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    Predefinito L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    http://www.ariannaeditrice.it/artico...articolo=21923



    1. Il tema “Identità e migrazioni” sembra apparentemente mettere a confronto termini tra loro antitetici in quanto si può presupporre che il fenomeno delle migrazioni conduca necessariamente alla distruzione delle identità specifiche. In realtà le migrazioni nella storia hanno spesso determinato l’espansione di popoli non hanno perduto con le migrazioni la propria identità, ma che anzi, insediandosi in altri paesi hanno soppiantato le altrui identità. Potrebbe essere rappresentato in questo modo l’esito finale delle migrazioni, specialmente dei popoli islamici, che dall’Asia e dall’Africa hanno condotto negli ultimi decenni una invasione silenziosa dell’Europa. Le migrazioni nella stoia hanno determinato profonde trasformazioni epocali in quanto dall’incontro di civiltà diverse, dal connubio cioè di valori di culture diverse, sono scaturite nuove sintesi che hanno dato luogo al rinnovamento culturale e civile di identità ormai esangui. Con le migrazioni si è realizzata spesso l’universalizzazione di identità e valori che altrimenti sarebbero stati confinati nel ristretto ambito locale dei singoli popoli. Non sembra però quello ora descritto l’esito prodotto dalla globalizzazione che, assimilando i popoli sulla base del principio economicistico del libero mercato non ha portato alla sintesi, ma all’azzeramento universale delle identità dei popoli: la globalizzazione, nella sua genesi, non nasce dall’incontro delle civiltà, ma dallo scontro fra le civiltà stesse, o meglio, dalla guerra mondiale della globalizzazione contro la civiltà.

