I recenti tumulti nella provincia cinese a maggioranza mussulmana dello Xinjiang hanno riportato alla luce le problematiche relative ai conflitti etnici e l'impellente necessità per la Repubblica Popolare Cinese di aggiornare la propria politica in materia di aree cuscinetto nelle proprie zone di confine. Oltre alle questioni connesse con la gestione delle spinte autonomiste all'interno delle frontiere occidentali, la Cina si trova a dover affrontare nuove e pericolose situazioni di squilibrio nei confinanti Paesi dell'area centro asiatica, in primo luogo la violenta crisi kirghiza dell'aprile scorso, sfociata nella pulizia etnica contro la locale minoranza uzbeka.

Questo contesto vede coinvolta un'area geografica che si estende dall'Afghanistan al Pakistan, sino ad arrivare ai confini della Russia. A ben vedere, si tratta di una regione che, nei secoli recenti, è stata costantemente al centro dello scontro dei “grandi imperi”: già nel XIX secolo l’Inghilterra della Compagnia delle Indie fronteggiava le mire espansioniste russe dello Zar Alessandro I, e, in tempi assai più recenti, negli anni settanta del XX secolo diventava teatro delle operazioni sovietiche contro i mujiahideen, fino ad essere, oggi, il principale campo di battaglia per la lotta al terrore.

È in questo contesto che la Cina si presenta come nuova protagonista del “Grande Gioco”: a differenza della Russia e degli Stati Uniti, però, essa non vede le repubbliche centro asiatiche solo come un trampolino di lancio per la proiezione delle proprie truppe. Ne è esempio il fatto che entrambe le superpotenze, russa ed americana, hanno nell'area delle basi aeree presidiate da forze speciali, come quelle dei marines e degli spietnatz nei pressi di Bishkek. Mentre per questi due paesi i giochi si svolgono prettamente sul piano militare e politico, la Cina percepisce la regione come un fertile terreno per i propri investimenti esteri, nonché come zona preferenziale di approvvigionamento di materie prime, dall'uranio del Kazakistan al gas naturale dell'Azerbaijan.

In questa situazione, mentre l’Unione Europea sollecita le repubbliche centro asiatiche affinché adottino un modello democratico, che dovrebbe aiutare a sconfiggere l'imperante corruzione e il nepotismo all'interno della macchina pubblica, la Cina si muove silenziosamente e con estrema efficacia. Seguendo il modello già sperimentato con successo in Africa, punta all’inserimento nel tessuto sociale ed economico, tramite ingenti investimenti diretti e con cospicui flussi di lavoratori migranti, che dai confini del Xinjiang si impiantano stabilmente nei paesi limitrofi.

Il Xinjiang diviene così per la Cina un'area ulteriormente strategica per l’attuazione della propria politica estera e di soft power nell’Asia Centrale, ma anche un fertile bacino per l'approvvigionamento di intelligence e di esperti sulla mutevole situazione degli equilibri regionali nell’area. Tutto ciò accade in una regione dove più del 45% della popolazione autoctona appartiene all’etnia uigura e non a quella cinese han, anche se una sorta di politica di “emigrazione incentivata” attuata dal governo centrale ha portato la presenza han al 40% della popolazione complessiva; agli uiguri maggioritari e alla quasi altrettanto numerosa presenza han si aggiungono minoranze kazakhe, kirghize ed uzbeke che hanno mantenuto forti legami familiari con le etnie omologhe al di là dei confini.

Non va dimenticato che l'Ue incontra forti ostacoli “naturali” quando si confronta con realtà politiche e di potere locali la cui struttura risulta molto più vicina al modello cinese di capitalismo autoritario di quanto non lo sia al modello democratico europeo; nel contempo, l’operato dell’Unione tramite la sua azione diretta in seno dell’Osce e quella indiretta delle Ong ha permesso la formazione di un’embrionale società civile e di una coscienza democratica, che diversamente avrebbe ben poche possibilità di trovare una via autonoma per esprimersi.

Dal punto di vista geopolitico l'area si presenta come un crogiolo di alleanze e di intese strategiche che si sovrappongono ambiguamente fra di loro, dal Csto (Collective Security Treaty Organisation) all’Sco (Shanghai Cooperation Organization), sino all'odierna presidenza del Kazakistan all'interno dell'Osce (Organization for Security and Co-operation in Europe).

