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    Il Re del Nord
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    COMUNISTE/I: LA FORMA PARTITO

    Alcune riflessioni.

    di Fosco Giannini

    Le varie esperienze vissute negli ultimi decenni sino agli ultimissimi anni come militante e dirigente comunista mi inducono ad alcune riflessioni circa la forma-partito che le comuniste e i comunisti debbono darsi in questa terribile contemporaneità italiana, segnata da un’egemonia totale e ramificatissima della cultura della classe dominante e dalle varie forme in cui essa si presenta: il moderatismo delle forze “democratiche” e sistemiche, il populismo, il neo fascismo, il razzismo, l’astensionismo – non solo elettorale, ma soprattutto politico e civile – sino alla forma più raffinata, quella di alcune sinistre (anche nominalmente “radicali”) che, rinunciando a sviluppare e praticare una critica al cuore dei poteri imperialisti e capitalisti, divengono – organizzando e spegnendo in sé anche forze sociali, politiche e intellettuali avanzate e d’avanguardia– anch’esse funzionali al perpetuarsi del sistema dominante.
    Una riflessione sulla forma-partito comunista per questa fase e in un deserto drammatico di ricerca teorica, richiederebbe lo spazio di un vasto documento, di un saggio. Non essendo questa la sede per una riflessione strutturata di questo tipo, vorrei scegliere la strada di una riflessione per punti secchi, per soli appunti ed evocazioni, che per ragioni di spazio rinunci a troppe argomentazioni, che come compito abbia solo quello, peraltro oltremodo necessario, di aprire una discussione seria e onesta.
    Vorrei dividere queste riflessioni portate all’osso in tre punti: questioni politiche, questioni teoriche, questioni organizzative.
    Questioni politiche:
    E’ del tutto evidente che in questa fase il potere reale che si dispiega in Italia, che segna di sé ogni segmento della vita quotidiana e della riproduzione del potere, discende da quattro grandi poli: l’imperialismo USA, la NATO, l’Unione europea e il grande capitale, nella sua filiera di capitale industriale, finanziario e bancario. Tuttavia, come segno estremo della propria egemonia, questo quadruplice potere opera scientemente per mascherarsi, per non mostrare la totalità del proprio dominio. Tale, titanico infingimento fa cogliere al quadruplice potere l’obiettivo di presentarsi agli occhi delle masse come fenomeno complessivamente “naturale”. Sino al punto che non vi è più una contrapposizione, né significativa né di massa, all’imperialismo USA, alla NATO, all’Ue e al grande capitale italiano. Naturalmente, il quadruplice potere coglie questo determinante obiettivo anche attraverso l’ambiguità ideologica e politica di quelle forze che, pur facendosi percepire democratiche e di sinistra, anche di sinistra apparentemente radicale, non andando ai centri nevralgici delle questioni (non sviluppando coerentemente una politica antimperialista, non battendosi per l’uscita dell’Italia dalla NATO, dall’Euro e dall’Unione europea e non lottando conseguentemente contro gli assetti capitalistici italiani) partecipano alla costruzione della mitologia del quadruplice potere come potere “naturale”, divenendo stravaganti quanto innocui “ornamenti” dello stesso sistema complessivo del potere.
    E’solo in questo quadro, totalmente oggettivo, che vanno definiti i compiti di un Partito Comunista all’altezza dei tempi e dello scontro di classe. Se chi da forma e sostanza al dominio concreto è oggi il quadruplice potere, è del tutto evidente che il Partito Comunista, il PCI, deve scegliere, come fronti di lotta assolutamente prioritari, ma quasi del tutto disertati, il fronte della lotta antimperialista, quello della lotta contro la NATO, contro l’Ue e contro il grande capitale italiano. Una lotta complessiva che richiede al PCI di essere avanguardia politica e teorica, una lotta che, di fronte alla struttura totemica del quadruplice potere, sarà una lotta in controtendenza anche rispetto al senso comune di massa e che dunque potrà anche non portare immediati consensi di massa.
    Una lotta, però, di tipo strategico, per la quale occorrerà tutta la pazienza rivoluzionaria, i tempi lunghi della ricostruzione di un Partito Comunista con incidenza di massa, una lotta la cui importanza non potrà essere determinata dagli impatti e dai risultati elettorali contingenti. Una lotta di tipo storico, che sarà misurata solo dalle fasi future, dai decenni futuri e non dalle collocazioni e dalle coalizioni elettorali di questa fase. Ed è del tutto evidente che per una lotta di questo tipo, la più difficile ma l’unica densa di senso storico, occorre innanzitutto un forte partito di quadri, quadri di alto livello politico, teorico e morale, quadri tutti omogeneamente e intellettualmente consapevoli della necessità della priorità della lotta antimperialista, della necessità della fuoriuscita dell’Italia dalla NATO, dall’Unione europea e dall’Euro, della necessità di individuare i punti alti della riproduzione del potere capitalistico italiano e su quei punti organizzare la lotta. Un livello alto di coscienza politico-teorica dei quadri che impedisca anche quella vera e propria degenerazione culturale, per molti versi persino immorale, attraverso la quale ogni tornata elettorale può divenire pretesto per dure lotte intestine, lacerazioni, contrapposizioni violente, scissioni. E tutto ciò per un’enfatizzazione di natura socialdemocratica del passaggio elettorale. Le elezioni non sono che una piccola parte, e certo non centrale, della lotta di classe, del progetto rivoluzionario. E la deriva elettoralistica, la guerra elettoralistica all’interno va rieducata. Attraverso la disseminazione di una coscienza di classe alta. Oggi mancante.
    Questo approccio generale, ad avviso di chi scrive, è l’unico modo di pensare ed impostare una lotta comunista nella fase data, in questa fase contrassegnata da un dominio così vasto delle culture dominanti e moderate da restringere ad un’area di poche centinaia di militanti l’area della militanza comunista, una militanza che in ragione di ciò non può essere diluita e dispersa in cento fronti di lotta, in campagne sociali che solo un partito già di massa potrebbe sostenere, ma va messa a valore nelle lotte di densità strategica che, sole, possono nel tempo definire e rimandare alle altre avanguardie di lotta e alle masse un profilo, un’immagine politica e ideologica chiara del PCI e, insieme, sia temprare politicamente e ideologicamente i quadri, che stabilire sul campo di lotta le vere alleanze, non quelle elettorali last minute, spesso vaghe e opportunistiche.
    Last but not least, ultimo ma non ultimo, la questione, in Italia, dell’unità dei comunisti: è del tutto evidente che tale processo sia fallito, che tale missione non si sia compiuta. La diaspora comunista, seppur assottigliatasi, rimane ancora significativa, e comunque orfana. Anche all’interno del PRC le contraddizioni sulla natura stessa del Partito rimangono e rispetto a tutto ciò non possiamo considerare terminata la missione del PCI volta all’aggregazione comunista nel nostro Paese. Non si può dire: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Se lo stesso PCI intende rafforzarsi deve avviare nuovi processi di accumulazione di forze comuniste. Anche rimettendosi in gioco. Da tutto ciò ne consegue che occorre rilanciare, con forme diverse e fortemente unitarie, la stessa Costituente Comunista, il suo senso profondo. Che vuol dire innanzitutto aprirsi. Riaprirsi. Verso la diaspora comunista di più lungo periodo ma anche verso chi abbiamo perduto. Ascoltandone le ragioni.

    Questioni teoriche:
    E’ del tutto evidente che un Partito Comunista che sceglie come fronti prioritari e strategici di lotta quelli diretti contro il quadruplice potere USA-NATO-Ue e grande capitale italiano (quadruplice potere che vede la quarta forma di potere, quella del capitalismo italiano, spesso subordinata e sussunta dagli altri tre poteri) dev’essere un Partito dotato di un impianto ideologico e culturale d’avanguardia, attraverso il quale formare, fino all’ultimo, i propri quadri. E due sono i terreni principali attraverso i quali il Partito Comunista può dotarsi sia di una spina dorsale ideologica d’avanguardia che formare i propri quadri: la lettura del quadro internazionale e la collocazione del Partito in tale quadro e, seconda questione, l’esigenza di fare i conti sino in fondo con la propria storia. Ciò vale specialmente per l’odierno PCI, che i conti con la storia del PCI che va dal 1921 ad Occhetto deve ancora, molto colpevolmente, farli.
    Per ciò che riguarda la prima questione: il quadro internazionale è oggi segnato dallo scontro strategico tra forze imperialiste, ancora capeggiate dagli USA, e un intero e vasto fronte planetario -che vede la Repubblica Popolare Cinese come cardine- dal carattere oggettivamente antimperialista, un fronte che ha scelto, Paese per Paese, la coppia dialettica autonomia statuale e cooperazione e che persegue, Paese per Paese ( con uno spirito esattamente contrario a quello in vigore nell’Ue, dove gli Stati vengono svuotati di senso per imporre politiche liberiste) uno sviluppo economico contrassegnato da un fitto e articolato scambio commerciale planetario dalla natura anticolonialista e antimperialista che richiede, per la propria riproduzione, la pace, la negazione delle tensioni e dei conflitti mondiali. A partire dall’odierna lezione politica e teorica del PC Cinese. A partire dal senso ultimo della Nuova e planetaria Via della Seta. E’del tutto evidente che un Partito Comunista che vuol ritrovarsi nell’orizzonte storico non può che scegliere di far parte di questo fronte mondiale antimperialista, prendendo tutte le distanze da quei Partiti Comunisti che, a partire dalla condanna di neoimperialismo affibbiata alla Repubblica Popolare Cinese e al PC Cinese, di condanna della Russia di Putin e del PC Russo, puntano disgraziatamente a rompere il movimento comunista mondiale. Anche in Italia vi sono piccoli partiti che svolgono questo nefasto ruolo.
    La seconda questione che deve stare alla base del rilancio del PCI: fare i conti con la propria storia. Dalla “Bolognina” e dallo scioglimento del PCI sono passati già circa trent’anni e ancora la polvere si nasconde sotto il tappeto. Si continua a gestire scientemente un’ambiguità di giudizi su Berlinguer e la fase berlingueriana e si perpetua quest’ambiguità in nome di un opportunismo volto a “non dividere”, a non perdere pezzi, nell’illusione, vana, che la discussione politica, teorica e ideologica si compia da sola, che sia il tempo a far decantare le cose e mettere ordine nei pensieri. Ciò è un errore gravissimo. Le cose non vanno a posto da sole, l’ambiguità permane ed essa produce, all’interno del Partito, “un’antipatia”, persino una lotta intestina tra fazioni diverse, una lotta sorda e continua. Sarebbe invece compito prioritario dei gruppi dirigenti, compito colpevolmente non svolto, avviare una discussione profonda, alta, volta a chiarire sino in fondo, in modo non opportunistico, le questioni relative alla fine del PCI e quelle relative ai processi di socialdemocratizzazione di quel Partito.
    E rispetto a ciò è del tutto evidente quante e profonde siano state le responsabilità, politiche e teoriche di Enrico Berlinguer. La scelta della NATO, la rottura, da destra, con l’Unione Sovietica, l’eurocomunismo, la scelta delle socialdemocrazie europee quali nuovi e privilegiati partners del PCI e la conseguente rottura con una parte importante del movimento comunista europeo, la solidarietà nazionale, il proseguimento, ma sino alla degenerazione, dell’organizzazione del partito di tipo antileninista, antigramsciano e amendoliano: tutte queste questioni non possono non essere considerate quali veri e propri prodromi della stagione occhettiana e della fine del PCI.
    E’ proprio ora che l’attuale PCI, attraverso la messa in campo di una riflessione politico-teorica seria, il più possibile scientifica, faccia i conti con quella che va considerata anche la propria storia, la storia da cui proviene. Anche per non lasciare alle feroci e desolanti liti pubbliche tra compagni/e su Facebook l’esclusiva della discussione.