    Il problema del rapporto fra migrazioni (violente e/o pacifiche che siano) ed identità culturali non solo è vecchio come l’umanità, ma addirittura coincide con la stessa storia universale, che per almeno il cinquanta per cento si identifica con la storia delle migrazioni stesse. Per questa ragione è sconsigliabile metodologicamente iniziare con genericità, magari anche sagge ma del tutto vaghe. Per questa ragione è meglio parlare non di identità e migrazioni in generale, ma di identità e migrazioni in rapporto con il contesto storico in cui viviamo, e cioè l’Europa e l’Italia, e più in particolare l’Europa e l’Italia degli ultimi due decenni. Se infatti si sostiene che le migrazioni sono una minaccia (dell’identità culturale europea e cristiana, del mercato del lavoro europeo e italiano, dell’ordine pubblico, eccetera), bisogna chiarire in che senso sono una minaccia, e che cosa esattamente minacciano. Cominciamo allora dall’Europa, e passiamo poi all’Italia.
    Da più di un decennio, e con una visibile accelerazione dopo l’11 settembre 2001, l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche all’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera? Pura ipocrisia. Il profilo culturale di Eurolandia oggi è caratterizzato da una apparentemente inarrestabile americanizzazione, da una manipolazione televisiva volgare ed invasiva, da una situazione generalizzata di lavoro flessibile e precario, da un sistema universitario autoreferenziale dominato da sistemi di cooptazione maialeschi (per le donne) e familistici (per gli uomini), da una scuola secondaria degradata da sindacalisti, psicologi invasivi e pedagogisti futuristi pazzi, da una gioventù incline alla droga ed allo sballo del “sabato sera”, eccetera. Se è così, dove sta la famosa minaccia delle migrazioni africane, islamiche ed est-europee? Sarei proprio contento di saperlo!
    Passando all’Italia, il colpo di stato giudiziario extraparlamentare denominato surrealmente Mani Pulite ha distrutto il vecchio ceto politico della Prima Repubblica 1946-1992, aprendo lo scenario alla contrapposizione simulata Berlusconi contro Veltroni, in uno scenario tragicomico di antifascismo in assenza totale di fascismo, di disponibilità illimitata a mandare i nostri volontari in tutte le aree del mondo che interessano all’impero americano, di televisione degradata a passerella di Veline e di Gregoraci con le tette in fuori, di cultura lottizzata ferocemente da bande presenzialiste, eccetera. Una delle Italie più brutte degli ultimi due secoli, un’Italia che all’estero sa soltanto presentarsi come una sorta di Italia per ricchi oziosi (la Ferrari, la moda, il look, ed altre simili porcate per parassiti).
    Avrò forse un po’ esagerato. Lo ammetto. E tuttavia, se questo è lo scenario, dove sta la minaccia? Chi può farci ancora più male di quello che siamo già riusciti a farci da soli? Chi ha distrutto la stabilità e la sicurezza del posto di lavoro? Sono forse stati i muratori romeni e senegalesi? Chi ha creato il modello-puttana per le ragazze italiane, in cui darla via ai potenti garantisce un reddito dieci volte superiore al diventare professoressa, ricercatrice e medico d’ospedale? Sono forse le battone nigeriane, albanesi e moldave?
    E potremmo continuare.
    Detto questo, può essere interessante l’atteggiamento assunto verso le migrazioni da due differenti gruppi sociali in Italia, il cosiddetto “popolo” (identificato spesso con il cosiddetto “leghismo” di Bossi), ed i cosiddetti “intellettuali”, cioè coloro che l’umorista Stefano Benni ha a suo tempo definiti Gente di certa Kual Cultura (il Kappa è ovviamente nell’originale, non è un errore di stampa).
    Del popolo, si dice che è razzista e pieno di pregiudizi, e che ha dimenticato quando noi eravamo emigranti con le pezze al culo, trattati da mafiosi negli USA e da crumiri in Francia. Il popolo è accusato di “populismo”, il che equivale ad accusare un radiologo di “radiologismo” ed un panettiere di “panismo”. Berlusconi è accusato di “populismo”, laddove tutti i populisti veri (Peròn, Nasser, eccetera) hanno sempre attuato politiche di redistribuzione della ricchezza favorendo i ceti disagiati, mentre semmai Berlusconi è come Superciuk, l’eroe dei fumetti del personaggio di Alan Ford, che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Con politologi tanto competenti, possiamo proprio stare tranquilli!
    Il popolo non è certamente razzista per natura, oppure perché legge solo il Corriere dello Sport anziché leggere Baricco in traduzione slovena. Il popolo indulge al cosiddetto “razzismo” solo quando comincia a percepire che il lavoro dei migranti serve ai padroni per svalutare il potere contrattuale conquistato in decenni di defatiganti lotte sindacali. In Francia fino a tre decenni fa gli immigrati italiani, spagnoli, portoghesi, polacchi, armeni ed anche arabi si integravano facilmente nei quartieri popolari di Parigi (ne porto una testimonianza personale diretta), e si integravano sulla base della cultura del lavoro e della cultura del vicinato. Oggi i giovani disoccupati vivacchiano nelle cosiddette banlieues vagabondando qua e là ed organizzandosi in bande di tipo “etnico”, spacciando droga e cercando la rissa ed il rogo di automobili, laddove i loro genitori si integravano attraverso il lavoro ed il vicinato. Se questo non avviene più, la colpa della nuova economia liberista globalizzata o della cultura islamica incompatibile con l’Europa? Ognuno barri la casella che preferisce. Io ho fatto da tempo la mia scelta tra Karl Marx ed Oriana Fallaci.
    Il popolo, quindi, ivi compreso il montanaro bergamasco bossiano, non è affatto razzista. Sa bene che i marocchini non sono identificabili con lo sciagurato ragazzotto spacciatore di droga e gli albanesi non sono identificabili con le violente bestie del prossenetismo. Sa anche, ovviamente, che molti zingari rubano (perché negarlo con virtuoso struzzismo?), ma molti di più non rubano affatto. Ricostruiamo una cultura del lavoro sicuro e garantito e del vicinato solidale, e vedrete che il migrante si integrerà, pur continuando a fare il Ramadan, a non mangiare salame, eccetera (differenze che non hanno mai fatto male a nessuno).
    Gli intellettuali, o meglio la Gente di una certa Kual Cultura, sono invece il vero problema. Gli intellettuali, infatti, si “rifanno” la buona coscienza ed il loro illusorio sentimento di superiorità morale sulla plebe bosso-berlusconiana così come le attricette si “rifanno” il culo e le tette. Un tempo erano comunisti utopisti egualitari, ed ammiravano il partigiano combattente ed il guerrigliero eroico latino-americano. Adesso non credono più in nulla, sono passati da Emiliano Zapata a Luis Zapatero, dalla dittatura del proletariato al corteo dell’Orgoglio Gay, da Gramsci a Veltroni, eccetera, e credono di essere “superiori” insolentendo Ratzinger ed alzando grida roche ai comizi dello scamiciato molisano Di Pietro. È questa la ragione per cui hanno scoperto la figura del Migrante come nuova figura mimetica per nascondere la loro propria miseria.
    Essendo del tutto privi d’identità, non deve stupire il fatto che esaltino come massimo valore positivo la mancanza di identità. Il marxismo è una semplice utopia totalitaria, da gettare nella pattumiera della storia. La classe operaia, su cui avevano scommesso tanto, è un insieme di leghisti volgari. Le nazioni non esistono, ma sono soltanto delle “comunità immaginarie” artificiali. I sessi non esistono più, ma ci sono soltanto più gli “omo” e gli “etero”. Non c’è più nulla di stabile. Difendere la lingua italiana è sospettato di mussolinismo, per cui nessuno protesta più se invece di dire Giorno delle Elezioni gli imbecilli dicono Election Day (e chi parla è un signore che conosce bene l’inglese ed ha insegnato per un anno inglese nelle scuole secondarie superiori). E allora il migrante diventa il loro nuovo idolo, perché gli si attribuisce (erroneamente) una sorta di tendenza spontanea al “meticciato”, al multiculturalismo. In altre parole, il migrante ha sostituito il contadino povero (neorealismo cinematografico degli anni quaranta e cinquanta) e l’operaio-massa fordista incazzato (estremismo mimetico sessantottino). Costoro, non avendo nessuna identità, e facendo anzi l’apologia filosofica della non-identità (secondo la catena concettuale storicismo-relativismo-nichilismo, ben messa in luce dal filosofo tedesco Joseph Ratzinger), hanno scoperto nel migrante la nuova figura religiosa con cui possono finalmente sfogare il loro odio verso il popolo (accusato di populismo).
    I migranti veri sono ovviamente un’altra cosa. In particolare quelli musulmani (ma anche in subordine i romeni ortodossi ed i filippini cattolici) vengono da identità culturali in cui c’è ancora un fortissimo senso del lavoro e della solidarietà familiare. Il regno di Pannella e della Bonino gli è estraneo. Ed è per questo che il ceto di una certa Kual Cultura si è costruito un’immagine di migrante meticciato che ovviamente non esiste assolutamente nella realtà.

