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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Lottare per rivendicare il controllo della produzione


    Riportiamo alcuni passaggi estratti dall’intervento del compagno Alessandro Mustillo (ufficio politico PC) all’iniziativa organizzata a dal Partito Comunista a Terni lo scorso 30 settembre. La conferenza si è svolta alla presenza di lavoratori e delegati sindacali con lo scopo di sensibilizzare i lavoratori sulla necessità di mantenere alta la vigilanza sui piani della ThyssenKrupp in relazione all’AST facendo avanzare fin da ora la consapevolezza della necessità di una lotta politica nei prossimi mesi per tutelare occupazione e condizioni di lavoro. Di seguito alcuni passaggi dell’intervento.



    In questi anni troppo spesso è accaduto che i lavoratori abbiano iniziato a lottare quando ormai era già troppo tardi. Penso a casi di delocalizzazioni, ristrutturazioni aziendali, esuberi. Anche a causa di mancanze politiche e sindacali, e soprattutto per la fiducia mal risposta nelle organizzazioni politiche e sindacali sbagliate, i lavoratori si sono trovati disarmati ad appuntamenti fondamentali. Per questa ragione il Partito Comunista ha cercato oggi un confronto con gli operai dell’AST di Terni, con la consapevolezza che fin da ora è necessario iniziare a preparare la lotta e a diffondere tra i lavoratori la coscienza di ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi […]

    Recentemente la Confindustria ha salutato con toni entusiastici un modesto incremento della produzione dell’acciaio in Italia, che nel 2018 ha segnato un +3% circa sul dato dell’anno precedente, con conseguente reingresso dell’Italia nei primi dieci paesi produttori di acciaio al mondo. Senza dubbio i capitalisti – italiani e stranieri – fanno grandi profitti sull’acciaio prodotto in Italia, grazie anche alla costante compressione dei diritti dei lavoratori e alla scarsa attenzione alle questioni ambientali. Ma questo dato è rassicurante per la Confindustria, per i profitti privati delle aziende, ma non per i lavoratori, né per il futuro della produzione di acciaio in Italia e il mantenimento dei livelli occupazionali attuali.

    In realtà l’Italia oggi produce la stessa quantità di acciaio che produceva nel 1980, circa 24 milioni di tonnellate. La produzione mondiale dell’acciaio però è più che raddoppiata passando dai 707 milioni di tonnellate del 1980 alle 1.689 di oggi, con una chiara redistribuzione dei rapporti di forza tra i grandi monopoli internazionali e gli stati. Parto da quest’ultimo dato.

    Nel 1980 gli USA erano il secondo produttore del mondo – dopo l’URSS – con 109 milioni di tonnellate annue. Oggi ne producono poco più di 81 e sono al quarto posto dietro Cina, Giappone e India. La Cina da sola produce il 49,6% dell’acciaio mondiale. In Europa dopo la Germania (43 milioni) c’è l’Italia (24) seguita a distanza da Francia e Spagna. In sostanza il fabbisogno di acciaio è aumentato in quelli che venivano definiti paesi in via di sviluppo, che hanno accresciuto i propri settori industriali a tal punto da ridurre la crescita nei paesi a capitalismo avanzato, che hanno iniziato a importare acciaio a basso costo dismettendo la propria produzione. Tutto questo processo è ovviamente nelle mani di grandi gruppi monopolistici. Arcelor Mittal, il primo gruppo al mondo, noto in Italia per aver comprato l’ILVA grazie all’accordo siglato da Calenda prima e Di Maio poi, da sola produce circa 100 milioni di tonnellate, ossia più della produzione degli Stati Uniti. Questi dati spiegano perché l’acciaio sia divenuto uno dei settori oggetto dei dazi voluti da Trump, nell’ottica di riportare una parte della produzione “delocalizzata” negli USA.

    L’analisi generale può apparire lontana dalle questioni che riguardano Terni nell’immediato, ma in realtà non lo è. Dietro le scelte aziendali ci sono le previsioni e la lettura di quanto accade a livello generale, vista la stretta connessione dei mercati a livello internazionale. Confindustria si è affrettata a dire che i dazi USA non avranno serie ripercussioni sulla produzione italiana, dal momento che il mercato statunitense copre appena il 2% delle esportazioni di acciaio dall’Italia, e che il prezzo dell’acciaio italiano resta ancora competitivo sul mercato statunitense nonostante il peso dei dazi. È possibile che questa previsione sia in parte corretta per quanto riguarda il rapporto diretto con gli USA, tuttavia è assolutamente parziale, perché non tiene conto degli effetti indiretti dei dazi sul mercato globale e le ripercussioni nel consumo interno europeo. Il mercato europeo potrebbe essere ancora più esposto all’ingresso di acciaio dagli altri paesi produttori, deviati dal commercio verso gli USA a causa dei dazi, con ripercussione sulla produzione interna. In poche parole Cina e India potrebbero scaricare una parte rilevante del surplus produttivo non più diretto verso gli USA proprio sul mercato europeo. È un’ipotesi, che però appare assai probabile.

    L’Italia – come detto – produce 24 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Di queste ogni anno ne esporta ben 18 milioni, mentre ne importa dall’estero 20 milioni. Anche il mercato interno italiano è tutt’altro che legato strettamente alla produzione di acciaio nazionale e quindi può risentire molto delle vicende internazionali. In secondo luogo nell’area del mercato comune europeo – come in gran parte del settore industriale – la competizione tra paesi, tra cui Germania e Italia è un dato di fatto. Il contrasto tra i grandi gruppi infine incrementerà i processi di concentrazione aziendali, con ristrutturazioni e inevitabili ricadute sull’occupazione: solo incrementando lo sfruttamento del lavoro, diminuendo i costi di produzione e accorpandosi i grandi monopoli riusciranno a competere sul mercato internazionale, compreso quello interno all’area europea.

    La Thyssen non fa eccezione. In questo quadro di possibile competizione che la proprietà dell’AST faccia capo alla società tedesca non è certo un fatto rassicurante. La Thyssen da una parte sta portando a compimento il progetto di fusione con l’indiana Tata, da cui nascerà il secondo gruppo mondiale di produzione dell’acciaio, e su cui è attesa la pronuncia della Commissione Europea il 30 ottobre. Dall’altra ha stabilito una divisione in due tronconi della società con la creazione di Thyssen Industries e Thyssen Materials (AST finirà nella seconda, da tutti giudicata meno importante). La direzione dell’azienda tedesca ha sempre dichiarato che il sito di Terni «non costituisce un asset strategico aziendale». Due più due fa quattro. Solo chi vuole illudersi non vede la probabilità di una ristrutturazione aziendale già a partire dai prossimi mesi, sia essa in termini di vendita o di riarticolazione dei processi produttivi, con ricadute occupazionali o nuovi accordi peggiorativi sulla pelle dei lavoratori. D’altronde l’esperienza di questi anni ha dimostrato che la competizione sui mercati viene scaricata direttamente sui lavoratori: se tutto dipende dal prezzo della merce finale i tagli ai salari e l’incremento della produttività sono da sempre la prima risposta che i capitalisti danno per mantenere i propri margini di profitto. Nel settore dell’industria metallurgica l’altra partita è sui costi ambientali: scaricare sulla collettività il peso di ristrutturazioni del processo produttivo che sarebbero necessarie è un modo per non caricare quei costi sulla merce finale, ma il prezzo è il danno per la salute dei lavoratori e delle popolazioni locali […]

    Che fare? Nel dibattito collettivo prende forma l’idea che l’importante sia tutelare o riportare sotto la nazionalità italiana la proprietà delle imprese. I capitalisti italiani stanno giocando a diffondere un senso comune di perdita di posizioni alimentando un sentimento nazionalista, che punta a unire lavoratori e imprenditori in ottica corporativa. Ma per i lavoratori la questione non è la nazionalità del proprio padrone, se la logica di sfruttamento resta invariata. Thyssen dice di non voler vendere l’AST, ma il gruppo Marcegaglia si fa avanti per l’acquisto. Può essere la vendita a Marcegaglia una soluzione stabile per il futuro dei lavoratori? Certo che no. È assolutamente impensabile che oggi una industria – sebbene di importanti dimensioni – da sola sia in grado di competere in un settore tanto polarizzato. Oltre alla Marcegaglia ci saranno quindi accordi e compartecipazioni, con altre società, fondi, banche. In ogni caso anche una società italiana non farebbe altro che applicare le regole del mercato capitalistico.

    La proposta della nazionalizzazione è quindi l’unica in grado di assicurare l’occupazione dei lavoratori, il mantenimento della produzione dell’acciaio in Italia, la risoluzione del conflitto con l’ambiente e la salute, liberando risorse da sottrarre al profitto privato per il reinvestimento nelle politiche sociali. Si tratta ovviamente di una lotta assolutamente politica, che va oltre una visione meramente sindacale, ma unica in grado di ottenere risultati significativi e duraturi. La nazionalizzazione non muta di per sé il carattere dei rapporti di produzione in uno stato a capitalismo avanzato: non è l’obiettivo finale della nostra azione, la creazione di una società socialista, ma è un risultato ottenibile nell’immediato, che allo stesso tempo caricherebbe quella lotta di nuova forza.