    Questioni organizzative :
    La crisi della militanza politica è un dato oggettivo riscontrabile su vasta scala e tocca naturalmente anche il PCI. L’attuale numero di iscritti e di militanti del PCI non è certo quello di un partito di massa. Tuttavia, la vastità dei suoi gruppi dirigenti è invece quella propria di una organizzazione di massa. Viviamo questa contraddizione. Il primo obiettivo organizzativo, per il PCI, è sicuramente quello di un drastico sfoltimento dei gruppi dirigenti. Il punto di vista di scrive è che occorre giungere ad un C.C. di una quarantina di compagni/e: ciò permetterebbe una vera selezione a monte e la costruzione di un gruppo dirigente di più alta qualità e tenuta politica. La discussione tra una quarantina di compagni sarebbe ben più profonda e vi sarebbe la possibilità, tutta democratica, di convocare più spesso il gruppo dirigente centrale del Partito. Oltre ciò, un C.C. che divenisse una palestra vera di discussione politica alta, di confronto, diverrebbe anche una sorta di fucina per la costruzione dei quadri. Per ultimo, un C.C. così snello permetterebbe di abbattere i grandi costi individuali e collettivi che vengono richiesti dalla convocazione dei circa 120 compagni/e attuali (tutti i dati sono pubblici e disponibili su questo stesso sito. Non rivelo niente di segreto). Uno stesso, drastico, sfoltimento dovrebbe avere anche la Segreteria Nazionale. Si può giungere razionalmente ad una Segreteria di cinque, nell’obiettivo di avere un gruppo dirigente di massima qualità, facilmente convocabile, agile, con molto tempo a disposizione per la discussione politica profonda. In modo che la difficoltà oggettiva della convocazione di un organismo troppo vasto non sia mai il pretesto per aggirarlo, giungendo così a veri e propri esautoramenti del ruolo del gruppo dirigente stesso. E al peggiore dei vizi: la personalizzazione del potere. Sul piano generale più gli organismi dirigenti sono vasti, pletorici e difficilmente convocabili (anche per ragioni economiche) più scade l’elemento democratico, mentre sale il pericolo, che sempre incombe, dell’accentramento, della gestione in mano a pochi e l’azzeramento, di fatto, dei gruppi dirigenti, compresa la Segreteria. Una degenerazione che, quando si presenta, invalida di fatto anche il quanto mai necessario centralismo democratico. Che dev’essere democratico, non burocratico. Il PCI dispone anche di una Direzione Nazionale: credo se ne possa fare a meno. Certo è, tuttavia, che la questione centrale rimane sempre quella della democrazia: la riduzione secca e necessaria sia del C.C. che della Segreteria richiede un forte rafforzamento del rapporto con i territori, che devono essere molto più coinvolti nel lavoro politico e decisionale del Partito di quanto accada ora.
    Credo che dobbiamo iniziare profondamente a riflettere anche sulla figura del Segretario. Lenin non è mai stato Segretario del Partito. La mitologia post staliniana del Segretario ha gettato e sta ancora gettando ombre degeneranti sui partiti comunisti. Volens nolens la figura mitica del Segretario può fortemente danneggiare la democrazia interna del Partito Comunista. A partire dal peso che ogni Segretario, indipendentemente dalla sua vera statura culturale e politica, eredita oggettivamente dalla storia comunista, i pericoli di accentramento, di decisionismo, di non rispetto della democrazia e dei gruppi dirigenti sono pericoli sempre incombenti. E più un partito è piccolo, per ovvie ragioni, per mancanza di camere di compensazione politica all’accentramento gestionale, più il pericolo di piccole dittature può prendere corpo.
    Occorre trovare contromisure, occorre che in modo determinato, politicamente, culturalmente, si giunga a delineare la figura di un Segretario/a che sia solo un primus inter pares, non tanto di più di un coordinatore della Segreteria, un portavoce momentaneo del Partito, ruolo che si può svolgere, in Segreteria, anche a rotazione. E, in prospettiva, attraverso un processo culturale da innescare subito, la figura mitologica del Segretario può anche essere superata. A favore di una forte democratizzazione del Partito. Perché se è vero che il Partito Comunista dev’essere anche l’anticipazione del socialismo che vogliamo, esso dev’essere l’anticipazione di una democrazia socialista. Nella prima fase, gli eventuali elementi negativi di un Segretario/a che sia, nel gruppo dirigente ristretto, solo un segretario tra segretari, saranno comunque molto minori degli elementi positivi, poiché le incrostazioni antidemocratiche che inevitabilmente si accumulano nella figura del “capo” tenderanno a scomparire.
    Un Partito Comunista che, come il PCI oggi, opera all’interno di un’egemonia totalizzante della cultura dominante, che non ha risorse né molta militanza non può disperdere la propria azione in mille rivoli, non può costruire un numero smisurato di Dipartimenti, non può interpretare il ruolo del grande PCI dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Scimmiottarlo. Anche in relazione ai fronti di lotta principali sui quali deve investire il proprio impegno (antimperialismo, lotta contro la NATO, contro l’Ue e il grande capitalismo italiano) occorre che il PCI sfrondi la propria, spesso prosaica, organizzazione e punti a rendere efficienti i punti di lotta principali. Peraltro (è esperienza concreta, si è visto nella pratica) la proliferazione solo nominalistica dei Dipartimenti e la loro conseguente inefficacia, produce, da una parte, frustrazione e malcontento generale per la staticità e l’irrilevanza dei Dipartimenti stessi, producendo, d’altra parte, un fenomeno di polverizzazione della già scarsa militanza. Ciò che c’è da capire per sempre è che noi non siamo il PCI di massa di un tempo e ogni maldestro tentativo di imitarlo ci rende risibili e più frustrati. Noi dobbiamo cercare incessantemente nuove strade, adatte ai tempi e alla nostra forza reale.
    Ma davvero centrale, in una fase che altrimenti non può essere definita se non fase di Resistenza, è la costruzione dei quadri, quadri che solo se dotati di particolare tempra morale e politica e livello ideologico alto potranno resistere e difendere la barca-partito in questi tempi di marosi altissimi. Un quadro si tempra nella lotta e nello studio. Spesso, il Partito, non offre nessuna delle due esperienze. E i quadri non crescono. L’organizzazione di alcune lotte specifiche e alte, di alcune vertenze organizzate nei punti centrali dell’attuale sviluppo capitalistico, nei gangli decisivi e più emblematici degli attuali processi di produzione, sono necessarie come il pane, per superare la staticità di un Partito che spesso altro non fa che “aderire”, con innocui comunicati, a lotte altrui. Un’iniziativa, una lotta ben pensata e preparata anche da mesi in una fabbrica d’avanguardia, dove la robotica sostituisce la presenza operaia, potrebbe avere un effetto politico, simbolico e mediatico ben superiore a quello di campagne nazionali su temi importanti ma non nevralgici, che comunque chiedono per mesi e mesi di spostare su di essi la nostra poca militanza. Vi è stata una campagna nazionale sui ticket della sanità pubblica che è andata affannosamente avanti per più di un anno, senza grandi risultati. Bene: non si può, per questo, colpevolizzare i dirigenti territoriali e i militanti: occorre piuttosto capire se quella campagna così defatigante era così centrale e necessaria. Se essa è stata lanciata a discapito di altre e più pregnanti azioni.
    Vi è un terreno nuovo e decisivo dell’organizzazione del consenso: il terreno delle periferie metropolitane, dove milioni di sottoproletari e proletari disperati vanno preparando un’insurrezione “plebea” che, per il fatto che questi territori sociali sono oggi essenzialmente presidiati dalle forze neofasciste, avrà un esito politico nefasto.
    Su questo punto non solo manca una minima pratica politica, ma anche una prima e profonda riflessione. Più o meno come sulla questione dell’immigrazione, questione per la quale da una parte rischiamo di regalare la problematica reale della sicurezza sociale alla Lega e alle destre, non riuscendo ancora, d’altra parte, a politicizzare la categoria politico-teorica della costruzione di un proletariato “bianco e nero” come nuovo blocco sociale in progress per la trasformazione sociale.
    E assieme ad alcune lotte specifiche e capaci di indicare i vulnus più eclatanti dell’attuale sviluppo capitalistico (sottosalarizzazione di massa, contraddizione crescente tra produzione robotizzata e occupazione, da risolvere attraverso la parola d’ordine “riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario”) decisiva è la politica di formazione-quadri del Partito Comunista, questione che sinora è stata vissuta, sino ai nostri giorni, con grandissima approssimazione ma che deve divenire azione centrale e capillare del Partito. Naturalmente, se si apre una scuola, occorre decidere cosa insegnare. E per un Partito Comunista che ha come obiettivi prioritari la lotta contro l’imperialismo USA, la fuoriuscita dalla NATO, dall’Ue e dall’Euro e la lotta anticapitalistica in Italia, le materie di studio sono già delineate e su queste vanno organizzati i seminari, nell’obiettivo di dare al Partito una spina dorsale di quadri rivoluzionari. Le condizioni terribili in cui oggi siamo ci chiedono una formazione culturale forte, omogenea, diretta a fornire ai militanti la coscienza di che cosa siano oggi l’imperialismo USA, la NATO, l’Ue, il grande capitalismo italiano. Non possiamo permetterci, oggi, una scuola quadri illuminista, laica, dibattimentale, volta a discutere su varie opzioni storiche, politiche, economiche: occorre battere il caos, dotarsi di una scuola comunista, di apprendimento della realtà odierna e della lotta necessaria. Ogni (apparente) laicismo, l’uscita dalla linea del Partito “verso il dibattito”, non sono (tantomeno nella scuola-quadri) lussi che oggi possiamo permetterci. La formazione è anche democrazia, estensione all’intera militanza di quel sapere che ogni gruppo di lavoro specifico del Partito accumula. Ad esempio, il Dipartimento Esteri accumula un sapere straordinario, che va scientemente diffuso al C.C. , ai Regionali, alle Federazioni, ai territori. Partendo anche da una considerazione: spesso i processi di involuzione e socialdemocratizzazione dei Partiti Comunisti (come nel caso della fase finale del PCI storico) iniziano proprio dagli abbandoni delle categorie dell’antimperialismo e dell’internazionalismo. In considerazione di ciò la diffusione nell’intero corpo del Partito del sapere che accumula il Dipartimento Esteri è particolarmente importante. Importante sarebbe, ad esempio, far conoscere a tutto il corpo del Partito le analisi che uno dei più importanti Partiti Comunisti dell’Ue e del mondo (il Partito Comunista Portoghese) sviluppa sull’attuale imperialismo, sulla NATO e sull’Ue. Come importante sarebbe far conoscere all’intero corpo del Partito la densità teorica e politica insita nel progetto delineato dal Partito Comunista Cinese sulla “Cina della Nuova Era”. Sarebbe tutta, e profonda, formazione. Anticorpi pesanti immessi contro i pericoli sempre presenti di involuzioni ideologiche. Chi scrive ha provato a porre tale questione. Non è stato certo sollecitato a concretizzarla.
    Oggi, per le condizioni non certo brillanti in cui versa una parte del senso comune politico e teorico dei dirigenti e dei militanti del Partito, rischia di avanzare uno dei peggiori mali di cui un partito comunista possa soffrire: l’identitarismo, il simbolismo attraverso il quale tutti i problemi politici “si dovrebbero” risolvere: basta la bandiera. L’identità è decisiva, imprescindibile. Ma la bandiera non radica il Partito, non organizza lotte, non costruisce alleanze sociali. L’identitarismo, che è la via del solipsismo, del settarismo, nulla ha a che vedere con l’identità. Solo una coscienza forte dei quadri e dei militanti può far passare la paura di non essere più se stessi, di non essere più comunisti se e quando ci si pone il problema, davvero centrale, di essere unitari, di essere il cardine dell’unità di tutte le forze più avanzate. Poiché così, siamo più comunisti. E l’unità con queste forze non si cerca, come spesso accade, solo nelle fasi elettorali: si persegue tutto l’anno, giorno dopo giorno, ostinatamente, come obiettivo primario, nelle lotte di fronte alle basi NATO e USA, contro l’Unione europea, contro gli attacchi del grande capitale al movimento operaio complessivo. Nelle lotte in difesa dell’ambiente e dei diritti.
    E’del tutto evidente che due, oggi, sono i maggiori terreni di organizzazione del consenso: il terreno sociale e il terreno mediatico. Su entrambi registriamo drammatiche debolezze, che non sono superabili attraverso dei bei documenti, ma solo attraverso un impegno politico e culturale strenuo e di lungo periodo che porti ad avere molta maggiore capacità di quella odierna nel radicarci nei territori e nei luoghi di lavoro e ad utilizzare la Rete (strumento oggi a noi quasi drammaticamente estraneo) per organizzare consensi più vasti.
    La questione femminile, il ruolo delle compagne nel Partito e nella società è ancora “pensato” e trattato come un dente che occorre togliersi. Non come una necessità rivoluzionaria. Mentre tale tema deve assolutamente divenire centrale. Dobbiamo essere sinceri: tanta parte della componente maschile del Partito vive ancora tale questione con supponenza politica e sciatteria culturale. Occorre addensare tale questione della necessaria portata teorica e politica; occorre che la questione del ruolo delle compagne, del loro portato generale e specifico, divenga al più presto tema della formazione e tema centrale della gestione politica del Partito.
    Per ultimo, ma poteva essere il primo, il problema dell’autofinanziamento. L’ordine nuovo delle cose, a noi ferocemente ostile, richiede un salto di qualità politica e intellettuale nuovo e certo non richiesto con tanta drammatica urgenza nei tempi passati, per affrontare tale problematica. Occorre che il Partito non pensi più, liturgicamente, ad un tesoriere. Occorre un “team”, una squadra del più alto valore possibile sul piano culturale e organizzativo, una squadra che sia in grado di studiare ogni possibile forma di finanziamento che si nasconde tra le pieghe delle leggi nazionali e regionali, di studiare la storia dell’autofinanziamento delle esperienze del movimento operaio, politico e sindacale, che sia in grado di studiare le forme dell’autofinanziamento dei partiti comunisti e di sinistra nel mondo per capire cosa sia possibile assumere da quelle esperienze. Esperienze feconde, come quella del PC do Brasil, che attraverso un’azione organizzativa capillare giunge a convincere ogni suo iscritto a versare mensilmente, attraverso la propria banca, sull’Iban del Partito una piccola e costante somma. Perché noi non lo abbiamo mai fatto? Chi di noi non farebbe spostare dal proprio istituto bancario tre euro al mese del proprio salario sull’Iban del Partito?
    Naturalmente, quando le risorse sono davvero poche, esse vanno scientemente ripartite per sostenere le spese politiche dei diversi e migliori quadri che il Partito intende valorizzare. Non investendo solo su pochissimi quadri, su due, su uno soltanto, poiché investire su di una rosa vasta di dirigenti vuol dire ammazzare nella culla ogni culto della personalità, favorendo invece la costruzione di quel Partito di cui abbiamo estremamente bisogno: un Partito democratico al suo interno e ricco di quadri. Il PCI, il nostro Partito, ha molti problemi, ma anche tutte le potenzialità per superarli. Ma occorre che ogni valore che oggi è in “potenza” si trasformi, al più presto, in “atto” politico.