    2. Le migrazioni sono un fenomeno che periodicamente si presenta nella storia dell’uomo. La storia dell’Italia è segnata da un susseguirsi di invasioni – migrazioni che ne hanno impedito l’unificazione politica e hanno profondamente inciso sulla identità etnico – culturale dell’Italia attuale. Nella storia dell’Italia e dell’Europa si sono verificate migrazioni che, al contatto con la cultura locale hanno prodotto, oltre che guerre di conquista, anche nuove culture, evoluzione, nuove entità politiche: basti pensare alle migrazioni - conquiste arabe, normanne, sveve. Ma le attuali migrazioni non possono essere assimilate a quelle del remoto passato italiano ed europeo. Infatti il fenomeno migratorio attuale è esteso su scala mondiale ed è diretta conseguenza del principio liberista della libera circolazione degli individui e dei capitali nel mondo globalizzato. Alla delocalizzazione della produzione nel terzo mondo, con relativi incrementi dei profitti dovuti alla riduzione dei costi della manodopera, fa riscontro una migrazione asiatica ed africana dalle dimensioni bibliche verso l’Occidente. Quest’ultima è un fenomeno che scaturisce dal proliferare dei conflitti bellici nel terzo mondo, causati, per lo più, dall’imperialismo economico delle multinazionali volto all’accaparramento delle materie prime e delle fonti d’energia e dall’impoverimento del sud del mondo dovuto alla voragine incolmabile dell’indebitamento indotto dalle politiche del Fondo Monetario Internazionale. L’Occidente, con i costi sociali dell’immigrazione sconta le conseguenze del suo primato economico. A farne le spese sono i ceti svantaggiati dell’Europa stessa, che vedono pregiudicate le possibilità di occupazione dalla concorrenza di masse di lavoratori stranieri e debbono per di più sopportare i disagi di una convivenza difficile e spesso conflittuale con popoli diversi e non assimilabili. La globalizzazione genera profitti per le elites finanziarie, ma non progresso sociale per le masse cosmopolite, ma proletarizzazione del lavoro a tutti i livelli su scala mondiale: questa è la sola forma di eguaglianza realizzata veramente globale.