    Un forte movimento dei lavoratori che in casi come quello dell’AST lottasse per la nazionalizzazione, aprirebbe un varco anche sotto il profilo culturale nella percezione collettiva, contrastando nei fatti il pensiero dominante sull’efficienza del privato. La dimostrazione contraria è sotto gli occhi di tutti, dai settori produttivi, all’acciaio appunto, basti pensare all’Ilva, alla telefonia per non parlare delle autostrade. Il Ministero dei Trasporti ha diffuso i dati della propria commissione d’inchiesta secondo cui di tutta la manutenzione fatta sul Ponte Morandi dal 1982 ad oggi ben il 98% dell’importo è stato stanziato quando le autostrade erano pubbliche. Anche i tagli sulla sicurezza hanno fatto parte della strategia di incremento dei margini di profitto per i privati. E così lo vediamo ogni giorno nei trasporti pubblici privatizzati, dove stanno peggio i lavoratori e sono peggiori i servizi, nella sicurezza sui luoghi di lavoro, nel ricorso alle esternalizzazioni per comprimere i costi.

    Nazionalizzare l’AST significherebbe poter utilizzare quegli 87 milioni di profitti netti fatti dall’azienda nello scorso anno sottraendoli al controllo privato: reinvestendoli in maggiore sicurezza, migliori condizioni di lavoro, potenziamento delle tecnologie per ridurre ulteriormente l’impatto ambientale e così via. Significherebbe riunificare la produzione, eliminando le esternalizzazioni e garantendo a tutti i lavoratori – compresi quelli a cui proprio oggi è scaduto l’appalto – una garanzia di futuro stabile. Una lotta che andrebbe accompagnata dalla richiesta di un controllo diretto da parte dei lavoratori della produzione dell’azienda, evitando che lo stato ponga al vertice delle società gli stessi manager che entrano e escono da società private, vanificando di fatto ogni reale diversità nella gestione. Questa lotta, partendo da grandi distretti produttivi, metterebbe davvero nuovamente la classe operaia al centro di un movimento più largo e vasto nella società italiana, unico a poter contrastare l’attuale deriva […]

    In conclusione due sono le questioni che dobbiamo tenere a mente. In primo luogo non è possibile riporre alcuna fiducia in questo governo, che gioca a presentarsi come “governo del popolo” ma in realtà rappresenta interessi di una parte dei capitalisti italiani. Prova ne è l’appoggio esplicito dato alla Lega da Confindustria. Un governo che gioca a costruire mediaticamente l’idea di uno scontro con le istituzioni europee ma propone un deficit di appena lo 0,1% superiore a quello del 2017. Annunciano la revoca della concessione ad Autostrade ma poi nel decreto per Genova prospettano addirittura l’anticipo delle spese per la ricostruzione del Ponte Morandi da parte dello stato. Non facciamoci prendere in giro!

    La seconda questione è l’attualità di un diverso modello di società. I lavoratori hanno tutte le capacità per portare avanti le proprie aziende senza padroni, senza che qualcuno si appropri del prodotto del loro lavoro. Sappiamo che questa prospettiva appare oggi distante dal pensiero collettivo: è un problema di coscienza, non di possibilità oggettive. Per questo è necessario lavorare in questa direzione, per far avanzare la consapevolezza che il socialismo è possibile, attuale ed è la vera e definitiva risposta alle contraddizioni di questa società. Una società socialista è la sola in cui la produzione e tutta l’economia possa essere realmente posta al servizio dello sviluppo sociale, del miglioramento delle condizioni di vita di tutti.

    Rivendicando che lo Stato strappi ai privati la proprietà delle più grandi industrie del Paese, lottando per il controllo diretto della produzione, si avanzerebbe davvero verso questa direzione. Accettando l’ennesimo accordo al ribasso i margini di compromesso anche temporanei andranno a ridursi sempre di più e il futuro dei lavoratori sarà solo un incremento del loro sfruttamento.

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  2. #22
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    La nascita della CECA: marchio d’origine dell’Europa contro i lavoratori

    di Tiziano Censi

    Il dibattito sull’UE è ormai da anni al centro dell’agenda politica italiana e la Manovra alla base della legge di bilancio ha riaperto le polemiche, spesso pretestuose, tra i partiti di governo e di opposizione che, fuori dalla rappresentazione che essi danno di questo scontro, hanno sostanzialmente mantenuto, in questi anni, una linea di completa continuità tra le loro politiche e nel rapporto con gli organismi sovranazionali. Il rapporto deficit/PIL al 2,4% non fa eccezione come abbiamo già spiegato qui.

    Il dibattito che si genera intorno alla questione Europa, però, specialmente a sinistra, rimane ammantato da un velo ideologico che riscrive il processo stesso di costruzione dell’Unione Europea per piegarlo ad una visione “comunitaria” dei popoli europei che nulla ha a che spartire con la costruzione effettiva dell’impianto istituzionale europeo.

    Se è pur vero che molti partiti della sinistra extraparlamentare, in emorragia di consensi, hanno fatto dietrofront rispetto ad un marcato europeismo nella necessità di rincorrere un sentimento di sfiducia diffuso nei confronti dell’UE, è anche vero che le loro formulazioni rimangono contraddittorie, spesso volutamente ambigue, prive di quell’analisi dei processi concreti che a noi sta a cuore svelare.

    Siamo convinti che per portare avanti un dibattito costruttivo sui compiti dei comunisti nella lotta contro l’UE serva fare chiarezza sulle basi da cui si parte, eliminando questo velo ideologico e riscoprendo le necessità di classe, le motivazioni e gli interessi che si celano dietro all’UE.

    Già quattro anni fa, con tre articoli, avevamo mostrato la contrarietà del PCI, unica forza politica a votare contro, all’entrata dell’Italia nel MEC (Mercato Unico Europeo), riportando direttamente le parole che i parlamentari comunisti avevano pronunciato in aula e l’analisi, incredibilmente attuale, che il PCI faceva delle conseguenze che il trattato avrebbe comportato all’economia italiana e alla condizione dei lavoratori (potete ritrovare l’articolo a questo link). In questo articolo faremo un ulteriore passo indietro partendo dagli albori del progetto europeo.

    La genesi del dibattito europeo

    Il dibattito sulla possibilità di unire i paesi europei prese avvio a partire dai primi anni del secondo dopo guerra ma fu tutt’altro che popolare. L’opinione pubblica rimase a lungo estranea a questi processi, poco informata e per nulla considerata. Le classi popolari subirono gli effetti del nuovo impianto sovranazionale ma non ebbero mai nessuna voce in capitolo. Furono infatti circoli intellettuali e politici, con l’attenzione della borghesia “illuminata” e più lungimirante a dar vita alla discussione guidata da personalità quali Winston Churchill, Alcide De Gasperi e Adriano Olivetti. Nel giro di pochi anni questi circoli iniziarono a darsi una strutturazione e nacquero così alcuni gruppi federalisti transnazionali. Anche questo dibattito tra élite, però, sarebbe rimasto sterile ed inconcludente se la prospettiva europea non avesse cominciato a far gola agli industriali e di rimando ai governi nazionali.

    Sarà in particolare la Francia a dare l’impulso iniziale, secondo quello che verrà definito il metodo “funzionalista”, proponendo la costituzione del Consiglio d’Europa (1949) e della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, 1951) che diedero vita alle prime istituzioni europee, embrioni del mercato comune e dell’UE per come li conosciamo oggi.

    Dalla fine della guerra per la Francia rimaneva scottante il tema sulle sorti della Germania con la quale si contendeva importanti giacimenti minerari nel territorio della Sarre. In Germania, inoltre, si estendeva il bacino della Ruhr in cui ogni anno venivano prodotte 114,5 milioni di tonnellate di carbon fossile corrispondenti a circa la metà della produzione europea. Uno sviluppo tedesco incontrollato avrebbe minacciato i mercati francesi. Le proposte di smembramento della Germania Ovest, però, erano naufragate per l’opposizione degli Stati Uniti e dell’Inghilterra interessati a creare un argine forte sulla linea di confine con il blocco sovietico. L’unica via praticabile, dunque, per cercare di contenere lo sviluppo tedesco sembrava potesse essere quella di imbrigliarlo all’interno di un meccanismo di controllo comune. Nacque così, con la benedizione degli Stati Uniti d’America, la CECA che univa i mercati carbosiderurgici di Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Olanda prevedendo regolamentazioni comuni, l’abolizione dei dazi interni e la standardizzazione della tassazione sui prodotti importati, un controllo sui prezzi e meccanismi per la liberalizzazione della manodopera del settore.

    L’accordo era visto con favore dalle classi dominanti europee e americane per motivi economici e politici. Per la Germania questo rappresentava a tutti gli effetti un processo di pacificazione e di elevamento della nazione sconfitta al pari degli altri paesi. Permetteva, inoltre, di trovare potenziali mercati alla propria potenza carbosiderurgica. Per l’Italia dal punto di vista politico le motivazioni erano simili con la differenza però che il settore produttivo italiano era molto indietro rispetto agli altri Paesi e questo comporterà effetti catastrofici sul livello occupazionale. Per tutti i Paesi, poi, un legame più stretto rappresentava un importante tassello nello scontro contro il blocco sovietico e con i partiti comunisti europei. Gli USA da tempo spingevano in questa direzione (nel 1949 era stata costituita la NATO) e salutarono con grande favore la nascita della CECA. Parole entusiaste arrivarono anche dagli ambienti vaticani, per Papa Pio XII il processo europeo si accordava con la vocazione universalistica della chiesa cattolica ed era fondamentale per frenare l’espansione del comunismo.