    https://www.ilpartitocomunistaitalia...qlbYVIzt4uP1vM
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

  2. #22
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Ho Chi Minh il Rivoluzionario. Intervista ad Andrea Catone

    Pubblichiamo un’intervista di Massimiliano Romanello, Segreteria Nazionale FGCI, ad Andrea Catone, direttore della rivista MarxVentuno e recentemente curatore, assieme ad Alessia Franco, del libro “Ho Chi Minh, Patriottismo e internazionalismo, Scritti e discorsi 1919-1969”

    MR. Ho Chi Minh è stato un rivoluzionario ed un grande teorico del pensiero comunista, simbolo di un’intera generazione, quella che ha vissuto e combattuto la guerra del Vietnam, e simbolo allo stesso tempo della lotta antimperialista di ogni epoca. Con che parole possiamo riassumere il suo originale contributo nella storia del movimento comunista internazionale?

    AC – Dici bene quando parli di originale contributo al movimento comunista internazionale. Se guardiamo alla storia del XX secolo la figura di Ho Chi Minh si staglia come una delle più limpide e significative. Egli riassume in sé la determinazione incrollabile – con una straordinaria coscienza del fine, una eccezionale forza morale – verso l’obiettivo della liberazione del popolo vietnamita; è stato il simbolo della resistenza e lotta per una causa giusta, il suo esempio ha trascinato verso gli ideali del comunismo un’intera generazione, la “generazione del Vietnam”, di giovani che negli anni 60-70 in Italia e in tutti i paesi dell’Occidente, dagli USA al Regno Unito, videro nella resistenza vietnamita la possibilità di combattere e vincere un nemico strapotente che quotidianamente bombardava dal cielo il territorio del Vietnam con bombe micidiali.

    Questa straordinaria capacità di resistere, combattere e vincere non cade dal cielo, ma è stata forgiata dal partito comunista del Vietnam e dalla persona che maggiormente ne incarnava gli ideali e la politica. Ho Chi Minh e il partito hanno educato il popolo vietnamita, hanno compiuto una straordinaria azione pedagogica di massa, hanno saputo parlare al cuore e alla mente del popolo, lo hanno trasformato – potremmo dire con le parole di Gramsci – da subalterno a egemone. Ho Chi Minh era un capo che sapeva ascoltare e sapeva parlare al popolo. Senza questa straordinaria azione di educazione del popolo, di “costruzione” del popolo, la grandiosa resistenza vietnamita al colonialismo francese e all’imperialismo americano sarebbe impensabile. Il marxismo-leninismo di Ho Chi Minh non è un marxismo dogmatico. Come Mao applica il marxismo-leninismo alle condizioni storico-concrete della Cina, lo “traduce” cioè in caratteri cinesi, così il grande dirigente vietnamita traduce in caratteri vietnamiti l’insegnamento di Marx e Lenin, lo innesta nella storia e nella cultura annamite, trovando la strada autonoma per la liberazione nazionale.

    Se proviamo a tracciare un bilancio storico del movimento comunista nel XX secolo, dobbiamo rilevare nel pensiero e nell’azione politica di Ho Chi Minh un’altra direttrice fondamentale e importantissima, ieri come oggi, per il successo e l’azione dei comunisti: la costante ricerca e lotta per l’unità, sia del suo popolo – con la politica del fronte unito – sia del movimento comunista internazionale. Egli fu in sommo grado teorico e tessitore dell’unità del popolo nella resistenza antimperialista. L’unità, come ribadisce in numerosi interventi, è la forza principale del popolo che grazie ad essa coglierà la vittoria. “La rivoluzione e la resistenza sono state vittoriose grazie alla stretta unità del nostro popolo, al suo grande entusiasmo, alla sua ferma convinzione nel conseguimento della vittoria e all’estrema perseveranza nella lotta”[1]. “L’unità è la nostra forza invincibile. Per poter consolidare il Nord in una solida base per la lotta per la riunificazione del nostro Paese, tutto il nostro popolo dovrebbe essere strettamente e diffusamente unito sulla base dell’alleanza tra i lavoratori e i contadini del Fronte patriottico del Vietnam”[2].

    Egli riesce a costruire l’unità del popolo attraverso il fronte unito. Tanto è determinato e inflessibile nel mantenere dritta la barra della meta da raggiungere, la liberazione dalla dominazione coloniale e semicoloniale, l’indipendenza dell’intero Vietnam unificato, tanto è flessibile nella costruzione di un fronte unito del popolo viet, al punto da sacrificare provvisoriamente per la costruzione dell’unità la stessa presenza formale del partito comunista indocinese, che nel novembre 1945 si scioglie dando indicazione ai suoi membri di dedicarsi all’unità nazionale all’interno del fronte Viet Minh. Ho Chi Minh ha rappresentato la figura più fulgida, il punto di riferimento fermo e netto per l’unità del popolo. È pienamente consapevole che la forza principale per vincere un nemico così grande e potente come è l’imperialismo USA, prima delle armi è l’unità del popolo.

    Le potenze coloniali e imperialiste hanno sempre consapevolmente operato per dividere le popolazioni delle colonie, creando una casta di quisling, manovrando per accentuare le divisioni. Il divide et impera ha caratterizzato il dominio coloniale e l’intervento imperialista. Sin dalle prime esperienze politiche in Francia – la Parigi del primo dopoguerra è stata la fucina in cui si è forgiato il suo pensiero politico – il giovane patriota vietnamita opera per l’unità dei popoli coloniali e per l’unità tra essi e i lavoratori della metropoli. È l’interessantissima esperienza di un foglio di agitazione e propaganda rivolto ai popoli coloniali, “Le Paria”, in cui si denunciano soprusi e angherie, l’ipocrisia dei colonizzatori, si smaschera la loro pretesa civiltà, dall’Indocina al Senegal, dal Marocco all’Algeria, fino a denunciare la segregazione razziale negli USA.

    La straordinaria intuizione di Lenin e del manifesto della III Internazionale di costruire un fronte unito del proletariato delle metropoli con i popoli delle colonie e semicolonie viene messa originalmente in pratica dal lavoro di Ho Chi Minh per mobilitare i popoli delle colonie, per trovare un filo rosso comune contro il comune nemico colonialista, in una lotta per l’indipendenza che sino ad allora era la lotta di ogni singolo popolo. Ho Chi Minh sviluppa la grande lezione di Lenin.

    La pratica politica di Ho Chi Minh è guidata dal faro della costruzione dell’unità. Ciò non significa ignorare le differenze e le divergenze e immaginare un mondo idealizzato privo di contraddizioni. Ma egli cerca di operare salvaguardando il bene prezioso dell’unità, evitando, finché è possibile, rotture traumatiche e definitive, puntando a cogliere gli elementi di unione piuttosto che quelli di divisione. Egli è radicalissimo, fermissimo e inflessibile, e, al contempo, “moderato”. Questa tensione all’unità di Ho Chi Minh rappresenta un esempio e un patrimonio straordinario per il movimento comunista, estremamente attuale per noi, per i comunisti in Italia, che sono oggi frammentati e divisi, sostanzialmente ininfluenti nella storia politica del nostro paese.