    È ovviamente corretto rilevare che le attuali migrazioni, dovute alla globalizzazione, non hanno nulla a che vedere con le vecchie migrazioni che hanno contribuito potentemente alla etnogenesi storica del processo di costituzione della nazione italiana (longobardi, franchi, normanni, svevi, arabi, eccetera). E tuttavia, a fianco delle differenze, non bisogna “censurare” anche elementi di somiglianza. Le ragioni delle migrazioni di massa possono essere diverse, ma alla fine pur sempre di migrazioni di massa si tratta. La nazione italiana, se una nazione italiana ci sarà ancora fra duecento anni (e se per caso sfortunatamente non ci fosse più, la colpa sarebbe non certo dell’immigrazione musulmana o ortodossa, ma dell’omologazione multiculturale americanizzante in un orribile melting pot di consumatori apolidi), sarà per forza una nazione che avrà in qualche modo dovuto incorporare demograficamente e culturalmente le nuove ondate migratorie. Un’Italia priva di identità ne verrà schiacciata. Ma un’Italia capace di ridonarsi di un’identità credibile non avrà problemi di assimilazione. La Francia, la grande Francia di de Gaulle (non parlo del pagliaccio Sarkozy), ne è stata un esempio. Essa ha saputo assimilare negli ultimi cento anni gigantesche ondate di migranti, eppure continua ad avere un’identità forte, molto più forte della nostra sul piano linguistico e culturale.
    Non è un caso che gli stessi sostenitori della cosiddetta “guerra di civiltà” (Huntington) siano anche sostenitori della globalizzazione economica mondiale a guida imperiale americana. Tutto questo non è affatto casuale, ma purtroppo su questo non si riflette abbastanza.
    Le migrazioni barbariche della fine dell’impero romano furono dovute anch’esse ad una sorta di globalizzazione continentale delle spinte delle popolazioni nomadiche centro-asiatiche (avari, unni, peceneghi, ungari, eccetera). Certo, non si trattava di una globalizzazione finanziaria o industriale, non esisteva il famoso “decentramento produttivo”, ma c’era pur sempre una globalizzazione geopolitica. Ma le ragioni restano sempre prevalentemente interne: il limes romano fu sfondato anche e soprattutto perché l’economia romana era marcia dall’interno; distrutte le villae dei piccoli produttori, distrutto il mercato interno, aumentata la burocrazia parassitaria, formatisi i latifundia, diffusesi religioni folli con rituali di autocastrazione (Eliogabalo, eccetera), abbrutite le masse metropolitane dai circenses e dai giochi gladiatori (l’equivalente dei gruppi di tifosi calcistici imbestialiti), alla fine bastò una gelata invernale del Reno per permettere l’entrata dei barbari, compresi quei longobardi i quali, molto più dei celti ormai da tempo spariti, sono i diretti progenitori del Senatur, del Dio Po, di Borghezio e delle sue urla antislamiche in cui l’incosciente (probabilmente senza neppure sospettarlo) è al servizio della crociata anti-islamica per conto del sionismo (non parlo dell’educato sionismo veltroniano alla Gad Lerner, ma del sionismo aggressivo e fallaciano alla Fiamma Nirenstein).
    In sostanza, gira come la vuoi, si arriva sempre ad un punto, e cioè che il vero problema non sono i migranti ma siamo sempre noi. Certo, il vecchio sociologismo monoclassistico proletario, per cui non esistono le identità nazionali (pure e semplici “comunità immaginarie”, come sproloquia il ceto universitario politicamente corretto), ma soltanto salariati omologati in un unico popolo sindacalistico mondiale, non è la soluzione. Ridurre l’emigrato al suo contratto di lavoro è ovviamente riduttivo. E tuttavia non c’è alternativa: finché l’emigrato non godrà di diritti sindacali eguali al lavoratore italiano tutti i discorsi sulla integrazione saranno aria fritta, e gireranno a vuoto.
    L’emigrato, infatti, vuole soprattutto dignità. Già il grande Hegel, nella sua Fenomenologia dello Spirito, analizzando la dialettica fra Servo e Signore, ha chiarito che il servo non si accontenterà mai fino a che non avrà conseguito il riconoscimento. Riconoscete l’emigrato nella sua identità culturale, non chiedetegli un’omologazione che non chiedereste mai ad un americano o ad un inglese, cui invece si riconoscono tutte le “differenze” che pretende, ed avrete un concittadino entusiasta, e per di più grato all’Italia che in molti casi lo ha strappato alla fame e alla precarietà. Certo, avrete sempre una fisiologica percentuale di banditi, assassini, prosseneti e spacciatori. Ma a questo punto gli emigrati saranno i primi a volersi liberare di questa feccia che li diffama. Del resto, è esattamente quello che è avvenuto per la nostra emigrazione italiana negli USA. O vorreste affermare che tutti gli italo-americani sono la feccia ripugnante del Padrino e dei Soprano?

    3. Il declino economico europeo ha prodotto una drastica riduzione delle risorse produttive, diffusa disoccupazione e sempre più esigue capacità di assorbimento della manodopera sia italiana che straniera. Si verificano sovente fenomeni di conflittualità sociale che dilaniano progressivamente un tessuto sociale già precario. Da una parte (da destra), si lamenta la scarsa predisposizione degli immigrati alla integrazione nella società occidentale. Ma, ci si chiede come sia possibile che africani e asiatici condividano valori identitari e culturali in cui da generazioni gli europei hanno smesso di credere. Dall’altra (da sinistra), si invoca e si favorisce l’immigrazione come una “grande opportunità” per realizzare, sulla base di motivazioni economiche, umanitarie, ideologiche la società multietnica. L’immigrazione diviene in realtà un colossale affare economico e politico: Per gli imprenditori, allo scopo di usufruire di forza lavoro a basso costo, per le istituzioni assistenziali (di solito ecclesiastiche), cui vengono devoluti ingenti contributi statali, per politici pronti a sfruttare una potenziale massa di manovra. Ma non si va quasi mai alle radici del fenomeno dell’immigrazione, alla cui origine c’è la aggressione economicista del capitalismo assoluto, alla perenne ricerca di materie prime e forza lavoro a basso costo, per sostenere il suo abnorme livello di consumi. Quindi l’integrazione viene concepita come omologazione di europei ed immigrati alle esigenze produttive globali, che comportano la migrazione permanente della manodopera nei luoghi e nei settori che al momento ne abbisognano: l’integrazione coincide quindi con la non identità del produttore – consumatore dotato di capacità di adattamento a questa precarietà globale che determina il perenne “nomadismo produttivo”. Tale nomadismo va diffondendosi peraltro anche nelle nuove generazioni italiane, specialmente nei giovani dotati di capacità intellettuali e specializzazioni tecnologiche, nelle quali è riscontabile la tendenza ad emigrare in paesi che permettano loro di costruire un futuro che l’Italia è incapace di garantirgli.