    Ad opporsi alla firma dei trattati nei vari paesi furono solamente i partiti comunisti, in particolare di Francia ed Italia, preoccupati per gli effetti che questi avrebbero avuto sulle condizioni di vita dei lavoratori e poiché leggevano il carattere anticomunista ed antiprogressista di tutto il processo. Il contesto della guerra fredda è, infatti, fondamentale per comprendere gli ulteriori sviluppi. A partire dalla 1950, con lo scoppio della guerra di Corea e l’inasprirsi della contrapposizione tra blocchi, in Europa si inizia a parlare del Piano Pleven, dal nome del primo ministro francese, che avrebbe dovuto costituire una Comunità Europea di Difesa (CED), passo ulteriore dell’unificazione europea. La proposta francese anche in questo caso era finalizzata ad evitare un riarmo tedesco incontrollato e mirava ad una nuova unificazione settoriale: quella delle forze armate e dei sistemi di difesa. Le forze armate dei vari paesi sarebbero state inglobate all’interno delle “Forze Europee di Difesa” a loro volta subordinate alla NATO, rafforzando non solo il legame tra i Paesi europei ma costituendo a tutti gli effetti una saldatura definitiva del vecchio continente al campo imperialista statunitense.

    Il carattere antisovietico di questa operazione era evidente al punto che il naufragio della CED corrispose proprio da un allentamento della tensione internazionale, con la fine della guerra di Corea nel luglio del 1953 e con la morte di Stalin, il 5 marzo dello stesso anno, che fece prevalere gli interessi nazionali delle borghesie europee sulla paura dell’estendersi del comunismo. Altiero Spinelli, oggi osannato da una certa sinistra, arrivò a sostenere che “nell’interesse della costruzione dell’unità europea sarebbe stato bene che Stalin fosse vissuto ancora un anno.”

    Tutto ciò avvenne senza alcun coinvolgimento delle classi popolari che rimasero spettatrici impotenti del riassestamento degli equilibri tra le varie borghesie europee che, uscite dalla guerra, si dotavano degli strumenti sovranazionali per l’esercizio del proprio dominio e per la difesa dei propri interessi. Nessuna spinta ideale mosse gli Stati ma solamente calcoli economici e politici in cui ciascuna borghesia nazionale cercava di far valere i propri interessi pur nella necessità comune a livello europeo di unirsi per non rimanere schiacciati economicamente e politicamente dal contesto della guerra fredda.

    Un processo tutt’altro che democratico: l’esclusione dei comunisti.

    La nascita del Consiglio d’Europa e della CECA fu accompagnata dalla costituzione di organismi di gestione e di controllo completamente slegati dal controllo popolare. L’organismo più importante della CECA era l’Alta Autorità composta da nove membri svincolati da qualsiasi legame di dipendenza dagli Stati di provenienza, con il compito di gestire il nuovo impianto economico, garantire prestiti, orientare gli investimenti, occuparsi della sicurezza sul lavoro, indirizzare gli Stati verso la liberalizzazione degli scambi e verso la libera circolazione della manodopera. Al suo interno gli interessi degli imprenditori (in particolare di quelli francesi) erano ben rappresentati dalla presenza di Léon Daum, industriale siderurgico. L’Alta Autorità, come era facile immaginarsi, negli anni della sua attività ebbe mano molto leggera nel contrastare l’azione dei cartelli industriali, come la GEORG che controllava tutta la produzione del bacino della Ruhr; l’Oberrheininsche Kohlenunion, monopolista delle vendite in Germania del sud; il Comptoir belge des charbons e l’Association technique de l’importation, che controllavano il settore carbonifero nei rispettivi paesi. Questi cartelli industriali furono i veri beneficiari del mercato comune appena creato. Con ancor meno risolutezza, poi, l’Alta Autorità agì in difesa dei posti di lavoro e delle condizioni lavorative ma di questo ne parleremo più avanti.

    Con carattere consultivo e di controllo ma con poteri estremamente limitati era previsto l’insediamento di un’Assemblea Comune che rappresenta il primo passo verso la costituzione del Parlamento Europeo. I membri dell’Assemblea Comune non erano eletti dai cittadini ma scelti tra i parlamentari di ogni paese, ad eccezione dei comunisti. Per una conventio ad excludendum praticata in tutti i paesi dell’Europa a sei i comunisti erano esclusi dall’essere rappresentati in qualsiasi assise europea. Questo avveniva tanto nel Consiglio d’Europa quanto in tutte le successive assemblee fino al 1969, con il risultato che la componente democristiana risultò sempre preponderante, contrastata solo da una timidissima opposizione socialista, nei venti anni iniziali della costruzione europea.

    L’arbitraria esclusione dei comunisti dalle assemblee europee contraddiceva i dettami contenuti negli articoli dei trattati stessi della costruzione europea ma in questi casi gli impianti normativi passano in secondo piano. Il carattere anticomunista di tutto il progetto europeo non poteva rischiare di essere messo in crisi dalla presenza di una vera opposizione all’interno delle assemblee europee. Nessun velo copriva le aspirazioni della borghesia in quegli anni: il mercato comune doveva favorire la crescita produttiva e gli industriali, i comunisti si sarebbero opposti, il carattere di argine al blocco socialista assunto dall’Europa a sei ne sanciva la definitiva esclusione.

    L’attenzione nell’estromissione dei comunisti fu enorme anche quando, nella fase di trattativa della CED (che poi abbiamo visto non andrà in porto), i delegati europei si trovarono ad affrontare il problema di un’elezione diretta da parte dei cittadini dei parlamentari europei. Pierre-Henri Teigen espresse il pensiero di tutti: “Se per esempio su 40 seggi attribuiti alla Francia, 8 fossero detenuti dai comunisti, la delegazione francese sarebbe ridotta a 32.” Bisognava dunque trovare un modo per “eliminare i comunisti” attraverso il metodo di scrutinio. L’assemblea convenne dunque per un sistema elettorale maggioritaria che avvantaggiava fortemente le coalizioni, molto simile alla “legge truffa” in Italia che avrebbe garantito così una forte sottorappresentazione dei comunisti.

    D’altra parte, i comunisti, pur fuori dalle istituzioni europee portavano avanti la loro opposizione a contatto con gli operai che subivano sulla propria pelle gli effetti dei nuovi trattati.

    Un’Europa contro i lavoratori

    Per capire la portata generale che ebbe la nascita delle nuove istituzioni sovranazionali basta vedere che al momento della ratifica dei trattati istitutivi della CECA erano impiegati nel settore carbosiderurgico dei paesi coinvolti 1.850.000 lavoratori. La nuova comunità prevedeva la liberalizzazione nella circolazione della manodopera nei paesi aderenti con il risultato di mettere questi lavoratori in concorrenza tra loro con ripercussioni sui ritmi di lavoro, sulle condizioni di sicurezza e sui salari.

    Ad essere più penalizzati furono i lavoratori dei paesi con i comparti industriali più arretrati. Il fenomeno del livellamento a ribasso dei salari, più manifesto al giorno d’oggi, fu meno evidente, ma ciò si dovette al fatto che la crescita del mercato comune andò di pari passo con la ricostruzione del dopoguerra, e al boom economico degli anni ’50 finanziato con gli ingenti investimenti americani: dal Piano Marshall ai prestiti concessi direttamente alle istituzioni europee. Gli effetti della libera circolazione della manodopera si fecero sentire, in particolare, nella crescita dei fenomeni migratori verso i paesi che potevano garantire una maggiore occupazione e la speranza, spesso disillusa, di salari più alti. L’Italia fu fortemente interessata da fenomeni emigratori, diretti specialmente verso le miniere belghe dove le condizioni di lavoro erano terribili e la sicurezza inesistente.

    L’emigrazione italiana fu sostenuta fortemente dal governo italiano che sperava in questo modo di ridurre la disoccupazione. Grazie ad accordi bilaterali con il Belgio, inoltre, l’Italia riceveva determinati quantitativi di carbone ogni scaglione di mille operai inviati a lavorare nelle miniere. Questo fenomeno fu così favorito che solo in Belgio nel 1951 erano presenti 50.000 minatori italiani, la maggior parte dei quali versava in condizioni abitative del tutto precarie, molti lavoratori, addirittura, alloggiavano nelle baracche costruite dai nazisti per i prigionieri sovietici adibiti al lavoro nelle miniere durante la seconda guerra mondiale.

    Le condizioni di lavoro erano, se possibile, ancora peggiori: i ritmi erano tenuti elevati dal largo utilizzo del pagamento a cottimo e gli incidenti all’ordine del giorno. Solo nel 1952 ci furono 122.000 incidenti. Gli italiani che persero la vita nelle miniere belghe furono più di 500 ma nell’Assemblea Comune si cercava di minimizzare poiché intervenire sulla sicurezza avrebbe prodotto un aumento dei prezzi e la messa in discussione del lavoro a cottimo in Belgio avrebbe potuto produrre effetti anche negli altri Paesi. Secondo il parlamentare della CDU George Pelster era conveniente che questi dati non divenissero pubblici per evitare che potessero esser impiegati dai comunisti per un “uso sovversivo”. L’Alta Autorità si decise ad agire con decisione solo dopo l’8 agosto 1956 quando nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, in Belgio un incendio uccise 262 operai, 136 dei quali italiani.

    Anche la concorrenza tra le imprese ebbe effetti deleteri sulla condizione dei lavoratori. Molte delle aziende meno competitive applicarono piani di modernizzazione che causarono forti licenziamenti. Questo avvenne ampiamente in Italia negli stabilimenti dell’Ilva di Savona, ad esempio, l’occupazione scese tra il 1948 e il 1953 da 4.300 a 2.200 unità e nelle acciaierie di Terni da 7.900 a 5.300. Il piano di licenziamenti produsse una forte risposta operaia, a Terni si organizzarono una serie di scioperi che in alcuni casi sfociarono in violenti scontri con le forze dell’ordine schierate per reprimere la protesta operaia. Stessa cosa successe a Piombino nello stabilimento “La Magona d’Italia” che era stato occupato dagli operai. La fabbrica fu sgomberata con la forza dalla polizia e tutto il personale licenziato in blocco. L’azienda riassunse in seguito solamente gli operai che non avevano partecipato all’occupazione.