    MR – Come uomo politico Ho Chi Minh ha rivolto grande attenzione alla formazione e all’organizzazione dei giovani. In molti suoi scritti c’è un esplicito riferimento alle nuove generazioni di comunisti. Ad oggi, cosa possiamo trarre dal suo insegnamento?

    AC – Come ogni grande rivoluzionario che pensa strategicamente, Ho Chi Minh pensa al futuro, alle giovani generazioni, ha un’idea forte della storia, sa che se si vuole costruire un paese occorre saper trasmettere alle giovani generazioni gli strumenti e la competenza per mantenere e sviluppare le conquiste che esse ereditano dai padri. La formazione comunista e rivoluzionaria delle giovani generazioni è un assillo, un compito non passeggero ma permanente che egli si pone nel corso di tutta la sua vita di rivoluzionario. Parliamo di formazione, non di mero insegnamento di alcune nozioni. Formazione significa forgiare menti e cuori, e per far ciò non basta l’intelletto, occorre una grande forza morale. Di qui l’importanza che Ho Chi Minh attribuisce alla morale rivoluzionaria, cui fa sempre riferimento e cui dedica nel 1958 uno scritto relativamente ampio[3]. Lo studio è fondamentale – e in taluni discorsi egli cita le parole del Lenin di “Meglio meno, ma meglio” (1923): “dobbiamo a ogni costo porci il compito, in primo luogo, di imparare; in secondo luogo, di imparare; in terzo luogo, di imparare, e poi di controllare ciò che si è imparato affinché la scienza non rimanga lettera morta o frase alla moda”. Ma lo studio deve accompagnarsi con la saldezza dei principi, con la bussola dell’azione morale, con la critica pratica dell’individualismo. Nell’ottobre 1968, nella “Lettera in occasione del nuovo anno scolastico”, uno dei suoi ultimi scritti, egli sprona insegnanti e studenti a “rafforzare costantemente il loro amore per la patria e per il socialismo, nutrire sentimenti rivoluzionari verso gli operai e i contadini, mostrare assoluta lealtà per la causa rivoluzionaria […] Sulla base di una buona istruzione politica e ideologica, dovreste provare a elevare i livelli dell’istruzione culturale e tecnica al fine di fornire soluzioni concrete ai problemi posti dalla nostra rivoluzione e, in un futuro non troppo lontano, scalare le alte vette della scienza e della tecnologia […] lavorare congiuntamente per migliorare l’organizzazione e la gestione della vita materiale e spirituale nelle scuole, e per assicurare la salute e una maggiore sicurezza per tutti […] L’educazione è il lavoro delle masse. La democrazia socialista dovrebbe svilupparsi pienamente. Tra i docenti, tra docenti e studenti, tra gli studenti, tra i quadri di vario livello, tra le scuole e la popolazione dovrebbero regnare ottimi rapporti e una stretta unità […] L’educazione è un mezzo per addestrare chi porti avanti la grande causa rivoluzionaria del nostro partito e del nostro popolo”[4].

    MR – Nel Novecento, con la decolonizzazione, il marxismo è stato lo strumento teorico che ha permesso alle classi dirigenti e ai popoli del terzo mondo di intraprendere le loro lotte di liberazione nazionale. Nell’elaborazione fatta da Ho Chi Minh, una peculiare importanza assume lo studio e la definizione di un chiaro nesso tra questione nazionale e internazionalismo. Quali sono gli elementi fondamentali, in una prospettiva marxista, che definiscono questo nesso?

    Ho già accennato all’importanza di Lenin nella formazione politica del giovane Nguyen Ai Quoc, alias Ho Chi Minh. Come egli scrive in un articolo pubblicato nel 1960 dalla “Pravda”, il leninismo fu per lui la scoperta dell’unità della lotta di liberazione dei popoli colonizzati con quella della classe operaia dei paesi capitalistici, delle metropoli. Credo che non si insisterà mai abbastanza sulla straordinaria importanza storica dell’intuizione di Lenin, che amplia lo slogan con cui si conclude il Manifesto di Marx ed Engelsdel 1848: da “Proletari di tutti i paesi unitevi!” in quello di “Proletari e popoli oppressi di tutto il mondo unitevi!”. Alla base di esso vi è l’analisi leniniana dell’imperialismo, il nuovo, superiore stadio del capitalismo, nel quale siamo tuttora. Con la III Internazionale il movimento operaio diviene veramente universale su scala mondiale. Ma nel momento in cui poniamo i popoli oppressi accanto ai proletari, nel momento in cui proponiamo l’alleanza di proletari e popoli, noi riscopriamo in qualche modo una questione nazionale su cui per ragioni storiche, guardando in primo luogo alla costruzione di un movimento operaio internazionale, il Manifesto del 1848 non si soffermava. L’analisi leniniana dell’imperialismo permette di cogliere la necessità dell’unità di proletari e popoli oppressi e di sviluppare le tesi per la liberazione nazionale. Lenin scrive nei primi anni Venti dell’avanzata nella lotta di emancipazione dell’“Oriente” – inteso non solo in senso geografico, ma, contrapposto all’Occidente, assunto come metafora dei Paesi sottoposti all’aggressione imperialista. E insieme con Stalin, autore di un importante saggio sul marxismo e la questione nazionale e coloniale, coglie in pieno la questione della liberazione e indipendenza nazionale. Nella visione leniniana la lotta di liberazione nazionale si configura come una forma di lotta di classe contro le potenze imperialiste, la permanenza delle quali impedisce il passaggio al socialismo. Il principale apporto teorico del leninismo è nell’analisi dell’imperialismo. Sulla base di tale analisi si fonda tanto la strategia della rivoluzione bolscevica che le rivoluzioni nazionali e anticoloniali. La liberazione del proprio paese, il raggiungimento e mantenimento dell’indipendenza nazionale costituiscono il compito principale dei comunisti nei paesi coloniali e semicoloniali.

    Dal Vietnam a Cuba. i comunisti si definiscono orgogliosamente “patrioti”. E in difesa dell’URSS invasa nel 1941 dalle orde naziste Stalin chiamò alla “grande guerra patriottica”. Al contempo – e qui è la differenza radicale rispetto ai nazionalisti o ai “sovranisti” – i comunisti non dimenticano mai di essere l’espressione della classe di riferimento, del proletariato, della classe operaia, degli sfruttati dal capitale. La lotta per l’indipendenza nazionale in quanto lotta antimperialista è lotta di classe anticapitalista: indebolire il fronte imperialista consente l’avanzata delle forze della rivoluzione mondiale. Il patriottismo dei comunisti non può mai essere nazionalismo prevaricatore dei diritti di altri popoli, non può mai essere nazionalismo oppressore e di rapina, non può mai esaltare la propria nazione sopra ogni cosa e sopra tutti. Per questo il patriottismo dei comunisti si lega indissolubilmente con l’internazionalismo proletario, come scrive Ho Chi Minh in alcuni suoi importanti testi. Il fronte internazionale dei popoli e del proletariato si batte per l’indipendenza nazionale dei popoli. Quando questa unità di patriottismo e internazionalismo si è realizzata, il percorso di emancipazione dell’umanità ha fatto grandi passi avanti; quando è venuto meno, c’è stata regressione nell’egoismo nazionale e subalternità del proletariato alla borghesia imperialista. Per questo ritengo che oggi, in mutate condizioni, ma nell’età dell’imperialismo in cui siamo pienamente collocati, i comunisti debbano farsi promotori di un progetto strategico di emancipazione pienamente autonomo – e non subalterno, come si manifesta oggi in taluni casi, a posizioni “sovraniste” – tenendo saldamente la bussola dell’unità inscindibile di patriottismo e internazionalismo proletario.

    https://www.fgci.info/2019/05/19/ho-...andrea-catone/
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  3. #23
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Brevi riflessioni sull’autonomia differenziata

    di Vincenzo Bello – Partito Comunista Italiano e Coordinamento No Autonomia Differenziata.

    Una coltre di silenzio era calata sulla questione dell’autonomia differenziata. Poco si conosce degli accordi e dei documenti che la riguardano. Nelle ultime settimane, complice forse anche la campagna elettorale per le Europee e le prove di forza tra Lega e M5s, la questione dell’autonomia differenziata è tornata nei discorsi politici, fino a diventare, sembra, la questione che potrebbe mettere in crisi il governo.

    I pre-accordi del 28 Febbraio 2018, a camere sciolte e con un governo (Gentiloni) che avrebbe dovuto occuparsi della sola ordinaria amministrazione, hanno rappresentato l’ulteriore tassello e, forse, il più importante verso l’attuazione di un processo iniziato ormai decenni fa con la riforma del Titolo V della Costituzione.

    L’istituto della autonomia differenziata è previsto, infatti, dalla Costituzione, dopo la modifica del titolo V del 2001 (Legge Costituzionale 3/2001) (governo D’Alema – Amato). Ciò che emerge dal disegno di autonomia differenziata è la rottura dell’unità nazionale e di suddivisione dell’Italia in macroaree con capacità di sviluppo e standard di vita differenziati. In coerenza con la visione neoliberista che anima il progetto, si mettono in competitività tra loro queste stesse macroaree e le regioni. Competizione che riguarderebbe innanzitutto l’assegnazione e il trasferimento delle risorse dallo Stato alle regioni. Non a caso si fa largo l’idea che l’autonomia differenziata non sia altro che una vera e propria secessione dei ricchi, ed è un processo capace di influenzare e modificare sia i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani sia il funzionamento di alcuni servizi pubblici, a partire da scuola e sanità.

    I sostenitori dell’autonomia differenziata affermano che un maggiore decentramento porti ad una maggiore vicinanza del governo ai cittadini, che favorisca la responsabilizzazione e il controllo nella spesa e una maggiore e migliore differenziazione delle scelte politiche, capace di innestare una competizione virtuosa tra le Regioni, e che tutto ciò porti, infine, ad una maggiore efficienza del servizio pubblico. La realtà sotto i nostri occhi è ben diversa. Il decentramento favorisce i processi di divergenza economica tra le varie regioni del paese, approfondendo il divario tra regioni.

    Non vanno trascurati gli effetti delle politiche di austerità imposte dai trattati della Unione Europea e vincoli ulteriormente stringenti inseriti nella modifica dell’art. 81 della Costituzione. Si sono notevolmente ridotte le risorse disponibili per gli enti locali.

    Oltre ad approfondire le differenze qualitative tra aree forti e aree deboli, l’autonomia differenziata influisce anche sulle divisioni all’interno dei lavoratori, con la concorrenza feroce tra diversi regimi salariali, normativi , sociali e fiscali.

    In un quadro di oggettivo allontanamento tra Nord e Sud, che la crisi finanziaria del 2007 ha acuito, si inserisce l’autonomia differenziata che prende anche la forma di una costruzione di un polo ben integrato con le aree forti della UE al Nord e ulteriore desertificazione produttiva, disponibilità di forza lavoro anche molto qualificata e a basso costo e massacro sociale e ambientale al Sud. Errato sarebbe però arroccarsi su posizioni particolaristiche che ad un Lega del Nord vorrebbero contrapporre una “Lega del Sud”. Gli effetti negativi dell’autonomia differenziata colpiscono tutte le classi subalterne e lavoratrici dal Nord al Sud e vantaggi ne trae anche la borghesia del Sud. Emblematica è a tal proposito la saldatura tra la Lega di Salvini, la borghesia e i gruppi criminali e affaristici del Sud: è necessario impedire la saldatura tra le regioni forti del Nord e le classi dirigenti del Sud.