    Mi spiace dovermi ripetere, ma la chiave del problema del rapporto fra identità e migrazioni sta sempre e solo nella corretta formulazione da te usata in questa terza domanda: “Ci si chiede come sia possibile che africani ed asiatici condividano valori identitari e culturali in cui da generazioni gli europei hanno smesso di credere”.
    Mi permetto una piccola correzione. Non da generazioni, ma sostanzialmente solo da meno di due generazioni circa. Continuare a ripetere a pappagallo che l’emigrazione è una “risorsa”, perché gli emigrati fanno lavori che ormai gli italiani non vogliono più fare (contadini, pastori, badanti, muratori, prostitute, eccetera), come fa la sinistra, oppure che essi non hanno diritto di pregare da noi, e dovrebbero andare a pregare ed a pisciare nel deserto (lo giuro, non me lo sono inventato, lo ha detto recentemente il sindaco di Treviso Gentilini!), come fa la “destra”, non ci fa cavare un ragno dal buco. E non possono neppure cambiare le cose il singolo calciatore e la singola poliziotta di colore. Alla fine, gira gira, torniamo sempre allo stesso punto di partenza: perché una società possa integrare felicemente, bisogna che il suo profilo complessivo sia seducente, bisogna che la sua cultura sia attraente, bisogna che l’etica sociale e politica prevalente sia ammirevole. Quando andai a studiare in Francia negli anni sessanta, mi innamorai del profilo complessivo della Francia stessa, del suo altissimo livello universitario, tanto migliore del deserto provincialistico in cui ero cresciuto, m’innamorai dei suoi bistrots multietnici in cui tutti si sentivano eguali, perché eguagliati dal lavoro e dal vicinato, e non dai pistolotti degli intellettuali di una certa Kual Kultura, e m’innamorai soprattutto del confronto fra la Francia e da dove venivo. Ora, ovviamente, sono in grado di superare l’ingenuità esterofila della mia giovinezza. Ma ciò che conta è il fatto che soltanto quando noi faremo capire agli emigranti che noi pretendiamo (giustamente!) da loro quello che noi per conto nostro pratichiamo ogni giorno l’integrazione avrà veramente luogo. Pretendiamo che imparino la lingua italiana. Bene, giustissimo. Ma chi ha permesso il degrado della lingua italiana, la sparizione del congiuntivo, i mezzobusti televisivi sgrammaticati e romaneschi, l’uso selvaggio delle parole inglesi quando non ci sarebbe nessun bisogno di usarle in quanto esistono perfetti corrispondenti italiani (intendiamoci: non penso affatto al cachet che diventa l’italianissimo cialdino o il bar che diventa l’italianissima mescita)? Chi ha permesso la degradazione della lingua italiana in grufolare di porci? E poi vorremmo che imparassero bene una lingua che noi abbiamo degradato e involgarito!
    Pretendiamo che rispettino la religione cattolica che è sicuramente la religione della maggioranza degli italiani, e che non è quindi seriamente equiparabile al buddismo o all’induismo, salva restando ovviamente la legittimità integrale della pratica pubblica di tutte le religioni. Ma chi ha consentito ad una attrice da trivio di auspicare la sodomizzazione del papa da parte di diavoli, fra le grida oscene della marmaglia urlante intorno al palco? E poi, possibile che a nessuno venga in mente che bisogna che anche noi rispettiamo l’Islam, smettendola di distinguere i musulmani in “buoni” e “cattivi”, appiccicando la targhetta di “musulmani moderati” a coloro che accettano gli interventi militari occidentali in Afghanistan ed in Irak, e cioè interventi che neppure io, battezzato cristiano, mi sogno di approvare, e che vorrei ricacciati e distrutti dalle forze patriottiche locali, non importa di quale religione siano?
    Pretendiamo che rispettino la nostra cultura politica. Ebbene, che cosa può pensare un immigrato colto e politicamente sensibile di un Massimo D’Alema e di un Gianfranco Fini, che hanno rinnegato tutto il profilo politico in cui hanno trascorso la giovinezza, e questo non certamente in forza di un travaglio intellettuale sincero, ma di una semplice presa d’atto delle compatibilità ideologiche del nuovo scenario politicamente corretto? L’ex-comunista, allevato sulle ginocchia di Togliatti e di Berlinguer, ha bombardato la Jugoslavia nel 1999 per conto della NATO e dell’impero USA, inventandosi un genocidio inesistente, e certificato come inesistente da osservatori internazionali (OSCE, eccetera). L’ex-neofascista allevato sulle ginocchia di Almirante e di Donna Assunta, che afferma che il fascismo è il male assoluto, e finché ammazza libici ed etiopi va ancora bene, ma quando tocca i sacri ebrei è imperdonabile. Auschwitz è il male assoluto, mentre Hiroshima è solo un male relativo.
    Non entro qui nel merito. L’ho già fatto ampiamente in altra sede. Ma mi chiedo come si possa chiedere a emigranti di accettare il profilo non di Dante, ma di Pulcinella, non di Manzoni, ma del Voltagabbana.