    Questo è il clima in cui si svilupparono le premesse e si costruirono le fondamenta dell’Unione Europea. La retorica dell’Europa dei Popoli e dei grandi ideali da riscoprire decade di fronte alla realtà storica. I trattati europei nacquero con il preciso scopo di favorire gli interessi degli industriali, restringere i diritti dei lavoratori e porre un freno alla spinta progressiva del blocco socialista. Essi furono applicati attraverso la sistematica esclusione dell’opposizione comunista e con la forza della repressione poliziesca contro gli operai.

    Nessun’altra Europa è possibile all’interno della gabbia di queste istituzioni nate per servire interessi tutt’altro che popolari.

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  3. #23
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    A chi appartiene l’Africa?

    Tratto dall’intervento di Carlo Bonaccorso al dibattito “La guerra tra poveri la vincono i padroni” alla IV Festa regionale del Partito Comunista fed. Sicilia, Palermo, 13/10/2018

    Il fenomeno migratorio è senza dubbio uno dei temi, anzi IL TEMA che oggi occupa spazio nei media e nei dibattiti politici. Ma di cosa si parla? Un po’ di tutto e un po’ di niente.

    Sì perché andare a pescare dentro tanta retorica una posizione coerente e soprattutto utile a comprendere realmente il fenomeno, è cosa difficile. Il decreto sicurezza e immigrazione promosso dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini e fresco di firma da parte del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, rappresenta in pieno quel pensiero anti immigrazionista di chiaro stampo repressivo, utile solo a scatenare una guerra tra poveri.

    Grazie ad una sinistra incapace di uscire dagli slogan pro immigrazione, sorda alle richieste di aiuto da parte di una classe lavoratrice ridotta ormai allo stremo, ci ritroviamo oggi un governo M5S-Lega che alla fin fine continua a perseguire quelle politiche favorevoli solo al capitalismo.

    Di fatto, la classe lavoratrice continua a essere vittima di un sistema che la priva delle conquiste ottenute negli anni passati. Aziende che delocalizzano, lasciando per strada migliaia di lavoratori, oppure, per rimanere nel tema accoglienza, basta andare a vedere la situazione in cui versano i tanti operatori sociali, costretti a lavorare senza vedere stipendi e spesso in condizioni vergognose, tutto per colpa di una gestione che fa acqua da tutte le parti. Tanto per fare degli esempi.

    Eppure, in Italia, la causa principale dei problemi, sembra risiedere nell’immigrato brutto, sporco e cattivo che, “abituato alla schiavitù”, arriva in Italia ingrossando le file di coloro che favoriscono il caporalato nelle campagne.

    La cultura occidentale, senza cadere nella retorica da due soldi, ha da sempre considerato l’Africa e l’africano come una merce. Quei migranti economici, tanto osteggiati dal vecchio continente, sono in realtà le prime vittime di una colonizzazione che oggi più che mai, tiene in catene i popoli africani.

    L’ITALIA IN AFRICA

    Oltre alle missioni militari (di cui l’ultima denominata “Misin”, in Niger, è partita a settembre [vedi qui, N.d.R.]) giustificate con prestesti quali “lotta al terrorismo” o “ai trafficanti di esseri umani”, ma che in realtà mirano ad accrescere la propria influenza su un territorio, il nostro paese in Africa è abbastanza attivo grazie alla presenza di aziende che fatturano milioni e milioni di euro. Petrolio, gas liquido, armi, costruzioni, tutti settori proficui e redditizi.

    L’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, è presente in 14 paesi africani (Algeria, Egitto, Nigeria, Angola, Repubbluca del Congo, Ghana, Libia, Mozambico, etc). In particolare, in Africa Orientale, Mozambico nello specifico, l’azienda ha siglato un contratto di cinque anni nell’area 4 del bacino di Rovuma con capacità di 140/180 trilioni cubici di piedi, per lo sviluppo di siti off-shore ai fini di estrazione di gas liquido. La vendita del 25% di interessi indiretti alla Exxon Mobil (USA), conferma il primato che l’azienda ha nella zona. Altro contratto in Algeria, nell’area Berkine (sud est) per esplorazioni di gas e petrolio.

    Tra l’altro, l’ENI è sotto processo insieme alla Royal Dutch Shell per l’affare OPL 245; entrambe vengono accusate di versamento di fondi illeciti (circa 1 miliardo di dollari) per il tentativo di acquisizione di un blocco petrolifero in Nigeria.

    Altro settore redditizio, quello delle armi, vede un’altra azienda italiana la Leonardo – Finmeccanica, fortemente impegnata nel continente africano. Vendita appunto di armi, ma anche servizi di sicurezza, come l’appalto vinto in Congo dalla IA4P (Italian Alliance for Ports, gruppo di compagnie attive nella logistica ci cui la Leonardo è leader) per la creazione di un sistema di sicurezza marittima integrato nel porto di Pointe Noire (vedi qui).

    In barba alla legge 185/90 (che vieta la vendita di armi da parte di aziende italiane a paesi in guerra o in alte spese militari), questo settore cresce sempre di più.

    Angola, Congo, Marocco, Sudafrica, Kenya, Mali, Ciad, Namibia, Etiopia, Nigeria, Ghana, Senegal, Mozambico, tutti paesi che hanno acquistato armi da imprese italiane (dati al 2016).

    Ma non finisce qui. Il nostro paese è pienamente coinvolto anche nel fenomeno del Land Grabbing, ovvero, l’accaparramento delle terre fertili da parte di stati e multinazionali. Secondo il rapporto di Focsiv (qui) in collaborazione con Coldiretti, dagli inizi di questo millennio, 88 milioni di ettari di terre sono stati “acquistati” in tutto il mondo.

    Nello specifico, l’Italia ha investito su un milione e 100 mila ettari con 30 contratti in 13 stati (di cui la maggior parte africani) in special modo, nell’agro industria. Il gruppo Tozzi, ad esempio, possiede più di 50mila ettari, la Senathonol, joint venture italo senegalese, che ne possiede 26mila.

    Questo triste fenomeno, che vede coinvolti diversi stati occidentali in ogni parte del mondo, mira all’acquisizione e alla espropriazione di terre per lo sfruttamento e la realizzazione di aree turistiche o industriali. Oppure, come nel caso del Mozambico (cui arriveremo tra poco), per la trasformazione in grandi piantagioni a monocoltura dove i contadini, una volta espropriati, lavorano a cottimo.

    Tra gli investitori maggiori, oltre l’Italia, ci sono USA, Gran Bretagna, Olanda, Cina, Emirati Arabi, ma anche paesi emergenti come India e Brasile. Tali investimenti avvengono in Africa, Asia, America Latina (dove tale fenomeno viene chiamato estrattivismo).

    Il Land Grabbing mira principalmente alla produzione a monocoltura a costi bassi per il mercato internazionale, producendo un enorme danno ai lavoratori della terra di tutto il mondo. Migliaia di famiglie, comunità locali, piccole medie imprese agricole, sono vittime di questo sistema che impedisce loro di poter vivere dignitosamente. I governi locali spesso corrotti, vendono ettari a dieci euro ciascuno, senza farsi scrupolo di chi per anni quelle terre le ha coltivate.

    In Uganda, l’inglese New Forest Company, azienda inglese di legname, ha costretto più di 26mila famiglie a lasciare le loro terre.

    Il caso citato prima del Mozambico mostra chiaramente di cosa parliamo. Il governo di questo paese, tra il 2009 e il 2011 ha concesso al Consorzio Pro Savana 102mila km quadrati di terra arabile nella provincia di Nampula per l’introduzione di piantagioni in stile brasiliano. Composto da imprenditori giapponesi e brasiliani, con il coinvolgimento di imprenditori locali, il mega progetto prevede la trasformazione di tutta la zona in distese di soia e iatropha per l’agro business.

    Grazie alla protesta attiva del movimento Nao ao ProSavana, composto da coltivatori e sindacalisti e con l’appoggio dei missionari comboniani, il progetto è rimasto congelato per un po’ ma adesso sembra sia ripartito. Per di più, questa zona è già stata presa di mira da altri colossi agro industriali che hanno tolto ettari di terre, lasciando in povertà la gente dei villaggi limitrofi. In un paese dove la varietà di coltivazione è una ricchezza (manioca, cocco, fagioli, banane, ecc.), produrre a monocoltura significa distruggere una economia locale, solo per il mercato internazionale. Così nascono i migranti economici. Grazie al neocolonialismo.

    CONCLUSIONI

    L’imperialismo dei paesi occidentali in Africa, di fatto, toglie ai popoli la possibilità di sopravvivere o comunque di non poter vivere dignitosamente. Quei migranti economici che l’Europa tanto odia, altro non sono se non il prodotto terrificante di queste politiche imperialiste. L’uso di manodopera a bassissimo costo da parte delle multinazionali e la quasi inesistenza di una concorrenza locale, impediscono uno sviluppo economico. Il colonialismo del passato ha lasciato posto ad un neocolonialismo economico e finanziario che strozza i paesi africani con i debiti e li costringe ad un perenne immobilismo.

    Non c’è nessuna guerra, nessuna persecuzione, l’individuo “semplicemente” non ha di che vivere perché la sua terra appartiene agli imperialisti.

    Thomas Sankara diceva:

    «Le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico in comune».