Pur vantando due secoli di esperienza nel controllo indiretto e nella cessione temporanea dei propri stati cuscinetto, la Russia si trova in una posizione difensiva nei confronti delle neonate repubbliche centro asiatiche, anche se queste ultime mantengono una struttura statale ancora incardinata su funzionari di medio ed alto livello che hanno ricevuto una formazione universitaria moscovita. Non deve quindi meravigliare che ranghi interi dei funzionari di stato, pur provenendo da una etnia autoctona, parlino unicamente russo ed abbiano una conoscenza sommaria delle lingue locali.

È questo il contesto estremamente complesso nel quale si sta inserendo la Cina, con una penetrazione molto veloce nel tessuto economico delle aree più ricche come il Kazakistan, e certamente facilitata da un repentino ridimensionamento della politica diplomatica americana nell’area, con l’avvento della presidenza Obama.

La Repubblica Popolare Cinese da sempre vede con sospetto e timore tutti i paesi confinanti che dimostrino una spiccata instabilità interna ed una propensione verso conflitti etnici che potrebbero fungere da stimolo e fornire ispirazione per le minoranze cinesi appartenenti alle stesse etnie, presenti nel composito mosaico del tessuto sociale della provincia autonoma dello Xinjiang; e in questo senso, il Kirghizistan è certamente fonte di preoccupazione. Il nuovo presidente kirghizo ad interim, Roza Otunbayeva, a differenza del predecessore esautorato nei tumulti di aprile, mostra una spiccata tendenza filo russa.

Dal canto suo, la Russia, pur avendo offerto esperti di peacekeeping, non pare avere intenzione di imporsi militarmente nell’area, com’era invece avvenuto nel 2008 in Georgia, in nome della difesa della minoranze ossete presenti nel paese. È utile tenere presente che l’esercito russo, provato dal conflitto ceceno, deve comunque mantenere una forza efficiente nell’area caucasica per contenere le spinte del separatismo islamico. Risulta pertanto probabile che Mosca si limiterà a muoversi nell’ambito dei parametri previsti dal trattato del Csto, che contempla l’interazione tra gli ex stati sovietici del Kirghizistan, Kazakistan, Bielorussia, Armenia, Uzbekistan e Tajikistan in caso di necessità di mutuo soccorso.

Ampliando lo sguardo ad uno scenario che includa anche la Cina, e quindi la provincia del Xinjiang, vale la pena di notare come, subito dopo gli scontri etnici tra uzbeki e kirghizi nella città di Osh nel Kirghizistan meridionale, la Cina e l’Uzbekistan abbiano sigillato le proprie frontiere, per scongiurare il rischio di una supposta marea di rifugiati uzbeki entro i propri confini, stimata sulle 200.000 unità. Pur considerando il Kirghizistan come fonte di materie prime e di energia a basso costo, è probabile che Pechino non voglia accennare ad entrare a pieno titolo in un’area da sempre entro la sfera d’influenza politica del vicino russo. Lo stesso Kirghizistan, pure avendo già entro propri confini una minoranza han, deve altresì tenere conto di una forte enclave russa, stabilitasi nel 1936, a seguito della politica sovietica di insediamento di russi nelle aree periferiche della confederazione. Nel contempo, la politica estera americana guarda con relativa preoccupazione al crescente peso geopolitico della Cina in relazione ai problemi di sovranità del mar cinese meridionale piuttosto che alle mire espansioniste di Pechino verso l’Asia Centrale.

Nel frattempo, Pechino rafforza il proprio soft power in Asia Centrale; con una politica di attrazione verso i giovani e con l’obiettivo di formare una classe dirigente locale che abbia forti legami con la Cina, il governo aumenta le borse di studio e i corsi specializzati per giovani laureati e funzionari di stato. Non è un caso che, negli ultimi anni, i campus delle più prestigiose università cinesi abbiano assistito ad un incremento esponenziale di studenti kazaki e kirghizi. Sia dal punto della penetrazione economica che dell’inserimento nel tessuto sociale centrasiatico, la Cina prosegue il suo cammino sulla base degli ultimi piani di sviluppo quinquennali, ovvero con una strategia a lungo termine che in un primo momento può sembrare lenta e non focalizzata, ma che nell’arco di pochi anni porterà sicuramente alla ridiscussione dei rapporti di forza non solo all’interno del SCO, ma in tutto lo scacchiere internazionale.

Alessandro Arduino è economista, specializzato in tematiche cross culturali e negoziazione con particolare riferimento all'Estremo Oriente.