    Le due tendenze (quella del Sud come mercato di sbocco per i prodotti delle imprese del Nord e quella della divergenza strategica tra Sud e Nord) convergono su un punto: la forza lavoro, anche altamente specializzata, del Sud, non trovando collocazione sul proprio territorio, dovrà ricollocarsi in modo selettivo in tutto il territorio nazionale (ed europeo).

    Per concludere emerge sempre più che l’autonomia differenziata si integra perfettamente nelle politiche neo-liberiste e imperialiste di rimozione di ogni ostacolo, istituzionale e sociale, al pieno dispiegamento dello sfruttamento. La tendenza, in Italia, alla concentrazione di risorse finanziarie e intellettuali al Nord e nelle aree forti, con ulteriore desertificazione strutturale al Sud, può preludere a una rottura anche formale dell’unità nazionale.

    La differenziazione strutturale tra territori comporta una differenziazione anche nella composizione del lavoro, con una divisione tra lavoratori su base territoriale.

    La lotta di classe (delle classi subalterne) oggi passa anche attraverso un secco No all’autonomia differenziata. Il capitalismo nella sua forma attuale, quella neoliberista, concepisce lo Stato solo come il soggetto che può e deve creare le condizioni favorevoli al mercato. E oggi queste condizioni prevedono il frantumarsi dell’unità territoriale, l’emergere di particolarismi sempre più accentuati che dietro la retorica del federalismo efficiente nascondono l’ennesimo progetto delle classi dominanti di smantellare quel che resta dei principi di eguaglianza e solidarietà. L’autonomia differenziata sarebbe l’atto finale di un processo iniziato decenni fa. Contro questo progetto è necessario mobilitarsi nei luoghi di lavoro e di studio perché nessuno è escluso. Dobbiamo lottare contro ogni rottura formale e sostanziale dell’unità nazionale, contro la divisione tra lavoratori su base regionale, contro la visione neoliberista della scuola, contro l’ulteriore smantellamento della sanità pubblica, rivendicando l’eguaglianza e l’universalità dei diritti sociali sanciti dalla nostra Costituzione.

    https://lottobre.wordpress.com/2019/...differenziata/
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  4. #24
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Relazione conclusiva della giornata sul colonialismo del XXI secolo. “Di armi, acciaio, malattie e debito pubblico”

    di Lamberto Lombardi

    Cari compagni e amiche,

    con questa iniziativa, con i primi studi che abbiamo dovuto affrontare per realizzarla, spero si apra per noi e per tutti una fase di consapevolezza nuova.

    sostieni il partito
    Lo sfruttamento che pensavamo di aver sconfitto negli anni settanta è rientrato dalla finestra e ci sta opprimendo con le sue ingiustizie e i suoi pericoli di guerra.

    Pensare che si potesse risolvere la questione dell’emancipazione del proletariato solo in Europa lasciando inalterati gli strumenti di repressione nelle colonie di oltremare si è rivelata una dolorosa illusione e tutto quello che vediamo attorno a noi ce lo conferma. La fragilità delle nostre conquiste non poteva non pagare gli squilibri di sviluppo legati allo sfruttamento dei popoli che ci circondano.

    Del resto già durante la prima guerra mondiale Lenin notava come quel conflitto in Europa servisse a decidere i destini delle colonie. Oggi sono i destini delle colonie che decidono del nostro futuro, e se anzi esiste una strada tracciata e percorribile essa ci viene indicata da quelle ex colonie che hanno completato il loro percorso di liberazione e consolidata la loro autonomia economica e sociale.

    Ma per affrontare compiutamente il giudizio sul presente, dobbiamo porre mano alla dolorosa sottovalutazione, anche e forse soprattutto da parte nostra, del neo-colonialismo di cui l’Europa stessa continua a beneficiare e la cui esistenza deve contribuire a dare un giudizio corretto sulle sue istituzioni.

    Un vecchio filosofo, Hegel, sosteneva che “il vero è l’intero”. Nel nostro caso vuol dire che se si è colonialisti in Africa non si può essere al tempo stesso democratici e liberali in Europa, e nemmeno si può essere buoni cristiani se dopo aver sostenuto che gli uomini sono tutti uguali non si riconosce la necessità che essi siano liberi dalla schiavitù economica che li rende disuguali, e non si opera di conseguenza.

    Del resto che significato ha, nella pratica, il doppio binario giuridico rappresentato dalla possibilità che alla Corte Penale Internazionale possano essere deferiti capi di Stato come Laurent Gbagbo, presidente della Costa d’Avorio, mentre non esiste nessuna possibilità che i mercenari di stato chiamati contractors possano mai esservi imputati per alcun reato da essi commesso, se non il fatto di riprodurre il medesimo doppio binario del diritto presente tra colonizzatori e colonizzati nelle colonie di un tempo. Il presidente Gbagbo, per la cronaca, dichiarato innocente dopo anni di detenzione è agli arresti domiciliari in Belgio e non può rientrare in patria. Perchè? Sarebbe questo un interrogativo su cui impegnarci politicamente.

    Alcuni avranno capito che il nostro riferimento analitico è il lavoro del grande filosofo contemporaneo Domenico Losurdo.

    Ci convince la sua analisi che i progressi sostanziali compiuti dall’umanità nell’ultimo secolo siano indissolubilmente legati al successo e al consolidamento delle lotte anticoloniali in Russia, Cina, Vietnam, Cuba. Successi che hanno influito in modo concreto e determinante sulla moderna percezione di diritto di cui gli stessi lavoratori ‘occidentali’ hanno usufruito.

    Sappiamo così che fondamentale, anche per i lavoratori italiani, è la lotta per l’indipendenza dei popoli africani, senza la quale la loro indipendenza formale non è solo una menzogna ma una trappola.

    Ecco che ci spalancano davanti una serie di problemi nuovi:

    a) in che modo procedere all’organizzazione dei lavoratori africani in Italia, perchè è fuori di dubbio che la loro popolazione rappresenta oggi una parte sostanziale della classe operaia, parte che non ha parte?

    b) è sempre possibile procedere a rivoluzioni per arrivare all’indipendenza nazionale? Perchè lo strangolamento economico che si produce tramite l’infernale meccanismo del debito, da un lato impoverisce le popolazioni e dall’altro alimenta la forza militare che le opprime vedendo impegnati insieme FMI, BM, Nato e tutta la rete di multinazionali che possono fare la guerra anche per procura come dimostrano i fatti in decine e decine di Paesi africani. E’ un intervento che pochi paesi sono in grado di respingere da soli. Può essere utile lo strumentario teorico di Gramsci? E, anche in questo caso, a che punto sono di preparazione i gruppi dirigenti africani? Potremmo aiutare su questo versante?

    L’mponente intervento economico in atto in Africa da parte della Repubblica Popolare Cinese, paese nato dopo un durissimo percorso anticoloniale, è un intervento coerente con questa sua natura politica o no? Ovvero le relazioni di cooperazione che esso stabilisce con tanti paesi africani sono relazioni che, come tutte le altre nei secoli, aggravano il rapporto di dipendenza economica e politica di questi ultimi o, invece, per come sono strutturati son destinati a indirizzare quelle economie sulla strada dell’autonomia?
    Come ben capiamo siamo solo all’inizio e gli interrogativi che si aprono sono veramente molti, riteniamo importante essere sulla buona strada.

    Brescia 19 maggio 2019

    https://www.ilpartitocomunistaitalia...bito-pubblico/
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  5. #25
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Sangue e Merda

    di Dipartimento Esteri FGCI

    La FGCI incontra spesso ostacoli nella sua attività politica. Tali difficoltà sono infatti inevitabili nella ricostruzione della giovanile comunista italiana, radicata nelle masse giovanili del nostro paese, con forti legami ideali ed internazionalisti. Ci piacerebbe che tali scogli nel nostro percorso fossero all’altezza della “fortuna” machiavelliana, studiata ed analizzata da Gramsci. Invece oggi la FGCI deve difendersi da bieche campagne di chi immagina di metterla in difficoltà: al massimo ci fanno tristezza e di sicuro rafforzano la nostra tempra.

    Il Fronte della Gioventù Comunista ha proposto ed ottenuto l’espulsione della FGCI dalla Federazione Mondiale della Gioventù Democratica (WFDY – World Federation of Democratic Youth). Tale espulsione è stata richiesta ed approvata per mere questioni procedurali, portando logiche correntizie in organizzazioni unitarie ed internazionaliste.

    La Federazione Mondiale della Gioventù Democratica è un’organizzazione che riunisce quasi tutte le giovanili antimperialiste del mondo. Funziona come piattaforma di comunicazione e dialogo tra queste varie giovanili, che non sono tutte esclusivamente comuniste. Una o due volte l’anno la Federazione organizza inoltre eventi in giro per il mondo, per favorire l’incontro tra le giovanili e per rafforzare l’unità del movimento antimperialista giovanile. Si tratta di un’organizzazione pensata per essere inclusiva, aperta a tutti i giovani antimperialisti, senza vincoli ideologici, per creare l’unità più ampia possibile contro l’imperialismo ed il fascismo.

    Fatichiamo dunque a capire perché il Fronte della Gioventù Comunista abbia speso gli ultimi tre anni per espellerci da quella che dovrebbe essere una piattaforma di incontro unitaria, plurale ed inclusiva.

    Il Fronte non ha attaccato le nostre posizioni politiche, che sono inattaccabili e che hanno sempre dimostrato la nostra sincera fede antimperialista. Il Fronte ha invece imbastito una questione formale sul nostro cambio di acronimo tra il 2015 ed il 2016, da “Federazione Giovanile dei Comunisti Italiani” a “Federazione Giovanile Comunista Italiana”. Il Fronte ha infatti sostenuto che il cambio di nome ci togliesse automaticamente lo status di membri, a dispetto della nostra continuità organizzativa. Ironicamente, noi stessi supportammo nel 2015 la domanda d’ammissione del Fronte, che ora ci espelle.

    Tuttavia, ancora più grave è la portata dell’espulsione, che non coinvolge solo la FGCI. Insieme ad essa, altre otto organizzazioni europee sono state espulse con l’accusa, palesemente falsa, d’esser inattive o disciolte: si tratta di piccole organizzazioni che magari non viaggiano all’estero per gli incontri della Federazione, ma invece mantengono viva la fiammella dell’antimperialismo nei propri Paesi. Inoltre, i compagni della Gioventù Comunista Svizzera hanno visto la loro domanda d’ammissione respinta con accuse ignobili ed irripetibili. Una undicesima organizzazione è stata poi espulsa e sostituita con i propri scissionisti, che ne erano fuoriusciti dopo aver perso il congresso.

    Il Fronte della Gioventù Comunista e chi con esso ha introdotto logiche di corrente in un ambiente che ne è sempre stato privo. Dietro pretesti formali il Fronte ed alcune altre organizzazioni hanno iniziato uno scontro contro gli altri membri e contro lo spirito unitario, plurale e non settario della Federazione. Si sono colpite organizzazioni presenti nel loro tessuto sociale, ma senza soldi o senza finanziatori esteri: il Fronte e chi con esso ha colpito quei membri del WFDY più in difficoltà e che invece più avrebbero bisogno di solidarietà internazionale e di internazionalismo proletario.