    4. Quando si vuole contestate la globalizzazione si fa appello sovente alla difesa delle identità nazionali. In Europa le identità si riconoscono sempre meno negli stati nazionali. Infatti il principio dello Stato sovrano è tuttora basato sulle identità nazionali. Tuttavia è constatabile come dal Trattato di Versailles in poi, la nascita di nuovi stati nazionali in Europa, prima a seguito dello smembramento degli imperi centrali, poi in virtù della fine dell’URSS, abbia dato luogo alla proliferazione di nuove entità statuali non autosufficienti economicamente e spesso protagoniste di conflitti inter – etnici. Tale frantumazione dell’Europa, è stata inoltre una delle concause della “guerra civile europea” teorizzata da Ernst Nolte. Il dissolversi degli stati nazionali oggi però comporta la nascita delle patrie locali sempre più piccole, spesso concepite su base esclusivamente etnica. Possiamo affermare che il localismo delle piccole patrie non è una rivoluzione, ma una involuzione rispetto allo stato nazionale, in quanto l’identità europea ne risulta ulteriormente frantumata e la contrapposizione dei valori regionali avverso l’avvento della globalizzazione si presenta come una difesa estrema e velleitaria, in quanto chiusa in sé stessa e priva di sbocchi futuri. Il primato globale americano è comunque in crisi e sempre più dilaniato da conflitti nel mondo aperti o potenziali, proprio contro stati nazionali che si oppongono all’espansionismo o che comunque ostacolano il primato USA, quali l’Iraq, l’Iran, il Venezuela e quasi l’intero Sudamerica, la Russia, la Cina, l’India. Se gli stati nazionali europei non riescono ad integrarsi e sono sempre più deboli al loro interno è forse perché l’identità non può essere fondata solo sulla nazione, quale comunità di sangue e di suolo, ma anche su altri valori culturali, politici, religiosi trasversali che esulino sia dal localismo che dallo stato nazionale, perché aperti alla condivisione dei popoli al di là delle specificità etniche, linguistiche e culturali.

    Sono pienamente d’accordo con quanto dici sul rapporto fra stato nazionale e cosiddette “piccole patrie”, e mi permetterò di riassumere brevemente quanto dici con questa sintetica formulazione: lo stato nazionale non è l’ideale, può e deve essere corretto e riformato, ma è pur sempre meglio delle piccole patrie. Personalmente, aggiungo qui la mia formulazione, che è leggermente diversa: lo stato nazionale è un prodotto storico degli ultimi secoli, ma non è affatto una “comunità immaginaria”, quanto una evoluzione moderna della etnogenesi delle precedenti identità già esistenti; non è ovviamente, in quanto prodotto storico, un dato intangibile ed immodificabile, e può e deve essere migliorato con una maggiore valorizzazione delle identità locali e con un maggiore accoglimento degli emigrati (senza nessun meticciato, culto del migrante, e soprattutto senza nessuno stupido “multiculturalismo”, cavallo di Troia della omologazione americanizzante del mondo); e tuttavia, cosi com’è, lo stato nazionale è pur sempre meglio non solo del culto delle cosiddette “piccole patrie”, ma anche e soprattutto di unificazioni neoliberali come l’attuale Eurolandia asservita agli USA sul piano geopolitico ed al capitale finanziario transnazionale sul piano economico e sociale.
    La formulazione è forse un po’ lunga ma in questo modo il lettore non farà confusione. Chi vuole oggi la statalizzazione delle piccole patrie, lo svuotamento del vecchio stato nazionale (considerato “obsoleto”), la diffamazione del concetto di nazione come “comunità immaginaria”, l’uso scissionista delle etnie contro le nazioni, eccetera? Non è difficile rispondere. Ci aiuta a farlo lo studioso francese di geopolitica François Thual (cfr. Il mondo fatto a pezzi, Edizioni del Veltro, Parma 2008). Chi vuole oggi che il mondo sia ulteriormente “fatto a pezzi”, in modo che al posto di duecento stati se ne abbiano duemila, più piccoli e deboli, e quindi più controllabili economicamente e militarmente?
    Ma è evidente! L’impero USA lo vuole, perché con due stati indipendenti tibetano ed uiguro potrebbe minacciare la Cina con basi missilistiche nuove come può fare oggi con la Russia con basi missilistiche in Polonia e Repubblica Ceca! Ci aveva già provato con la Cecenia, ma per fortuna la Russia ha reagito in tempo. Ci è riuscita con il Kosovo, trasformato oggi in ministato razzista albanese ed in centro mafioso di droga e di tratta della prostituzione. Se la Turchia cominciasse ad avere una politica indipendente dagli USA, gli USA scoprirebbero immediatamente che i curdi, fino ad un attimo prima “terroristi”, hanno assolutamente bisogno di uno stato nazionale indipendente da cui espellere dieci milioni di turchi. Se l’Italia uscisse dalla NATO, gli USA scoprirebbero immediatamente che le nazioni siciliana, sarda e friulana hanno assolutamente bisogno di stati nazionali indipendenti. Se la giunta militare birmana non tenesse il paese multinazionale con pugno di ferro, gli USA imporrebbero subito uno stato shan ed uno stato karen. E potrei ovviamente moltiplicare gli esempi. Il fatto che lo spezzettamento non si estenda all’Abchazia ed alla Ossezia è dovuto esclusivamente al fatto che il georgiano Saakasvili è un loro fantoccio provocatore disposto a tutto pur di riempire il suo infelice ed innocente paese di basi missilistiche USA puntate su Mosca.
    Pensatori onesti ed intelligenti come Alain de Benoist non sembrano capire fino in fondo questo problema, in quanto sono contemporaneamente per una geopolitica anti-USA e per lo spezzettamento dello stato nazionale in una miriade di piccole patrie. Onestamente, trovo in questo una contraddizione. In de Benoist, questo è probabilmente un derivato dalla sua insistente polemica decennale contro il giacobinismo accentratore dello stato francese. In ogni caso, il problema resta. A mio avviso, il centro della contraddizione si sposta storicamente a seconda delle congiunture politiche, e non resta mai lo stesso. Oggi (e ripeto oggi), l’aspetto principale, mi sembra quello geopolitico, e quello secondario mi sembra la pur legittima difesa delle particolarità delle etnie e delle piccole patrie.
    Non intendo affatto negare questo aspetto. Sono anzi un “fanatico” dichiarato e non pentito della difesa dell’insegnamento delle lingue minoritarie e di ogni aspetto del folklore locale. Ma per questo non c’è nessun bisogno di frantumare lo stato nazionale. Il piccolissimo popolo Lappone, ad esempio, è perfettamente tutelato dall’interno dello stato nazionale svedese, che concede addirittura ai lapponi privilegi che nega ai suoi stessi cittadini “svedesi”. In Cina le minoranze etniche non sono neppure tenute all’obbligo di un solo figlio, e sono dunque avvantaggiate rispetto alla stessa maggioranza han. Questa è la giusta via.
    La giusta via non è infatti quella dello spezzettamento in tremila ministati a disposizione degli USA e della NATO. Spero che su questo concordiamo.
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  2. #2
    Ghibellino
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Che dire?
    Bravo!
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  3. #3
    Aghori
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Vi consiglio vivamente di leggerlo...
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  4. #4
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Citazione Originariamente Scritto da Aristocle Visualizza Messaggio
    Vi consiglio vivamente di leggerlo...
    Io lo leggo... ma devi sempre postare articoli chilometrici?

