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«Nessun Aleksandar ha regnato a lungo in Serbia», ha dichiarato qualche giorno fa in un'intervista per il Financial Times il presidente serbo Aleksandar Vucic. La dichiarazione, rilasciata con i consueti toni melodrammatici, si riferiva direttamente a re Aleksandar, ucciso insieme alla regina Draga nel colpo di Stato che nel 1903 mise fine al regno della dinastia Obrenovic.
Implicitamente, invece, si riferiva al riconoscimento del Kosovo, che potrebbe costare a Vucic un crollo in popolarità, ma anche un passo storico per il futuro del Paese.
Il 2018 potrebbe dunque passare alla storia come l'anno di una svolta epocale per la Serbia, e forse per l'intera regione. Da mesi, infatti, diverse speculazioni mediatiche lasciano intendere che questo sarà l'anno decisivo, di preparazione per la soluzione dell'annosa questione del Kosovo. In particolare, l'ago della bilancia politica di Belgrado oscilla tra il mantenimento di quella che, de iure, continua a considerare una propria provincia autonoma e l'integrazione nell'Unione europea, che la Commissione ha recentemente previsto per il 2025.
In un'altra intervista, rilasciata quattro mesi fa a Happy, emittente vicina al governo, il presidente serbo si era rivolto alla nazione affermando che la Serbia o risolve “il problema del Kosovo”, oppure sarà condannata al fallimento, aggiungendo che il Paese non potrebbe accedere all'Unione europea senza un accordo giuridico vincolante che sottintenda una chiara definizione dei propri confini.
«Vucic parla e ricorda attentamente, cosciente dello stato d'animo del popolo, che il Kosovo è perduto, che c'è stata una guerra, che abbiamo firmato una capitolazione, che non c'è lo Stato serbo in Kosovo, che non vi sono istituzioni serbe, che è stata dichiarata l'indipendenza e che il tribunale penale internazionale ha confermato che questa non è contraria alla Carta delle Nazioni Unite, né al diritto internazionale, né alla Risoluzione 1244. Afferma anche che oggi i serbi in Kosovo sono poco più del 5%, che se ne stanno andando e che anche la Serbia si sta svuotando, che la gente fa la coda per raggiungere i Paesi occidentali. E tutto questo è vero. Infine, [Vucic] afferma di essere contrario a un conflitto congelato», ha dichiarato a Radio Free Europe, l'ex ministro degli Esteri serbo Vuk Draskovic.
Nell'estate del 2017, Vucic aveva inaugurato il cosiddetto “Dialogo interno sul Kosovo”, per trattare pubblicamente lo status di quella che è ormai un'ex provincia della Serbia. Tuttavia, il dialogo non ha avuto interlocutori estranei al governo e lo stesso Vucic è di fatto l'unico plenipotenziario sulla questione che più di tutte lo ossessiona – come ha riconosciuto al Financial Times.
L'ossessione del presidente riguarda innanzitutto le pesanti implicazioni politiche che potrebbe avere un riconoscimento legale dell'indipendenza di Pristina. L'élite nazionalista serba, l'opposizione ma soprattutto la Chiesa Ortodossa Serba, potrebbero ascrivere Vucic tra i “traditori della patria”, considerata la carica simbolica che il Kosovo continua a esercitare nell'epopea nazionale serba.
L'avvicinarsi del momento storico sembra infatti distanziare di molto le posizioni del presidente e del governo da quelle della chiesa autocefala serba. Lo scorso 10 maggio, presso il patriarcato di Pec, in Kosovo, si è concluso il sinodo tra i vertici della chiesa, che si è espressa in modo inequivocabile sulla questione: «Ci appelliamo alle nostre cariche statali, affinché non diano mai il proprio assenso all'alienazione del Kosovo e Metochia, poiché quello che si prende con la forza, poi tornerà, chè quando si regala qualcosa a qualcuno questo è perduto per sempre, e questo i serbi e la Serbia non possono permetterlo».
E secondo alcune speculazioni, per superare i dissidi che potrebbero assestare un duro colpo al governo serbo, Vucic potrebbe indire un referendum. Non è chiaro quale potrebbe essere il quesito a cui sarebbero chiamati a rispondere i cittadini, ma non è da escludere che il presidente possa approfittare dell'apposita chiamata alle urne per testare anche il proprio indice di gradimento.
Tramite referendum, il popolo sarebbe di fatto invitato a scegliere tra Kosovo e Unione europea; tra passato e futuro - viene da dire.
Eppure, secondo un recente sondaggio condotto dall'Istituto per gli Affari Europei, addirittura l'81% degli intervistati non supporterebbe un riconoscimento del Kosovo in cambio di un più rapido ingresso nell'Unione. Un dato preoccupante che Vucic potrebbe aggirare con un quesito referendario in cui richiedere il consenso ad occuparsi in prima persona della questione - anche se di fatto è già l'unico interlocutore con Pristina e Bruxelles. In questo modo, inoltre, il presidente sonderebbe ancora una volta la fedeltà del suo elettorato, in vista di eventuali elezioni anticipate che potrebbero seguire lo storico riconoscimento.
«Vucic ha un'opposizione come nessun altro politico serbo ha mai avuto negli ultimi vent'anni, [perfetta] per risolvere questo problema», ha dichiarato a Radio Free Europe Sonja Biserko, presidentessa del Comitato Helsinki per i diritti umani in Serbia, riferendosi alla debolezza dei partiti d'opposizione. E aggiunge: «Si tratta, a tutti gli effetti, di una questione di coraggio politico, di una questione di cuore, intelligenza e razionalità».
Quel che è certo è che ormai è solo una questione di tempo. Con l'incognita referendum ad aumentare la suspense. In tal caso, il popolo serbo dovrà decidere se sarà disposto a sacrificare parte del proprio mito nazionale in cambio di un futuro nel club europeo. I negoziati di Bruxelles, nel frattempo, potrebbero portare alla nascita dell'agognata Associazione di Comuni Serbi, che aiuterebbe i centomila serbi rimasti in Kosovo a rendere la pillola meno amara.
Il 2019, sarà l'anniversario numero 800 dalla nascita della Chiesa Ortodossa Serba, che proprio dal Kosovo trae le proprie origini, e che per questo potrebbe determinare una scomunica politica di Vucic. Ma forse, finalmente, sarà anche l'inizio di un periodo di pace per l'intera regione.