    Sono state poi violate tutte le procedure interne, non è stata data opportunità di difesa alle undici organizzazioni e si sono sovvertite votazioni. Il Fronte ha sfruttato un certo disinteresse per i fatti europei tra i membri non-europei, che sono la maggioranza. Si è così fatto un processo in contumacia, di cui abbiamo saputo solo per vie traverse: il nostro documento di difesa poi non è stato nemmeno distribuito e la nostra espulsione ci è stata notificata dopo oltre un mese. Non ne avremmo saputo nulla, se alcuni membri della Federazione non avessero protestato davanti a tale prassi correntizia e sleale.

    Non sarà una procedura burocratica ad arrestare il cammino della FGCI, né a cambiarne lo spirito unitario ed inclusivo che è proprio della tradizione comunista del nostro paese (“unità nella diversità”). Serve solo ad indebolire i pochi presìdi antimperialisti ed unitari rimasti nel mondo. Si isolano così le organizzazioni più piccole e le battaglie dei loro militanti, contraddicendo quindi lo spirito internazionalista, e si fa arretrare la lotta dei giovani contro l’imperialismo e per il socialismo in tutto il mondo. Resta l’amarezza nel subire questi attacchi da chi si dichiara comunista, almeno a parole. In ogni caso, la FGCI continuerà lungo il suo cammino e non si lascerà intimorire da piccole operazioni frazionistiche. Valuteremo ora i prossimi passi con tutti gli iscritti e nel dialogo bilaterale con le organizzazioni fraterne.

    https://www.fgci.info/2019/05/27/sangue-e-merda/
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  6. #26
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Il PCI ed il dopo elezioni europee

    L’esito del voto per il rinnovo del Parlamento Europeo è inequivocabile.
    Con esso un numero crescente di elettori ha decretato un pesante arretramento delle forze ricondotte ai gruppi parlamentari popolare, socialista, liberale, ossia dei gruppi largamente responsabili delle politiche che si sono affermate negli anni all’insegna del liberismo, dell’austerità, e quindi della crisi dell’Unione Europea che ne è discesa.
    Con tale voto escono rafforzate le forze politiche che gli osservatori definiscono generalmente sovraniste, un insieme di forze marcatamente di destra, che da tempo hanno mostrato il loro volto e che pongono pesanti interrogativi per il futuro democratico dei Paesi interessati, dell’Europa stessa. Diverse tra esse risultano al primo posto in paesi quali la Francia, il Regno Unito, l’Ungheria, l’Italia.
    Con tale voto si registra anche un pesante arretramento delle forze afferenti al gruppo parlamentare europeo GUE/NGL, la cui proposta politica alternativa, di sinistra, non è stata percepita dall’elettorato come la risposta adeguata alla crisi dell’Unione Europea.
    Le ripercussioni del voto sugli equilibri del Parlamento Europeo sono rilevanti, e nelle prossime settimane si evidenzierà un serrato confronto volto a determinarne di nuovi, a condizionare l’attribuzione dei posti chiave, un confronto che dirà molto anche in relazione al se ed in che misura cambieranno le politiche europee, in particolare quelle economiche.
    Per quanto riguarda il nostro Paese il voto per il rinnovo del Parlamento Europeo, confermando la volubilità dell’elettorato, il venire meno di ogni rendita di posizione, ha determinato profondi cambiamenti nel quadro politico.
    La Lega ha ottenuto oltre il 34% dei voti divenendo il primo partito, seguita dal PD, che pur perdendo oltre 100000 voti rispetto alle ultime elezioni politiche si attesta oltre il 22%, dal M5S, che perde oltre 6 milioni di voti dimezzando il consenso ottenuto nelle medesime elezioni, da Forza Italia, che scende sotto la soglia del 10%, confermando il proprio declino, da Fratelli d’Italia, che con oltre il 6% registra un significativo avanzamento. Queste cinque forze politiche sono le uniche che portano parlamentari in Europa.
    In linea con quanto accaduto in tanti altri contesti europei la sinistra registra un risultato assai negativo, solo in minima parte riconducibile al “richiamo al voto utile” che ha premiato il PD, passando da oltre il 4% delle precedenti elezioni europee, che le avevano consentito di eleggere 3 suoi rappresentanti, all’1,7%. Un risultato negativo, quello ascrivibile al “campo largo della sinistra”, completato dallo 0,8% dei voti andati al PC. Un risultato che non può non interrogare circa la prospettiva di tale schieramento.
    La situazione determinatasi dopo questo voto, in gran parte confermata dall’esito delle elezioni amministrative svoltesi in concomitanza in diverse realtà territoriali del Paese, non potrà non avere ripercussioni sulla stessa tenuta del Governo Conte. Gli equilibri interni allo stesso, infatti, si sono ribaltati a favore della Lega, a discapito del M5S, che conferma la propria parabola discendente. Quello che si profila è uno scenario dal quale non può essere escluso il ricorso, a breve, a nuove elezioni politiche, nelle quali uno schieramento di destracentro può proporsi come favorito.
    Il PCI, che per le note ragioni non ha potuto presentarsi in quanto tale alle elezioni europee, a fronte della situazione data non può che confermare la propria posizione circa l’Unione Europea, sottolineando la necessità di mettere in campo una capacità di analisi, di proposta, d’azione, in grado di contrastare efficacemente le politiche, l’idea stessa di Europa che il grande capitale transnazionale è riuscito ad affermare, le politiche imperanti, e di prospettare un’alternativa possibile, oltre che necessaria.
    Ciò che serve è un’altra Europa, dall’Atlantico agli Urali, un’Europa che ha in una dimensione sociale avanzata, tutelante, la propria ragion d’essere, un’Europa della democrazia, della cooperazione tra stati sovrani con uguali diritti, volta alla pace, alla collaborazione, alla solidarietà con il mondo.
    In relazione alla realtà italiana il PCI non può che ribadire la propria ferma opposizione alle poltiche del governo in carica, che a fronte dell’esito del voto rischiano di caratterizzarsi ancor più come politiche di destra ( emblematiche al riguardo la questione della flat tax, il decreto sicurezza bis), promuovendo articolate iniziative volte a fare conoscere le proprie proposte alternative per un cambiamento sociale e politico dell’Italia fortemente ancorato alla Costituzione Repubblicana.
    In relazione alla situazione data, su tali posizioni, il PCI promuoverà nei prossimi giorni una articolata iniziativa volta alla massima unità possibile con l’insieme delle forze comuniste e della sinistra di alternativa interessate.
    L’unità nella diversità è la risposta da dare alla crisi con la quale le stesse sono chiamate a fare i conti.

    https://www.ilpartitocomunistaitalia...zioni-europee/
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  7. #27
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    La voce di Berlinguer



    Nell’anniversario della morte del compagno Enrico Berlinguer, pubblichiamo un contributo del compagno Giorgio Langella (Direzione nazionale Pci) e, a seguire, un estratto del suo comizio conclusivo al Festival Nazionale dell’Unità di Torino del 1981

    di Giorgio Langella, Direzione nazionale Pci

    Trentacinque anni fa, l’11 giugno 1984, moriva a Padova Enrico Berlinguer. Qualche giorno prima, il 7 giugno, durante il comizio conclusivo della campagna per le elezioni europee, aveva avuto un gravissimo malore. Testardamente, con la passione che lo distingueva, aveva concluso il suo intervento con queste ultime parole: “ … compagni … lavorate tutti … casa per casa. Azienda per azienda, strada per strada, dialogando coi cittadini … con la fiducia … che … per quanto abbiamo fatto … per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo, è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra nazione … ” Come avviene ogni anno molti di quelli che, in tutti questi anni, hanno tradito i suoi ideali politici e morali, si affretterano a ricordarlo per dimostrarsi suoi eredi. Lo faranno quei dirigenti dell’ex PCI (a partire da Napolitano) che lo hanno osteggiato fino alla sua morte dimostrandosi distanti anni luce dal ragionamento e dalle convinzioni di Berlinguer, oggi come allora. Lo faranno esponenti del PD ormai makibconicamente schierato da quella parte che, per valori e principi anche morali (non certo moralistici), non ha nulla a che fare con la storia, l’insegnamento e il comportamento di Enrico Berlinguer.

    Ci sarà molta ipocrisia in queste “celebrazioni”.

    Un’ipocrisia condita da falsità che risulterebbe, proprio a Berlinguer, intollerabile. Tutti si affanneranno ad apparire tristi nel ricordo di un grande uomo che aveva una statura politica e morale assolutamente non comparabile rispetto all’ostentato nanismo degli attuali personaggi che affollano il desolante scenario della politica italiana. Si abbia coscienza che l’adeguamento al “pensiero unico” (sarebbe forse più corretto chiamarlo “pensiero miserabile”) di tutti quei politicanti che invadono da tempo le televisioni, i cosiddetti “social network”, i giornali e li riempiono di pericolosi discorsi pieni di cattiveria, arroganza e simboli religiosi sventagliati durante comizi sempre gridati, di tutti quelli che vogliono limitare spazi di democrazia, di accoglienza, di solidarietà e di giustizia con la loro miserabile necessità di comparire comunque e ovunque, di quelli che ostentano la propensione alla corruzione (i più o meno recenti scandali la dimostrano chiaramente), sono caratteristiche che nulla hanno a che fare con l’onestà e la passione politica di Enrico​Berlinguer. Dopo la morte di Berlinguer hanno trionfato gli “altri”, i suoi nemici, chi lo combatteva più o meno apertamente. Hanno trionfato i malfattori e i truffatori, gli evasori, quelli che occupano le istituzioni, quelli che hanno trasformato i partiti in comitati d’affari, quelli che “fanno politica” come un “mestiere” che serve ad accumulare ricchezze impensabili, quelli che urlano slogan ad effetto per nascondere l’inesistenza di un progetto di trasformazione del modello di sviluppo e della società. Hanno trionfato gli “altri” che hanno divorato qualsiasi cosa rendendo l’Italia ben peggiore di quanto paventava Enrico Berlinguer nella famosa intervista sulla “questione morale”. E, allora, cerchiamo di non prestare attenzione alle vuote celebrazioni di chi tenta di sfruttare il ricordo di Enrico Berlinguer per i propri miseri scopi. Ricordiamolo, invece, con le sue parole, con i suoi scritti, con quello che ci ha insegnato. Forse capiremmo che una Politica onesta è stata possibile nel nostro paese. Una Politica seria e “nobile”.