  5. #5
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Salvo alcuni passaggi che non condivido (dettagli, punti di vista personali: diciamo che sono un pò più razzista io :sofico, nel complesso: gran bell'articolo. Da far leggere anche a qualche cialtrone di sinistra. Soprattutto perchè riesce a esporre la posizione del 'nostro ambiente' (più o meno) sull'immigrazione senza passare per pazzo fanatico razzista, ma facendo anzi una feroce critica al 'multiculturalismo' e all'egemonia Usa.

    se una nazione italiana ci sarà ancora fra duecento anni (e se per caso sfortunatamente non ci fosse più, la colpa sarebbe non certo dell’immigrazione musulmana o ortodossa, ma dell’omologazione multiculturale americanizzante in un orribile melting pot di consumatori apolidi)

    E poi vorremmo che imparassero bene una lingua che noi abbiamo degradato e involgarito!
    Pretendiamo che rispettino la religione cattolica che è sicuramente la religione della maggioranza degli italiani, e che non è quindi seriamente equiparabile al buddismo o all’induismo, salva restando ovviamente la legittimità integrale della pratica pubblica di tutte le religioni. Ma chi ha consentito ad una attrice da trivio di auspicare la sodomizzazione del papa da parte di diavoli, fra le grida oscene della marmaglia urlante intorno al palco? E poi, possibile che a nessuno venga in mente che bisogna che anche noi rispettiamo l’Islam, smettendola di distinguere i musulmani in “buoni” e “cattivi”, appiccicando la targhetta di “musulmani moderati” a coloro che accettano gli interventi militari occidentali in Afghanistan ed in Irak, e cioè interventi che neppure io, battezzato cristiano, mi sogno di approvare, e che vorrei ricacciati e distrutti dalle forze patriottiche locali, non importa di quale religione siano?

  6. #6
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Precisazione: Preve è tutt'altro che del "nostro ambiente". E' marxista
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  7. #7
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Citazione Originariamente Scritto da Aristocle Visualizza Messaggio
    Precisazione: Preve è tutt'altro che del "nostro ambiente". E' marxista
    Quando ha detto che preferisce Marx alla Fallaci, non avendo idea di chi fosse, francamente ho pensato fosse uno dei tanti 'eretici' sinistro-nazionali. In ogni caso, volendo o nolendo, mi pare che abbia esposto più il 'nostro' punto di vista.

    A questo punto sono ancora più convinto che un articolo cosi' andrebbe fatto leggere a qualche cialtrone di sinistra :sofico:
    Ultima modifica di Orco Bisorco; 26-08-10 alle 14:02

  8. #8
    Europa dell'ariete
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Preve certamente emerge da quel sottobosco di neo- e post-marxisti come un intellettuale con determinate aperture mentali e sensibilità relative al dramma identitario, causato dalla globalizzazione, che sta stravolgendo l’Europa. A dimostrazione che quello post-marxista è un ambiente di tromboni ingessati, si noti che Preve è completamente boicottato: lo pubblica invece Settimo Sigillo.