    A chi appartiene l'Africa? | La Riscossa
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  4. #24
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    RIZZO (PC): «ACCUSE ALLA FRANCIA VERE, MA PAROLE DI DI MAIO COLPEVOLMENTE PARZIALI»

    «Da comunisti abbiamo sempre denunciato le politiche imperialiste e neocolonialiste dei paesi europei, Francia in testa, additandole come prime responsabili del terribile esodo migratorio. Solo il PD può pensare ancora una volta di difendere l’indifendibile, facendo blocco con la Commissione europea» Così Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. «Quanto detto da Di Maio è innegabile, però le sue dichiarazioni sono colpevolmente parziali, e omettono di andare alla radice della questione. La critica alla Francia è giusta e sacrosanta, ma lo stesso deve essere fatto della politica imperialista statunitense, e anche di quella italiana. Anche il nostro paese è colpevole, quando difende gli interessi dell’Eni e delle grandi società italiane che spesso si sono macchiate delle peggiori nefandezze in Africa. Se non si fa questo, il rischio è di fare semplice nazionalismo, finendo per farsi portabandiera degli interessi di una parte dei monopoli nella spartizione africana. Le cause dell’immigrazione – conclude Rizzo – sono da ricercarsi nel sistema capitalistico, che ogni giorno impone la rapina delle risorse dei popoli e della ricchezza prodotta dai lavoratori per consegnarla nelle mani di un pugno di persone ricchissime. L’imperialismo è il vero responsabile della crisi dell’immigrazione. Bisogna rovesciare un sistema dove pochi supermiliardari hanno la stessa ricchezza di 3,8 miliardi di persone ridotte alla fame, non è sufficiente criticare un solo Paese. E questo i cinque stelle hanno dimostrato definitivamente con i fatti di non volerlo fare».

    RIZZO (PC): «ACCUSE ALLA FRANCIA VERE, MA PAROLE DI DI MAIO COLPEVOLMENTE PARZIALI»
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  5. #25
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  6. #26
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    In risposta alla provocazione della FGCI

    È davvero svilente leggere comunicati di attacco alla nostra organizzazione come quello pubblicato oggi dalla FGCI e ritrovarci a dover rispondere su una questione tanto pretestuosa, in un momento tra l’altro molto delicato per tutto il movimento comunista in Italia. La situazione ci impone però di fare chiarezza su quanto avvenuto. Non intendiamo spendere più delle poche parole necessarie.

    Premettiamo che se i dirigenti della FGCI avessero perso mezz’ora del proprio tempo a leggere lo statuto della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica (WDFY-FMGD) avrebbero evitato l’imbarazzo suscitato oggi da questo comunicato, e nei mesi passati dalla loro spregiudicatezza nell’attività internazionale.

    Il comunicato afferma che la nostra organizzazione avrebbe proposto l’espulsione della FGCI dalla Federazione Mondiale della Gioventù Democratica. Niente di più falso, forse i compagni dovrebbero tradurre con più attenzione la comunicazione inviata loro dalla FMGD.

    Le premesse da fare sono due. La prima è che durante i primi mesi di quest’anno nella FMGD è stata eseguita una ricognizione delle organizzazioni affiliate in vista dell’Assemblea Generale, che si terrà alla fine di quest’anno. La seconda è che la FGCI dalla sua fondazione, con l’assemblea costituente del settembre 2016, non ha mai formulato nessuna richiesta di ammissione nella FMGD.

    Durante l’ultima riunione del Consiglio Generale della FMGD, tenutasi a Caracas lo scorso aprile in concomitanza con la Missione di Solidarietà organizzata proprio dalla FMGD, si è semplicemente preso atto di ciò. Nessuna espulsione quindi, solamente la constatazione di un dato di fatto. Come è stato peraltro comunicato alla FGCI via mail dalla stessa direzione della FMGD.

    È importante ricordare che questa constatazione è avvenuta nell’organo più ampio della FMGD, il Consiglio Generale, senza necessità di voto in quanto nessuna organizzazione ha potuto mettere in dubbio un punto fondamentale di fronte al quale è inutile discutere. La FGCI non ha mai presentato una domanda d’ammissione e avviato la procedura di adesione.

    Questo elemento potrà forse sembrare meramente burocratico, ovviamente non è così. È una questione sostanziale, per mantenere il carattere antimperialista di un’organizzazione internazionale che conta centinaia di organizzazioni nel mondo è necessario stabilire concretamente un processo chiaro di adesione. Questo ovviamente non per decisione della nostra organizzazione, ma in quanto è il modo in cui si procede su un terreno di organizzazione e coordinamento così complesso. Già nel recente passato ci siamo ritrovati nella situazione di difendere il carattere antimperialista di una delle poche organizzazioni internazionali sopravvissute alla fine dell’esperienza sovietica (la FMGD è tutt’ora organo consultivo dell’ONU e una delle pochissime organizzazioni internazionali presenti con i suoi membri in tutto il mondo). Organizzazioni che nulla avevano a che fare con la lotta all’imperialismo hanno tentato di dichiararsi membri della FMGD utilizzando i vecchi nomi o i vecchi acronomi, per fini opposti a quelli che la FMGD si propone. Una questione che negli anni ha provocato non pochi problemi, ma questo ovviamente la FGCI non può saperlo in quanto è stata costantemente assente da tutti gli eventi internazionali (nota: un’organizzazione non membro della FMGD può partecipare alle sue attività internazionali, soprattutto se vuole entrarne a far parte).

    La condotta del Fronte è stata corretta e trasparente al punto che i dirigenti della FGCI (in un incontro dove erano presenti l’ex segretario nazionale e quello attuale) sono stati informati in anticipo sulle problematiche relative al loro stato in seno alla FMGD, con estrema correttezza, affinché i loro delegati in una riunione all’estero non fossero colti di sorpresa dal fatto che ci trovavamo nella posizione di dover necessariamente difendere le procedure di adesione alla FMGD, e abbiamo spiegato loro che non stavamo muovendo un attacco alla loro organizzazione.

    In quell’occasione abbiamo invitato la FGCI a fare semplicemente una richiesta di ammissione al WFDY. Se la FGCI lo avesse fatto, oggi sarebbe già membro della Federazione Mondiale, senza alcun tipo di problema. Il gruppo dirigente della FGCI, invece, ha consapevolmente cercato di evitare la procedura.

    Procedura tra l’altro molto semplice da avviare e per la quale la FGCI non avrebbe trovato l’opposizione che invece noi trovammo nel 2014 dall’organizzazione giovanile del PdCI. Altra imprecisione presente nel comunicato, sulla quale consigliamo agli autori del comunicato di informarsi presso qualche ex-dirigente di quella organizzazione.

    La decisione è stata condivisa dalla totalità delle organizzazioni, anche perché negli scorsi anni come detto ci sono stati equivoci di simile natura che hanno interessato altri paesi, e che si sono stati risolti allo stesso modo.

    Evidentemente i dirigenti della FGCI, ormai diversi anni fa, hanno deciso di non accogliere il suggerimento e il nostro tentativo di spiegargli il contesto nel quale si stavano affacciando. Oggi ne colgono i frutti. Prendersela con altri per i pessimi risultati di scelte irresponsabili è una cattiva prassi della sinistra italiana, invitiamo la FGCI quindi ad assumersi la responsabilità delle scelte fatte senza attaccare con la menzogna chi da anni svolge il proprio lavoro con serietà all’interno del movimento internazionale.

    Le “altre otto organizzazioni” che secondo il comunicato sarebbero state espulse in realtà sono state eliminate dalla lista delle organizzazioni affiliate in quanto non più attive da anni, al punto da non rispondere a plurimi tentativi di stabilire contatti da parte degli organismi dirigenti della FMGD.

    A tal proposito, a dimostrazione della nostra buonafede nonostante gli attacchi ricevuti in questi anni, segnaliamo che durante un incontro con l’EDON (organizzazione giovanile del Partito cipriota AKEL e titolare della presidenza della FMGD) a margine di un evento internazionale a Cipro nello scorso gennaio è stata la nostra organizzazione a fornire i contatti telefonici della FGCI, dato che a quanto ci è stato comunicato non rispondeva da mesi alle comunicazioni via mail inviate per discutere proprio la questione della non affiliazione alla FMGD.

    Ritrovata la comunicazione con la FMGD, grazie al nostro intervento, hanno pensato fosse per loro vantaggioso inviare un documento di attacco contro la nostra organizzazione al gruppo dirigente della FMGD, alle organizzazioni che coordinano il gruppo regionale europeo della FMGD e alla Federazione stessa. Così facendo, hanno creato molto imbarazzo tra le altre organizzazioni europee e a noi che avevamo appena offerto il nostro aiuto per stabilire le comunicazioni nei mesi precedenti.

    In quel documento la nostra organizzazione è stata accusata dalla FGCI di percepire finanziamenti illegali dall’estero, affermazione che oltre a essere falsa è gravissima, perché può esporre al rischio della repressione i nostri compagni. Nello stesso documento si sostiene che “il Fronte esiste solo a Roma e Torino” mentre la FGCI è diffusamente radicata in tutta Italia; che avremmo rapporti con formazioni di centro-sinistra, che siamo “manovrati” ecc. Per senso di responsabilità, nel constatare che riportare la condotta della FGCI in quell’ambito non fosse in alcun modo utile ad un avanzamento dei comunisti in Italia, ci siamo astenuti dal divulgare in alcun modo queste accuse che abbiamo ricevuto, e ci troviamo costretti a farlo ora per via di un ulteriore attacco da parte della FGCI.

    Ma ciò che forse è stato peggiore è l’attacco che la FGCI ha mosso a tutte le organizzazioni della WFDY all’interno del “documento” inviato.