    La Politica di un grande comunista italiano. Perché questo era Enrico Berlinguer. Diceva Berlinguer: “ Primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità.” ” Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.” “ La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano.” “ Noi restiamo convinti che per rinnovare noi stessi e spingere gli altri a rinnovarsi dobbiamo mantenere ben netti e riaffermare i caratteri che ci contraddistinguono e ci fanno diversi. Bisogna infatti che, in linea di partenza, sia dispersa ogni illusione di una nostra possibile resa o collusione od omertà, presente e futura, verso quei metodi di gestione tra i partiti e tra questi e il governo e le istituzioni e la vita economica e la società, fino alle degenerazioni che stanno corrodendo le fondamenta della nostra repubblica.” “ La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica.” “ Noi comunisti siamo stati e dobbiamo essere i primi assertori di una politica di rigore, di serenità e di severità in ogni campo: nella vita economica e sociale, nella convivenza civile, nello studio e nel lavoro, nell’attività dello stato e dei suoi apparati, nel funzionamento delle istituzioni democratiche e, non dimentichiamolo, nella vita dei partiti. Ma severità e rigore è possibile esigerli e ottenerli soltanto se a loro fondamento e come loro obiettivo stanno il progredire della giustizia sociale e il compiersi di un rinnovamento.” “ La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il PCI non ha rinunciato a perseguire l’obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo, sta proprio in ciò: che​noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini. Nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: che non rinunciamo a costruire una ‘società di liberi ed uguali’, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la ‘produzione delle condizioni della loro vita’. L’obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari.” “ Non mi è accaduto, e questa la considero la più grande fortuna della mia vita, di seguire quella famosa legge per la quale si è rivoluzionari a 18, 20 anni e poi si diventa via via liberali, conservatori e reazionari. Io conservo i miei ideali di allora.” “ Attraverso alcune delle «riforme» di cui si sente oggi parlare si punta a piegare le istituzioni, e perciò anche il parlamento, al calcolo di assicurare una stabilità e una durata a governi che non riescono a garantirsele per capacità e forza politica propria. Ecco la sostanza e la rilevanza politica e istituzionale della «questione morale» che noi comunisti abbiamo posto con tanta decisione. Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi – la mafia, la camorra, la P2 – che hanno inquinato e condizionato tuttora i poteri costituiti e legittimi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della nostra Repubblica. Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.”

    _________________________________________________

    ” Scommetterrei che in questo momento di fronte a questo spettacolo straordinario di folla serena, attenta e appassionata, stiamo pensando quasi tutti la stessa cosa: non si direbbe che il Partito Comunista sia isolato. Cari compagni, ma vi sentite davvero degli isolati? E da chi e da che cosa lo sareste? Non certo dalla classe operaia, dalle grandi masse popolari, dalla gente semplice e onesta; e lo si è visto anche qui durante i quindici giorni del festival nazionale e nelle migliaia di feste dell’Unità che si sono svolte questa estate in tutta Italia. Solo qui a Torino, i compagni hanno calcolato in circa due milioni le persone che hanno visitato il festival. Ci sono poi cose che si vedono a occhio nudo. Anche dalle feste ad esempio. Dopo la prova recente ed esaltante del referendum sull’aborto viene una conferma di una più vasta presenza del nostro partito fra le grandi masse femminili, e i legami sempre più profondi, e di cui tuttavia non ne ignoriamo la complessità, che siamo venuti stabilendo con quei movimenti di emancipazione e liberazione della donna che hanno segnato in modo indelebile la vita italiana di questi ultimi anni.

    So, compagne e compagni, che tanti nostri interlocutori o avversari si inalberano o fingono di adontarsi quando noi insistiamo nel rilevare le diversità del partito comunista. A sentirli sembrerebbe che dovremmo essere noi a chiedere scusa per il fatto che rappresentiamo una parte essenziale delle immense energie sane ed oneste della società italiana del fatto che i nostri dirigenti e militanti non hanno alcuna dimestichezza con gli elenchi della P2 per il fatto che, nel corso della loro storia, i comunisti hanno accumulato un grande patrimonio morale e ideale che non intendono né disperdere né contrapporre al resto del paese e delle forze democratiche. Ma al contrario intendono sempre più porre al servizio di tutto il paese, di tutte le forze disposte a battersi per il suo risanamento e rinnovamento.

    Non siamo dunque né isolati né settari, ma non corrisponde minimamente al vero neppure quell’altra immagine di partito antiquato legato a logori schemi ideologici, incapace di comprendere le modernità del nostro tempo che i nostri avversari tentano con tanto affanno di accreditare. Ma di quale modernità vanno mai parlando? Che cosa c’è di moderno nel loro modo di far politica, nell’arroganza e nelle malversazioni del loro sistema di potere? Negli scandali a ripetizione, negli eterni scontri e nelle dispute bizantine inestricabili di correnti e fazioni? E che cosa, invece, ci può essere di più moderno oggi delle grandi questioni che noi comunisti poniamo al centro della nostra iniziativa e su cui sollecitiamo la tensione e l’intervento consapevole degli uomini, delle donne, dei giovani di ogni tendenza, dei partiti, delle associazioni democratiche e dell’intera opinione pubblica?

    Siamo proprio noi a porre le questioni che sono davvero decisive per l’Italia e per il mondo. Le questioni dalla cui soluzione dipendono la sopravvivenza stessa dell’umanità d’oggi e il futuro dell’Italia. Sono tre, oggi, queste questioni decisive. Prima di tutto, la pace. La difesa della pace da pericoli che sentiamo oggi più vicini e incombenti.

    C’è poi, strettamente connessa, la questione del tipo di sviluppo economico e sociale e vi sono dunque i problemi dell’uso delle risorse, del superamento dell’arretratezza e della fame in tante parti del mondo e della qualità del lavoro e della vita. Da noi e ovunque. E c’è, infine, il problema sempre più acuto del risanamento della società e dello Stato, della soluzione di quella che abbiamo chiamato “la questione morale”. La seconda grande questione è quella messa in luce e che si presenta con crescente acutezza nei paesi che hanno conosciuto e raggiunto il più alto sviluppo industriale. In questi paesi, e lo tocchiamo con mano anche noi ogni giorno di più, da un lato, contrariamente a tutte le previsioni che facevano fino a qualche anno fa gli apologeti del capitalismo, aumenta tendenzialmente l’area della disoccupazione, della inoccupazione e più in generale della emarginazione; dall’altro lato anche negli strati che godono di una condizione di vita non più misera e che sono oggi, grazie a grandi lotte sindacali e politiche, ben più larghi di 30 anni fa visto che l’antica miseria e povertà, caratteristica delle masse popolari italiane, è stata in gran parte debellata; anche in questi strati, che hanno raggiunto un certo benessere materiale, cresce una insoddisfazione di fondo, una frustrazione direi esistenziale.

    Questo ritorno a interrogarsi sull’antico quesito su che cosa siano felicità e infelicità, oggi così diffuso e dibattuto soprattutto fra i giovani, non è forse anch’esso una prova dell’incapacità di queste società sviluppate di dare una risposta adeguata alle più genuine aspirazioni dell’uomo di oggi? La conclusione dovrebbe essere evidente non solo a noi. Il tipo di sviluppo che finora c’è stato non soddisfa le necessità primarie ed elementari di sussistenza fisica, di vita elementare di miliardi di uomini nei paesi del terzo e quarto mondo e di masse crescenti negli stessi paesi industrializzati. Al tempo stesso è un tipo di sviluppo che non appaga le esigenze più profonde, propriamente umane, degli stessi strati che sono usciti dalla miseria e dalla povertà. E qui viene la seconda conseguenza, il problema che più direttamente ci riguarda come forza di rinnovamento e di trasformazione che opera in questa area del mondo, cioè come comunisti italiani, europei, occidentali: uno sviluppo che si fondi essenzialmente sull’acquisizione di un incessante aumento di redditi, di beni, di consumi individuali, da un lato non arriva a coprire le necessità di tutti, dall’altro lato, come abbiamo visto, non appaga, non soddisfa vaste parti della società che pure ne usufruiscono, perché è uno sviluppo che non migliora la qualità della vita. Su un nuovo fulcro va perciò impiantato e costruito uno sviluppo più esteso, più ampio e più rigoroso e al tempo stesso più giusto e più umano. Siamo arrivati infatti al punto in cui le attuali forme e i meccanismi dell’economia, della società e dello Stato scatenano una rincorsa affannata e una competizione sfrenata fra le varie categorie e gruppi sociali, la quale lacera il tessuto unitario del mondo del lavoro e del paese. Noi poniamo, infatti, al centro della nostra azione un obiettivo che va al cuore delle questioni che travagliano la complessiva condizione della società e degli uomini. Un obiettivo che è radicalmente rinnovatore e insieme democratico e unitario.

    Per noi il nuovo valore da affermare, il nuovo fulcro dello sviluppo, il fine verso cui far convergere gli sforzi della società è il miglioramento e arricchimento continuo della qualità della vita. Mi rendo conto per primo che sto esponendo concetti generali ma essi non sono parto di pura fantasia, non sono astrazione, non sono vaghe utopie. Essi muovono da un’analisi che guarda realisticamente ai processi in corso nel mondo intero e cerca di interpretare i bisogni più veri e profondi della gente. Questi concetti derivano inoltre da un giudizio storicamente meditato sul cammino compiuto dal movimento operaio italiano, europeo e mondiale, sulle conquiste che esso ha raggiunto (e che sono grandi), sulle varie esperienze negative che esso ha fatto e sulle difficoltà che esso oggi incontra. Tali concetti, infatti, cercano di cogliere e sviluppare i germi di iniziative, realizzazioni, progetti economici, sociali, culturali che specialmente da alcuni anni in qua si sono venuti sviluppando qui in Italia ed estendendo per opera di regioni, province e soprattutto comuni diretti dai comunisti con altre forze popolari e di sinistra.

    Abbiamo posto al centro della battaglia di questa alternativa democratica la questione morale. Non perché ci piace o perché vogliamo fare i moralisti, come cercano di far credere certi nostri avversari e interlocutori per negare alla radice le ragioni della nostra battaglia. L’abbiamo posta al centro perché pensiamo che i processi degenerativi che si sono andati sviluppando nel nostro paese, si sono sviluppati in modo tale che hanno inquinato lo Stato, le istituzioni, i partiti governativi in modo così profondo e così ramificato che non solo ha dato origine a una serie di scandali sempre più gravi fino alla P2 ma ha prodotto uno stravolgimento di principi e di norme volute dalla Costituzione per regolare le funzioni che rispettivamente competono ai partiti, alle istituzioni, allo Stato generando così una confusione e una decadenza, una inefficienza che stanno toccando ormai il loro culmine. Qui sta il nocciolo della questione morale, la nostra è una battaglia politica che, mentre combatte la corruzione, le spartizioni e le lottizzazioni, gli inauditi sperperi clientelari, la sfrontatezza nell’uso privato di potere e denaro pubblico, mira al ripristino della correttezza e della distinzione dei ruoli fissati dalla Costituzione ai partiti, allo Stato, alle istituzioni. Sarebbe assurdo avere paura che la coerenza su questa linea possa condurci all’isolamento e all’immobilismo. Essa ci conduce certo a polemiche e contrasti con esponenti di altri partiti e con quanti hanno da perdere dal successo di una politica risanatrice, ma essa ci collega, d’altra parte, ai sentimenti di indignazione, alle speranze e al bisogno di pulizia di un numero grandissimo di cittadini di ogni ceto sociale ai quali dovremmo tutti parlare in modo sempre chiaro e veritiero, non allusivo e contraddittorio.

    E sono anche certo che la nostra battaglia per il risanamento dello Stato e della vita politica troverà rispondenza anche negli altri partiti. “

    https://www.ilpartitocomunistaitalia...di-berlinguer/
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  8. #28
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Berlinguer, un comunista italiano

    di Nicolò Monti, Segretario Nazionale FGCI



    35 anni fa moriva Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, il partito comunista più grande dell’occidente.