    Due considerazioni: che quella attuale sia una migrazione che nulla ha a che vedere con quelle passate in Europa, lo capisce chiunque. I popoli che invasero l’Europa centrale e l’Italia dopo lo sfascio dell’Impero erano per lo più germanici, appartenenti quindi al mondo indoeuropeo, affini al tessuto etnico precedente. Nulla in fondo fu stravolto. L’influsso di popoli ugro-finnici in Ungheria e Finlandia è stato dal punto di vista etnico minimo: ce lo dicono gli occhi. Quella araba, che non fu una migrazione pacifica ma una conquista, non è stata una presenza tale da influire in modo decisivo in Italia (casomai in alcune aree siciliane). Bisognerebbe sbattere in faccia a quegli intellettuali “di destra”, come Buttafuoco, che blatera di patrimonio culturale arabo nell’Europa meridionale e di un suo ruolo nella formazione dell’identità del sud dell’Europa, il fatto che la Reconquista spagnola fu fondata sull’ideale guerresco della limpieza de sangre. Questa è l’identità europea. O a Cardini, che ha inventato la favola dei “fratelli in Abramo”.

    Preve: a leggere il suo elogio dell’identità francese, considerata più radicata di quella italiana, si capisce tutto. Qui casca l’asino. E’ il patriottismo costituzionale che tanto piace ai sinistrati e ai finiani, la cittadinanza e la nazionalità non come identità ereditata, come ius sanguinis, parentela etnica, e di conseguenza valoriale e culturale. E’ la solita incapacità marxista di capire cosa davvero sono i popoli. La cittadinanza? Un pezzo di carta da mettere in mano al primo che viene, purché si riconosca nei “valori” costituzionali… Ma poi ci dovrebbe dire Preve come gli immigrati in Francia si sentono francesi: anche se si tratta di immigrati di seconda o terza generazione, sono estranei ai veri valori francesi, sono quelli delle banlieu, altro che identità francese, identità forte… Laquer ha scritto un libro che bene illustra come gli immigrati, specialmente islamici, nutrano un odio incontenibile per l’Europa e i suoi valori. Eccola l’integrazione! Come funziona, ce lo dicono le cronache di tutti i giorni.

    Ho letto un libro di Preve che è una totale mistificazione: la ‘’Filosofia del presente. Un mondo alla rovescia da interpretare’’ In sintesi, P. ci dice che il marxismo non fu mai materialista, ma idealista, platonico addirittura, scambiando l’antica civiltà greca fondata sulla singheneia, la fratellanza di sangue, il mito dell’autoctonia, la gerarchia sacrale, il culto degli antenati, della guerra, ecc., con le utopie grottesche del cosmopolitismo marxista… Insomma, uno che ha già idee chiare sulla situazione può e deve fare a meno di leggerlo. A sinistra, magari qualche occhio chiuso di fronte ai disastri del mondialismo potrebbe farlo aprire. Quindi quoto Angelus mortis. Ma che debba diventare un riferimento identitario, proprio no.
    Ultima modifica di Agesilao22; 26-08-10 alle 14:02

  9. #9
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Citazione Originariamente Scritto da Agesilao22 Visualizza Messaggio
    Insomma, uno che ha già idee chiare sulla situazione può e deve fare a meno di leggerlo. A sinistra, magari qualche occhio chiuso di fronte ai disastri del mondialismo potrebbe farlo aprire. Quindi quoto Angelus mortis. Ma che debba diventare un riferimento identitario, proprio no.
    Secondo me uno che ha già le idee chiare sulla situazione può leggere tranquillamente quel che vuole, non c'è il rischio di 'deviazionismi' quando si hanno le idee chiare.
    A sinistra sicuramente in quanto 'uno di loro' farebbero bene a leggerlo.

    PS: ecco perchè mi stonavano alcuni passaggi, tra i quali l'elogio dell' "identità francese", il 'vicinato', l'integrazione ai tempi di De Gaulle e simili idiozie
    Ultima modifica di Orco Bisorco; 26-08-10 alle 14:14

  10. #10
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    Predefinito Rif: L'integrazione impossibile in un'identità europea che non c'è

    Citazione Originariamente Scritto da Agesilao22 Visualizza Messaggio
    Ho letto un libro di Preve che è una totale mistificazione: la ‘’Filosofia del presente. Un mondo alla rovescia da interpretare’’ In sintesi, P. ci dice che il marxismo non fu mai materialista, ma idealista, platonico addirittura, scambiando l’antica civiltà greca fondata sulla singheneia, la fratellanza di sangue, il mito dell’autoctonia, la gerarchia sacrale, il culto degli antenati, della guerra, ecc., con le utopie grottesche del cosmopolitismo marxista… Insomma, uno che ha già idee chiare sulla situazione può e deve fare a meno di leggerlo.
    Ovviamente le sue manie greciste gli fanno idealizzare un mondo che non c'entra un accidente con quello che ha lui in testa, ma per il resto ha tutte le ragioni di ravvisare nella cultura socialista e comunista un anelito "idealistico" in radicale contraddizione con la descrittività 'scientificamente' avalutativa del materialismo storico come metodo.

 

 
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