    La FGCI ha sostenuto che le organizzazioni europee fossero “manipolate”, “manovrate” o intimidite da altre, insultando non solo l’intelligenza dei delegati presenti ma anche la capacità di ciascuna organizzazione di elaborare una propria posizione autonoma relativa tanto alle questioni politiche quanto a quelle organizzative della Federazione. La FGCI ha sostenuto che vi fosse un attacco contro il WFDY, una “campagna di espulsioni promossa da alcune organizzazioni”. Dal nuovo comunicato della FGCI apprendiamo addirittura di essere praticamente i burattinai dell’intero movimento comunista giovanile a livello mondiale.

    Queste affermazioni e questa condotta sono di una irresponsabilità inaudita, e come tali sono state percepite per il loro carattere estremamente provocatorio. Si tratta di una modalità di discussione del tutto estranea a ogni contesto di relazioni fra organizzazioni che cooperano e che sono unite nella lotta contro l’imperialismo e la società capitalistica, pur nel rispetto delle reciproche diversità.

    In conclusione, la FGCI allo stato attuale non è membro della FMGD-WFDY, in quanto è stato chiarito – unanimemente – che è una nuova organizzazione che non ha ancora formulato una richiesta di ammissione. Allo stato attuale, l’unico ostacolo all’ammissione della FGCI alla FMGD è stata proprio la condotta dei suoi dirigenti, gli irresponsabili attacchi verso decine di organizzazioni e la pessima figura che ne è derivata.

    L’invito che vogliamo fare loro è quello di leggere quantomeno lo statuto dell’organizzazione di cui vorrebbero far parte, come in precedenza gli avevamo consigliato di seguire la normale prassi di affiliazione, invece di cercare altre strade che non portano a nulla. Invitiamo la FGCI a informarsi meglio sulla loro stessa situazione, sulle attività e gli eventi della WFDY e sulla natura e le modalità della discussione al suo interno, prima di fare affermazioni così gravi. Questo li aiuterebbe a capire che non esiste alcuna situazione di “correnti”, ma che la Federazione Mondiale della Gioventù Democratica è un importante luogo di discussione e coordinamento tra organizzazioni con differenti posizioni interne, che condividono però una forte responsabilità unitaria sul tema della lotta all’imperialismo in tutto il mondo e in ogni continente.

    In risposta alla provocazione della FGCI | Fronte della Gioventù Comunista
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  7. #27
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Per una prima analisi del voto, e prospettiva del Partito Comunista.




    L’esito delle elezioni europee in Italia ha segnato un generale avanzamento delle forze di destra (Lega Nord e Fratelli d’Italia). I Cinque Stelle escono fortemente ridimensionati perdendo sia nei confronti del loro alleato di governo, che cannibalizza i consensi della coalizione, sia dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra.

    I consensi ottenuti da Lega e Fdi ricalcano comunque l’area di voti per anni tenuta dal centrodestra e dal Pdl ai tempi di Berlusconi. La radicalizzazione a destra di quest’area è frutto della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, frutto delle precise responsabilità del gruppo dirigente renziano e della funzione del Movimento Cinque Stelle che ha traghettato una parte dei suoi voti verso la Lega.

    La Lega si è accreditata negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame identitario, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzate dal mercato unico europeo. Ha cavalcato il tema della sicurezza per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi utile a colpire i lavoratori e le classi popolari.

    Il Movimento Cinque Stelle paga il tradimento degli elementi più radicali della sua proposta che sono caduti ad uno ad uno di fronte alla contraddizione del governo nel sistema di compatibilità capitalistiche e con l’alleanza con la Lega.

    La riarticolazione del peso delle forze di Governo spinge a ritenere probabile la futura caduta di questo esecutivo, prossimo a dover affrontare la finanziaria con clausole e politiche lacrime e sangue che i vertici europei e i settori del grande capitale italiano non ritengono più rimandabili per soddisfare le promesse elettorali.

    L’aumento dell’astensione è un segnale e colpisce soprattutto il M5S, ma in termini generali è la fotografia di una realtà in cui importanti – probabilmente maggioritari – settori delle classi popolari oggi non trovano rappresentanza nel sistema politico.

    L’esito del voto in Unione Europea

    Il voto si polarizza ovunque nel continente tra forze europeiste, che, anche attraverso una maggiore diversificazione, registrano una complessiva tenuta e le forze nazionaliste che avanzano con picchi particolari in singoli Paesi (Italia, Francia, Ungheria…). La riarticolazione del fronte europeista penalizza i partiti socialdemocratici a vantaggio dei verdi e soprattutto dei liberali, che oggi si propongono come prima linea del fronte anti-nazionalista, incassando anche nuovi ingressi come quello del partito di Macron. Nel complesso il fronte europeista tiene inasprendo ulteriormente il suo carattere antipopolare, che vedrà proprio nei liberali la nuova forza trainante come pure appare accadere (sebbene con risultati più modesti) in Italia con Più Europa.

    A uscire sconfitto è senza dubbio il Partito della Sinistra europea che perde consensi a favore di questa polarizzazione verso socialisti e verdi, e non riesce a intercettare minimamente la flessione dei socialdemocratici dove si registra, con il GUE/NGL che registra una marcata riduzione dei seggi. Calano fortemente la Linke tedesca, France Insoumise di Melenchon, Unidos Podemos di Iglesias. Calano marcatamente anche quei partiti comunisti, come il KSCM in Repubblica Ceca e il PCP (Portogallo) che appoggiano i rispettivi governi socialdemocratici, a dimostrazione del fatto che il sostegno ai governi di centrosinistra viene pagato a caro prezzo dai comunisti. Mantengono invece le posizioni quei partiti che sono all’opposizione (PCF, KKE, AKEL…), dato in sé significativo anche nella differenza di posizione tra i partiti citati.

    A riassorbire il calo dei socialdemocratici sono i Verdi, che usufruiscono di un grande risalto mediatico che li accredita come voto nuovo, specialmente tra le nuove generazioni e che coniuga europeismo e rappresentanza diretta degli interessi di colossi industriali e finanziari legati alla green economy, forti, non a caso, proprio in Germania e nel nord Europa.

    L’aumento dell’affluenza registrato in diversi Paesi dimostra che la strategia del capitale di polarizzare l’attenzione popolare sulla competizione tra europeisti e nazionalisti, è un’arma a favore della tenuta complessiva di questo sistema, legando i settori popolari a false alternative che non produrranno alcun reale cambiamento.

    Il quadro della sinistra in Italia

    Il Partito Democratico incassa il successo di una manovra tutta mediatica – la “svolta a sinistra” del neosegretario Zingaretti – tutt’altro che reale, ma assai percepita, recuperando una parte dei consensi perduti specialmente a scapito dell’ex area di Liberi e Uguali. L’utlizzo della logica del voto utile contro le destre e lo spettro del ritorno del fascismo agitato in campagna elettorale cannibalizza anche una parte dei consensi della Sinistra, i cui gruppi dirigenti sono già pronti a sposare la causa di un nuovo centrosinistra a guida Zingaretti.

    La lista di Sinistra ottiene l’1,7% dei voti, con una flessione evidente rispetto all’area della sinistra extra-Pd alle scorse politiche. Un’ennesima prova del fallimento delle liste comuni di carattere elettoralistico, il cui unico scopo, a questo giro, era contarsi per le future trattative sui seggi uninominali con il Partito Democratico in vista delle prossime politiche. Una strategia, quella delle liste comuni, perdente e inconcludente, con la continua sostituzione di simboli e leader, tanto a livello nazionale quanto alle amministrative, che disorienta e non sedimenta alcuna reale ipotesi alternativa. Un disorientamento che è alimentato anche dalla strategia dei gruppi dirigenti che illudono sulla possibilità del raggiungimento del quorum la propria base militante e i propri sostenitori, sacrificando per la conquista di una manciata di voti in più, ogni residua credibilità, provocando ulteriore sconforto e disillusione che produce allontanamento e disimpegno.

    Fascisti: riportare il dibattito sulla realtà.Per l’intera durata della campagna elettorale il tema principale è stato lo scontro tra fascismo e l’antifascismo. All’esito delle elezioni le due formazioni neofasciste hanno registrato risultati modestissimi e un fortissimo calo di consensi rispetto alle scorse tornate elettorali, conquistando insieme appena la metà dei consensi del Partito Comunista che ha superato entrambe queste formazioni a queste elezioni per numero di voti.

    Tutto ciò smonta la bolla mediatica che per mesi ha dato visibilità e autorevolezza a queste organizzazioni, che sono costantemente sovraesposte e considerate ben otre il reale peso nella società. Ciò non significa sottovalutarne la presenza, spesso crescente, nei quartieri. Ma è assolutamente necessario impedire che l’argomento “fascismo”, ingigantito e strumentalizzato, si tramuti nell’ennesima chiamata al voto utile per il PD e il centrosinistra, veri responsabili dell’avanzata della destra.

    Il voto al Partito Comunista



    In questo quadro generale, il voto al Partito Comunista registra un avanzamento che sebbene limitato numericamente è comunque un dato in controtendenza. Il PC aumenta in voti assoluti, passando da 106.000 a 235.000 voti (+ 129.000 voti, pari a un aumento del 120%,), nonostante la minore affluenza rispetto alle scorse politiche (55% rispetto a 72%). Sebbene si parli di numeri ridotti, l’incremento percentuale di voti assoluti del PC è superiore a quello di ogni altro partito (anche Lega e Fdi) e unico dato di controtendenza a sinistra negli ultimi anni. Questo avanzamento dipende solo parzialmente dalla presenza in tutto il territorio nazionale, dal momento che risulta marcato sia in termini assoluti che percentuali, anche nel confronto diretto in tutte le regioni dove il PC si era presentato alle scorse elezioni (es. Toscana da 22.166 a 31.425, in percentuale da 1,04% a 1,68%; Umbria da 4.521 a 7.001, in percentuale da 0,88% a 1,56%; Basilicata da 1.511 a 2.645, in percentuale da 0,48% a 1,11% ecc…). Anzi proprio in queste regioni si registra un aumento maggiore a conferma del fatto che la presenza costante nel tempo, produce un’accumulazione di massa critica attorno ai comunisti. Complessivamente il Partito Comunista ottiene lo 0,9% dei voti nazionali, che corrisponde al terzo risultato in numeri assoluti – senza tenere conto quindi della differente popolazione dei Paesi – dei Partiti comunisti in Europa, dopo PCF (Francia), KKE (Grecia) e superiore al PCP (Portogallo) e al KSCM (Rep. Ceca), e al terzo risultato in un Paese del G7 (dopo Giappone e Francia).

