simil-antagonisti influenti ha incontrato lungo la propria traiettoria un osso duro, un punk con tutti i crismi che ha deciso che non avrebbe mollato la presa.

    Si ricorda un servizio pubblicato sull’Espresso sul fenomeno musicale che stava interessando l’underground italiano degli Ottanta, i CCCP Fedeli alla linea: un caso di incomunicabilità estrema. Infatti, pur restando all’interno dello stesso campo politico, a separare i due mondi correva la distanza di una Transiberiana, su per giù: una testata che aveva ottenuto influenza e rispettabilità promettendo di essere il luogo d’incubazione di una New Left all’italiana, risolutamente democratica e (quasi) liberale, e una comunità ideologica truce e premoderna, malata e (di)sgraziata, adeguatamente rappresentata dalle movenze sghembe del ballerino più improbabile che sia stato visto calcare un palcoscenico, quel Fatur che accompagnava il salmodiare di Ferretti con sguardo vitreo, scatti muscolari, crisi di nervi.

    Schifati, i nuovi progressisti che stavano colonizzando la sinistra italiana osservavano il Ferretti di allora; schifati, i progressisti di oggi, a colonizzazione avvenuta, osservano il Ferretti destrorso e born-again Christian all’italiana – anzi, all’emiliana – che ha traslocato sul lato opposto della barricata, per continuare a porsi contro un establishment che, nella sua visione, ha cambiato di segno. Se, infatti, gli anni Ottanta si ricordano come l’epoca del reaganismo e del thatcherismo, o del craxismo in Italia, Ronnie & Margaret hanno finito per incarnare, specialmente nell’ultimo decennio, i bersagli preferiti di buona parte della sinistra, che ha fatto del mitologico neoliberismo la radice di ogni male, il capro espiatorio universale, almeno a partire dalla crisi del 2008. Il fatto interessante è che entrambi gli schieramenti in campo continuino ad auto-rappresentarsi come alternativi, rispetto alla posizione che sarebbe quella dominante: cioè, essere punk dipende da chi si preferisca vedere ai posti di comando. Un altro che sembra posizionarsi all’opposizione, oggi come allora, tanto per dire del punk più ortodosso e originario, è John Lydon, meglio conosciuto come “Johnny Rotten”: se i suoi Sex Pistols, più aggressivi e tetragoni rispetto ai guasconi – e quasi reggae! – Clash, godevano nello sberleffo anti-thatcheriano, è stato proprio lui, voce del gruppo, a scendere in campo più volte in difesa della Lady di Ferro, negli ultimi anni.

    Giovanni Lindo Ferretti, dal canto suo, ha rappresentato una pietra di paragone per più generazioni di giovani italiani: per quella di chi scrive, per un’altra più recente e per i più anziani, cioè per chi ha vissuto live i tempi gloriosi dei CCCP Fedeli alla linea, per chi ha attraversato i Novanta accompagnato dai più mistici CSI e per chi ha potuto apprezzare soltanto l’estrema propaggine del Ferretti non ancora solista, cioè i PGR degli anni Zero. Pietra di paragone o banderuola? La sua figura sembra in grado di dirci molto sui mutamenti ideologici internazionali e della nostra stessa società, e suggerirci che l’élite culturale e politica del nuovo progressismo è il solo e vero establishment, oggi: se le posizioni di Ferretti ci disturbano, ci disgustano, ci paiono orripilanti, in ciò consiste la sua vittoria e ci dovremo rassegnare a essere noi i perbenisti, i benpensanti, i nemici di ogni punkitudine. Non ha alcun senso, infatti, opporsi astrattamente al capitalismo o al liberismo vecchio e nuovo, se lo si fa all’interno di un habitat confortevole e fortemente solidale con noi: per essere punk, bisogna rivoltarsi proprio contro chi ci è più vicino e, da questo punto di vista, la vicenda dell’ex-idolo dei giovani dell’estrema sinistra è esemplare. Si parva licet, qualcosa di simile a quel mutamento ciclico della fazione cui appartenere che proponeva Simone Weil, secondo la quale la giustizia era un’“eterna fuggiasca dal campo dei vincitori”.

    Distinguere i punk dai simil-punk, da chi è cresciuto nella certezza di essere rivoluzionario e non si è accorto che stava lentamente scivolando verso le dorate stanze dei bottoni: molto più civilizzati di un cantore reazionario che è andato a rifugiarsi a Cerreto Alpi, i simil-punk urbani di successo vengono riconosciuti socialmente e omaggiati, tanto che il loro cursus honorum di simil-antagonismo si conclude solitamente con una mirabile laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione, con tanto di prolusione davanti agli studenti… A Giovanni Lindo Ferretti, invece, difficile che possa andare a finir così, e c’è da credere che il primo a lanciargli il calamaio, qualora egli provasse a varcare il portone di una facoltà universitaria italiana, sarebbe proprio quel professore ordinario che, seduto comodamente sulla propria poltrona, preferisce continuare a sentirsi risolutamente anti-Sistema, cresciuto com’è con le note di “Io sto bene” e “Curami”: in due titoli così antinomici sta molto di Ferretti, del Ferretti di oggi e di sempre, ma questa è ancora un’altra storia.

    Essere punk e sentirsi punk: Giovanni Lindo Ferretti e noi - minima&moralia : minima&moralia
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

 

 
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