    Il risultato del PC è in linea con le nostre previsioni di crescita e rafforzamento, e corrisponde allo stato attuale dei rapporti di forza nel nostro Paese. Abbiamo sfruttato ogni occasione per portare la nostra linea politica, non rassegnandoci alla farsa del dibattito da campagna elettorale, ma facendo avanzare le nostre idee di una società alternativa, esprimendo esplicitamente la nostra contrarietà alla Unione Europea, all’euro e alla Nato, ponendo al centro il conflitto capitale/lavoro e la prospettiva della conquista del potere politico da parte dei lavoratori.

    I media borghesi non ci hanno regalato nulla. Al PC sono stati concessi solo lo 0.5% globale degli spazi mediatici, con la pressoché totale assenza da Rai3, Tg3, e trasmissioni di Formigli e Floris, neanche una menzione sul Manifesto sebbene si definisca “quotidiano comunista”. Abbiamo diffuso oltre un milione di volantini, attaccato decine di migliaia di manifesti cercando di arrivare ovunque, nonostante i pochi mezzi e le poche risorse disponibili. Abbiamo rilanciato una presenza di piazza dei comunisti, con iniziative e comizi.

    Registriamo con rammarico che il nostro appello a una convergenza unitaria delle forze comuniste e antimperialiste sulla nostra candidatura non ha sempre ricevuto il sostegno sperato. Abbiamo visto “comunisti” sostenere “tatticamente” il Movimento Cinque Stelle, ossia il partito di governo; “comunisti contro l’Unione Europea” lasciare libertà di voto tra noi e una lista legata al partito della Sinistra Europea, ossia alla sinistra europeista e perno della distruzione del movimento comunista in Europa. Tutto ciò ha continuato ad alimentare confusione e disorientamento a livello di base, fattori che non giovano alla ricostruzione comunista. Nei giorni della campagna elettorale si sono moltiplicati verso il Partito Comunista attacchi di ogni tipo da parte di organizzazioni di sinistra e anche comuniste, con l’obiettivo di screditare la nostra organizzazione. Consideriamo la condotta di ciascuna organizzazione in questa circostanza un elemento dirimente per la valutazione sui rapporti futuri nell’ottica degli sforzi per l’unità comunista.

    Ringraziamo invece i tanti compagni e le tante compagne di base, che hanno compreso l’importanza di questo passaggio, capendo che il rafforzamento del Partito Comunista era l’unico modo per tenere aperta in Italia la questione comunista, rafforzare un’opposizione di classe in questo Paese e mettere questo risultato a disposizione di un avanzamento collettivo. Ringraziamo quelle organizzazioni, quei collettivi e quelle formazioni politiche e sindacali che al PC hanno dato un sostegno anche attraverso legittime critiche propositive. A loro guardiamo per stringere maggiore collaborazione e avanzare nella necessaria unità comunista.

    La nostra strategia per il futuro

    Concepiamo il risultato ottenuto come una più ampia base di partenza per il lavoro di rafforzamento e radicamento del Partito Comunista. La linea che abbiamo tenuto fino ad ora è corretta e questa è la strada su cui proseguiremo. Necessita di tempo per produrre a pieno i suoi frutti, dopo anni di disastro, per riconquistare la fiducia dei lavoratori e delle classi popolari. La scelta peggiore sarebbe quella di non dare seguito e non proseguire con coerenza su questa strada, ma ricercare scorciatoie opportuniste già provate dalla sinistra in passato, che hanno prodotto la distruzione del movimento comunista in Italia.

    Sull’argomento dell’unità intendiamo essere chiari. Noi ci adopereremo per la più vasta unità dei comunisti, sulla base di una linea rivoluzionaria e coerente. Praticheremo questo percorso attraverso la convergenza nelle lotte reali e lo sviluppo di iniziative politiche di approfondimento, dibattito e studio sulle principali questioni strategiche che oggi sono in discussione. Ci adopereremo per la massima unità sul terreno delle lotte sociali, con le forze sindacali di classe e conflittuali, con le organizzazioni del movimento studentesco, con i comitati di lotta per costruire un’opposizione sociale alle politiche antipopolari del governo.

    Ma con altrettanta determinazione e chiarezza respingiamo sin da ora gli appelli all’unità con il centrosinistra. La storia degli ultimi anni ha dimostrato che non esistono margini per riforme in favore dei lavoratori e delle classi popolari, che il potere è saldamente nelle mani dei grandi gruppi finanziari, che il governo con forze di centrosinistra conduce solamente al tradimento dei lavoratori. L’unità con il centrosinistra non è utile a fermare la destra, e anzi la rafforza e radicalizza, aumentandone il consenso nei settori popolari.

    Il PC continuerà la sua lotta politica e ideologica per far comprendere ai lavoratori e alle classi popolari che il Partito Democratico non è un partito in favore dei lavoratori; che non è migliorabile dall’interno; che non siamo tutti dalla stessa parte e che sui temi determinanti il PD è il partito più rappresentativo degli interessi del grande capitale. Lavoriamo per contrastare il tentativo del PD di accreditare una “svolta a sinistra” che non esiste, e che è solamente un espediente elettoralistico per riconquistare consensi. Allo stesso tempo spiegheremo che l’unità con la sinistra che cambia nome e sigla ad ogni elezioni, che è pronta ad accordi con il PD, porta all’immobilismo e all’estinzione; che è impossibile una unità con chi nei fatti difende l’Unione Europea e la Nato, con chi non si propone come orizzonte l’abbattimento del sistema capitalistico.

    Le elezioni hanno dimostrato, sebbene con risultati ancora minimi, che una linea politica rigorosamente contro l’Unione Europea, in favore dei lavoratori e delle classi popolari, un’organizzazione che si radica nei luoghi di lavoro e nelle periferie, è l’unica che riesce a contendere spazi di consenso alla destra e a tornare a rappresentare settori popolari che legittimamente si sono astenuti in mancanza di una propria rappresentanza. Riconquistare astenuti e ammaliati dalle parole di cinque stelle e lega, è tanto importante quanto convincere quella parte delle classi popolari che continuerà a votare centrosinistra in nome del “meno peggio”.

    Allo stesso tempo la strada dell’opposizione sociale contro questo governo è l’unica che può garantire risultati di radicamento e costruzione. Lottare per smascherare le contraddizioni che a mano a mano verranno alla luce, intercettando simpatie e consenso dei settori delle classi popolari tradite anche dalle promesse di Cinque Stelle e Lega, denunciandone il carattere reazionario e antipopolare. Solo questo, e senza nessuna confusione con il centrosinistra, potrà far avanzare il radicamento del Partito.

    Per fare tutto questo è necessario un grande passo avanti. nella costruzione del Partito e alla sua attività, aprendo al contributo di quanti ci hanno manifestato sostegno in queste elezioni. Se il risultato elettorale del Partito Comunista è limitato è perché troppo limitato è ancora il nostro radicamento locale, troppo grande è l’assenza di canali di informazione che possano condurre ogni giorno una battaglia politica e teorica di controinformazione rispetto ai media capitalistici, troppo debole è ancora la nostra capacità di intervento nel conflitto sociale e la nostra presenza nei sindacati. Dotarci di strutture stabili all’altezza dei tempi e dei compiti da svolgere, radicarsi nei luoghi di lavoro e nelle periferie, praticare la lotta di classe nelle contraddizioni esistenti, incrementare la lotta politica e ideologica. Questi sono i nostri compiti immediati.

    Proseguiremo il grande lavoro che il FGC realizza sulla gioventù, sostenendolo con ogni nostro sforzo. Il fattore dirimente nella ricostruzione comunista è già oggi il grande afflusso di giovani dalle scuole, dalle università e dai quartieri popolari, che sono la spina dorsale della ricostruzione comunista in Italia. Vedere piazze piene di giovani, mentre a sinistra si va verso l’estinzione, è la conferma della correttezza del lavoro che stiamo svolgendo. Organizzare, preparare questa gioventù sarà centrale nel nostro lavoro.

    Allo stesso tempo continueremo a rafforzare i nostri legami internazionali in particolare con le organizzazioni comuniste e con il lavoro nella Iniziativa Comunista Europea, in Solidnet e nelle strutture del movimento comunista internazionale. Legami internazionali che hanno dimostrato la loro concretezza e necessità anche in queste elezioni. Siamo convinti di aver dato un contributo positivo alla ricostruzione internazionale del movimento comunista in questi anni, anche attraverso questo risultato elettorale, e andiamo fieri di questo.

    Per fare tutto questo abbiamo bisogno del contributo diretto, in ogni forma e sostegno possibile, di ciascuno dei nostri sostenitori. Sappiamo che in Italia esistono 235.000 comunisti che hanno votato PC. Organizzare la parte maggiore possibile di quel numero perché diventino sostenitori, militanti, del partito e della gioventù comunista.

    Per questo facciamo un appello a tutti coloro che ci hanno sostenuto a queste elezioni, a quanti guardano a noi: sappiamo che il nostro partito ha ancora tante insufficienze, dateci una mano a superarle. Sappiamo che scontiamo lacune, assenze territoriali e in situazioni di conflitto: dateci una mano a colmarle. La costruzione del Partito Comunista non chiede tifosi o spettatori, ma protagonisti attivi. Insieme possiamo realizzare tutto questo.

    Ufficio Politico Partito Comunista
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

  8. #28
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    +Europa propone libero scambio UE-Africa. Rizzo (PC): «Chiamiamolo col suo vero nome: imperialismo»



    Nella mattinata odierna sul sito del partito +Europa è stato pubblicato un articolo a firma di Marco Marazzi(1), nel quale l’autore, esponente liberale di spicco, ex coordinatore degli iscritti dell’ALDE in Italia e candidato con il suo partito alle scorse elezioni europee, senza ovviamente risultare eletto, auspica la stipula di un trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e i paesi dell’Africa.



    Nell’articolo, vengono citati quali esempi “virtuosi” alcuni accordi analoghi stipulati dall’UE di recente, tra cui il JEFTA, ossia quello con il Giappone(2). Va notato come lo stesso articolo non escluda la possibilità di ricadute economiche negative per i paesi africani. La vera finalità che la proposta di un trattato di libero scambio nasconde è il tentativo di parte delle imprese europee di sfruttare ulteriormente il continenente africano, ancor più nel quadro geopolitico mondiale, che vede i grandi monopoli europei contendersi il predominio economico in Africa con potenze quali Cina, Russia e Stati Uniti.


    Le dure reazioni social al post di +Europa

    Un ipotetico accordo permetterebbe da un lato una sempre maggiore depredazione delle risorse naturali dell’Africa, con un conseguente impoverimento generalizzato dei paesi in questione, costretti a svendere ancor più le proprie ricchezze alle grandi imprese europee, e dall’altro la possibilità per le stesse di spostare la produzione laddove più conveniente e di livellare quindi al ribasso salari e diritti in entrambi i continenti.


    Il post di Marco Rizzo sul suo profilo social

    Una dura reazione alla posizione espressa da +E è arrivata dal segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo, secondo cui: «Le parole di +Europa in favore dell’accordo di libero scambio con l’Africa nascondono gli interessi di settori del grande capitale europeo che gioverebbero dell’accordo aumentando i proprio profitti, depredando i paesi dell’Africa e colpendo allo stesso tempo i lavoratori europei e quelli africani. Emblematico poi il fatto che il partito che si rende fautore di una simile ipotesi sia lo stesso che ha entusiasticamente sostenuto tutte le politiche antipopolari volte a colpire i lavoratori, i pensionati e i giovani delle classi popolari nel nostro paese. A tale proposito un grande politico africano, il comunista Thomas Sankara, diceva: “Le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune.” Una volta si chiamava colonialismo; oggi, e queste proposte di “libero scambio” lo rendono sempre più evidente, chiamiamolo col suo vero nome: imperialismo. Ed è, oggi come ieri, il nemico comune dei nostri popoli.»

    Il partito +Europa era già stato bersaglio di accuse da parte del Fronte della Gioventù Comunista in relazione ai finanziamenti ricevuti in vista delle elezioni europee da esponenti della grande finanza quali George Soros e la famiglia Agnelli (3).

    ______________
    1) La “Partnership di eguali” tra EU e Africa, +Europa, 23 giugno 2019

    2) Per approfondire: Nuovo accordo internazionale tra capitalisti: ecco il JEFTA, La Riscossa, 9 luglio 2017.

    3) Per approfondire: Chi finanzia i partiti? Da banche e miliardari finanziamenti da +Europa e Lega. Senza Tregua, 20 maggio 2019

    +Europa propone libero scambio UE-Africa. Rizzo (PC): «Chiamiamolo col suo vero nome: imperialismo» | La Riscossa
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  9. #29
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    Predefinito Re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    UNIVERSITÀ, PROTESTE IN TUTTA ITALIA CONTRO I TEST D’INGRESSO. FGC: «NON C’È MERITOCRAZIA SENZA UGUAGLIANZA».



    In occasione delle prove di accesso alla facoltà di Medicina, il Fronte della Gioventù Comunista (FGC) si è mobilitato nelle università di tutta Italia contro il numero chiuso. Manifestazioni di protesta ci sono state nelle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze, Cagliari, Bologna e decine di atenei in capoluoghi di provincia e regione.

    «L’estrazione sociale degli studenti è diventata la prima determinante dell’esito dei test. C’è chi viene da scuole prestigiose e paga corsi privati da migliaia di euro, e chi deve lavorare per pagarsi l’università, dov’è la meritocrazia?» così Luca Paolucci, responsabile università del FGC – «L’Italia soffre da anni una cronica mancanza di personale medico e sanitario, con un costante saldo negativo fra pensionati e nuovi assunti. In 7 anni abbiamo perso 9mila medici e mancano 50mila infermieri. Il numero chiuso serve solo ad assecondare lo smantellamento della sanità pubblica, dopo anni di tagli voluti dai diktat UE, tutto a vantaggio del privato».

    UNIVERSITÀ, PROTESTE IN TUTTA ITALIA CONTRO I TEST D?INGRESSO. FGC: «NON C?È MERITOCRAZIA SENZA UGUAGLIANZA». | Fronte della Gioventù Comunista
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  10. #30
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    Predefinito Re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Sabato 5 ottobre in piazza contro il nuovo Governo. Appello ad una manifestazione unitaria.



    Con il voto favorevole degli iscritti al Movimento Cinque Stelle la nascita del nuovo governo Conte, è ormai questione di ore. Il Movimento Cinque Stelle insieme con il Partito Democratico e ciò che resta della “sinistra” in Parlamento (Liberi e Uguali e Sinistra Italiana) si apprestano a formare il nuovo esecutivo nel segno della piena continuità con i precedenti. Cambia il colore ma il quadro resta uguale.

    Non sarà un governo di svolta, ma un governo che proseguirà le politiche antipopolari in favore della finanza e delle grandi imprese. Un governo dei poteri forti, delle banche, dei mercati, dell’Unione Europea, della Confindustria con il sostegno esplicito degli Stati Uniti, della Nato, del Vaticano. Le manifestazioni di sostegno di tutti questi settori e la valutazione positiva espressi dai mercati non lasciano alcuna ombra di dubbio. Noi comunisti vogliamo da subito denunciare il carattere antipopolare di questo governo, invitando i lavoratori e non cadere nella trappola dei “governi amici” e non riporre false speranze in questo esecutivo.

    I giornali hanno definito questo governo “giallo-rosso”. Rifiutiamo questa definizione perché il nuovo governo Conte di “rosso” non ha assolutamente nulla. È l’ennesimo prodotto della rinuncia del Movimento Cinque Stelle alle istanze più radicali e di svolta dei suoi programmi. I cinque Stelle, dopo aver accettato l’alleanza con la Lega, rafforzando Salvini e la destra, oggi si alleano con il PD pur di mantenere il proprio ruolo di governo. Poche settimane fa con il loro voto determinante hanno permesso l’elezione di Ursula Von Der Leyen a Presidente della Commissione Europea, presentandosi a livello internazionale come nuovo partito della stabilità nel nostro Paese. “Rosso” non è certamente il Partito Democratico, alfiere delle politiche antipopolari, strenuo sostenitore dell’Unione Europea e della Nato, capace attraverso la propria influenza sui sindacati confederali di legittimare le peggiori politiche contro i lavoratori spegnendone l’opposizione sociale. “Rossa” non è neppure quella sinistra residuale presente in Parlamento (Liberi e Uguali, Sinistra Italiana) che subito si è accodata al nuovo esecutivo, tanto fondamentale per i numeri della maggioranza, quanto ininfluente nella definizione delle politiche di governo, spinta solo dall’autoconservazione dei propri gruppi dirigenti e priva di qualsiasi ruolo sociale.

    Non sarà questo governo a fermare la crescita della Lega e della destra, i cui provvedimenti reazionari, repressivi e razzisti hanno giustamente destato sdegno e grande preoccupazione in ampi settori delle classi popolari. Chi crede che l’alternativa a una destra nazionalista possa essere il governo diretto dall’Unione Europea si illude e fa il gioco della destra. Proprio questo governo, fatto passare mediaticamente come governo “di sinistra”, sarà un nuovo e potentissimo sponsor della crescita della destra nel nostro Paese, che già oggi appare agli occhi distratti di molti, come l’unica alternativa possibile.

    In questo quadro, dominato dalla finta alternativa tra nazionalisti e europeisti è dovere dei comunisti promuovere una forte opposizione politica al governo nascente e lavorare per la formazione di un vasto fronte sociale capace di unire i lavoratori e le classi popolari, le organizzazioni sindacali di classe e le forze politiche e di movimento. Un fronte di lotta che dimostri che l’unica vera alternativa possibile è quella in cui il potere è nelle mani dei lavoratori e delle classi popolari, che ha come presupposti l’uscita dell’Unione Europea e dalla Nato, e la rottura con le politiche e gli interessi capitalistici.

    Per questa ragione il Partito Comunista convoca una grande manifestazione in piazza a Roma, sabato 5 ottobre, lanciando contestualmente un appello a tutte le forze sindacali e politiche che con noi condividono la necessità di costruire un’opposizione sociale a questo governo a partecipare e organizzare insieme a noi questa manifestazione.

    Sabato 5 ottobre in piazza contro il nuovo Governo. Appello ad una manifestazione unitaria.
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

 

 
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