    Amatissimo dal popolo comunista, rispettato da tutti, avversari compresi. Portò il PCI a risultati elettorali senza precedenti, incutendo un timore vero verso il “pericolo rosso”. 33%, oggi nemmeno con l’Hubble riusciamo a vederlo quel numero.

    Prese decisioni difficili, molte sbagliate e quantomeno discutibili. Non sarei mai stato d’accordo sulla NATO e sullo strappo con Mosca. Non reputo l’Eurocomunismo una via giusta verso il socialismo e credo che non sia riproponibile oggi.

    Il costume e l’etica che la cultura del comunismo italiano mi ha insegnato, mi impedisce di definire Berlinguer come un “onesto ma non comunista”, alla stregua di un grillino qualunque. O di attribuire alla sua politica la causa delle disgrazie e dell’annichilimento dei comunisti in Italia. O di mettere la sua figura nel girone dei traditori, opportunisti e chi più ne ha più ne metta.

    Tra i comunisti, o sedicenti tali, lo scontro su Berlinguer ha raggiunto livelli imbarazzanti. Non è più analisi del passato e dell’uomo contestualizzato, ma tifo, puro e becero tifo.

    Da ammiratore ed estimatore di tutta la Storia del Comunismo Italiano, non potrei mai definirmi Berlingueriano. Ma non mi inserisco in dibattiti di politica minore che hanno il solo scopo di togliersi (pateticamente) dall’ombra gigantesca del PCI, che oscura la propria piccola esistenza di minicomunisti.

    Berlinguer era un comunista italiano.
    Nè PD nè altri potranno mai cancellarne la storia, le gesta e gli errori.
    Lo ricordiamo perchè Berlinguer fa parte di noi, di tutti noi. Perchè la propria identità non la si sceglie come la frutta al banco del supermercato, la si prende tutta e da essa si impara.

    https://www.fgci.info/2019/06/11/ber...ista-italiano/
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  9. #29
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    Appello per l’unità comunista entro un fronte della sinistra di classe

    L’esito delle politiche affermatesi nel nostro paese in questi ultimi decenni all’insegna della cultura liberista, dell’austerità, politiche alle quali si sono assoggettati il centrodestra ed il centrosinistra, è sotto gli occhi di tutti: sempre più poveri, insicuri, soli.

    Le speranze di cambiamento che in tanti, anche nel mondo del lavoro, hanno riposto nei confronti della Lega e del Movimento Cinque Stelle, che hanno portato all’affermazione del governo Conte, nonostante risultino largamente disattese, si traducono oggi in un crescente consenso tributato al partito di Salvini.

    Gli equilibri politici che vanno affermandosi, sempre più orientati a destra, gettano una pesante ipoteca, da tanti punti di vista, sul futuro del nostro Paese, che è e resta profondamente immerso nella propria crisi finanziaria, economica, sociale.

    Una crisi che su tale piano, pur con rilevanti differenze, ha investito anche tanta parte dell’Europa, che nell’ambito della conclamata crisi strutturale del sistema capitalista, nella ridefinizione degli equilibri geopolitici determinatasi a seguito del processo di globalizzazione affermatosi all’insegna della concentrazione del capitale finanziario, paga il prezzo più alto.

    Un Paese, il nostro, che evidenzia anche una profonda crisi etico/morale e, in un evidente rapporto di causa/effetto, una altrettanto profonda crisi politica.

    Le forze comuniste, le forze della sinistra di alternativa, hanno registrato nel tempo, segnatamente in questi ultimi anni, emblematiche le recenti tornate elettorali, il proprio progressivo arretramento, la propria crescente marginalità.

    Se da oltre un decennio le prime sono escluse dal Parlamento, è assai probabile che con le prossime elezioni politiche, per tanti inevitabilmente anticipate data la conflittualità interna al governo, anche le seconde ne siano escluse.

    E’ tempo di ricostruzione, è tempo di unità.

    Come PCI siamo fermamente convinti della necessità di un soggetto capace di tenere assieme la critica agli assetti fondanti del capitalismo, di proporre un’alternativa di sistema, e contemporaneamente di promuovere una opposizione di classe la più ampia ed unitaria possibile.

    Una opposizione che ponendo al centro la questione della pace e del disarmo, dell’uscita dell’Italia dalla NATO, della lotta all’imperialismo ed al neocolonialismo, della rottura con questa Unione Europea, dell’affermazione della Carta Costituzionale, promuovendo un ampio ciclo di lotte volto a cambiare i rapporti di forza, si proponga come alternativa credibile agli occhi del blocco sociale assunto a riferimento, a partire dal mondo del lavoro, determinando in tal modo le condizioni per il superamento della propria crisi.

    Siamo convinti della necessità di una opposizione che abbia quale suo asse centrale l’unità dei comunisti, ritrovata sulla base di una cultura politica affine, e l’insieme della sinistra di classe.

    L’unità dei comunisti entro un fronte della sinistra di classe, politica e sociale, è e resta l’obbiettivo del PCI, che in funzione di ciò lancia un appello a tutte le forze che non si rassegnano alle condizioni date, consapevoli che oggi più che mai è di ciò che c’è bisogno.

    L’unità nella diversità è la risposta.

    La Segreteria nazionale del Partito Comunista Italiano

    https://www.ilpartitocomunistaitalia...tra-di-classe/
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  10. #30
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    Predefinito Re: Partito Comunista Italiano (2016)

    RIVOLUZIONE COMUNISTA, RUOLO IMPERIALISTA E TALEBANI . AFGHANISTAN: ANALISI DI UN LUNGO CONFLITTO



    Pubblichiamo questo saggio che farà parte di un libro in uscita di Fosco Giannini dal titolo “Liberare i popoli!”

    di Fosco Giannini, direzione nazionale PCI

    Il 28 settembre di questo 2019 si sono tenute le elezioni presidenziali in Afghanistan. Il caos attorno a questa tornata elettorale non diverge da quello delle precedenti elezioni, a dimostrazione del totale fallimento della “gestione” USA e NATO dell’Afghanistan dopo l’invasione del 2001, scelta di guerra nordamericana successiva all’attacco alle Torri Gemelle a New York. Nelle elezioni presidenziali dell’agosto 2014, infatti, occorsero circa sei mesi affinché la Commissione Elettorale Indipendente (IEC) assegnasse la vittoria ad Ashraf Ghani, ai danni dell’altro candidato, Abdullah Abdullah. I due si lanciarono a lungo reciproche accuse di scorrettezze, disonestà, frodi elettorali, accuse che bloccarono l’investitura. Alla fine, difronte al fatto che nessuno dei due candidati riconoscesse la vittoria dell’altro, per venirne fuori la IEC, eterodiretta da Washington, decise di dividere il potere tra Ghani, eletto presidente, ed Abdullah Abdullah, eletto primo ministro. A dimostrazione di come tutta l’operazione fosse guidata dagli USA, fu l’allora Segretario di Stato americano John Kerry a dirimere le questioni e ad imporre la mediazione.

    Non meno problematiche risultarono le elezioni presidenziali del 20 agosto 2009, quando Karzai si trovò difronte, come più forte avversario, Abdullah Abdullah, che accusò Karzai – che in prima battuta superò il 50% dei consensi – di brogli elettorali, accuse che la IEC accolse come vere imponendo un ballottaggio tra i due contendenti. Ma Abdullah Abdullah non accettò di partecipare al ballottaggio denunciando un quadro generale di corruzione e di decisioni già assunte da Washington a favore di Karzai che, a suo avviso, non gli potevano permettere di correre democraticamente alla presidenza. E si ritirò.

    Gli stessi problemi si presentarono alle presidenziali del 9 ottobre 2004, quando Karzai batté la concorrenza di altri 22 candidati durante elezioni segnate da forti ambiguità e confusione generale, esiti inevitabili di una “democrazia” imposta militarmente dalle forze di occupazione USA e NATO.

    In queste elezioni del 28 settembre la tragicommedia si ripete: gli sfidanti sono gli stessi del 2014, Ghani e Abdullah Abdullah, appartenenti entrambi, con le loro diversità, alla sfera di potere statunitense. Le prime letture del voto li danno in parità; il 19 ottobre sono attesi i primi risultati non definitivi, il 7 novembre quelli ufficiali. Ma sono prevedibili tempi più lunghi. Anche queste elezioni presidenziali ci dicono del ginepraio afghano, dell’oscura “democrazia” americana costruita nel sangue e del funereo disordine disseminato dagli USA e dalla NATO in Afghanistan. Col tempo, questo Paese, specie per il senso comune occidentale, è divenuto un’incodificabile matassa di eventi. Proviamo a dipanare questa matassa tentando di dare agli eventi una loro conseguenzialità e delle basi materiali.

    Per quest’obiettivo si può partire proprio dalle presidenziali 2019, ancora in corso. In che contesto avvengono? Avvengono, appunto, in un duopolio di poteri, tra Ghani e Abdullah Abdullah che seppure (o proprio perché) sovraordinato direttamente da Washington non è riuscito a proporre un proprio ordine, un proprio progetto politico e sociale; la distanza già profonda tra il governo Ghani- Abdullah Abdullah e il popolo afghano si fa immensa e in questo contesto i talebani, all’opposizione dei governi filoamericani che si sono succeduti dal 2001, cioè dall’invasione USA e NATO, consolidano ancor più il loro potere, politico e militare, sul territorio afghano. Un potere militare talebano che proviene anche dalla fatiscenza dell’“esercito regolare” afghano, il cosiddetto “Afghan National Army”, un’armata di semi mercenari privi di senso della patria e senso morale che senza il supporto continuo e determinante dei marines non sarebbe in nessun modo in grado di combattere e sostenere l’urto talebano. L’ “Afghan National Army” controlla a mala pena, e con i mille quotidiani problemi che l’occupazione militare imperialista e colonialista ha sempre nei confronti della popolazione, i governatorati di Ghowr, Daykondi, Bamian, Samangan e Balkh. A Kabul, considerata naturalmente dagli USA e dalla NATO la sede anche simbolica del potere “portato da Washington” e dunque superprotetta militarmente, la presenza organizzata jihadista permane e si fa notare con attentati continui. Mentre totale è il controllo militare talebano a Ghazni, Kunar, Helmnd, Kunduz, Sar-e Pul e persino, ora, nel territorio dell’ex base NATO di Farah.

    Ma oltre l’insipiente duopolio di poteri al servizio USA le elezioni di questo settembre 2019 sono state caratterizzate dalle trattative di Doha, nel Qatar, tra USA e talebani, trattative che -anche sulla scorta di un’iniziale posizione di Trump espressa nella primavera del 2019 ed evocante “un totale disimpegno militare USA dall’Afghanistan” – sembravano poter sboccare in un concreto armistizio. Sino a fine agosto 2019 la stessa delegazione talebana trattante a Doha parlava di “ultimi dettagli” e “accordo vicino”, con gli USA. In un quadro che, dopo diciotto anni di guerra prodotta dall’invasione USA e NATO, prevedeva il ritiro dell’esercito USA e il ritorno al potere (al governo, in parlamento) dei talebani, con la promessa, da parte loro, di rompere ogni relazione, ogni unità di combattimento, col movimento al-Qaaeda. E seppur in un contesto che non prevedeva un serio smantellamento delle basi militari USA e NATO in Afghanistan (forse una quindicina, tra grandi, piccole e non conosciute), dato decisivo per capire le vere ragioni della presenza USA e NATO in Afghanistan, che non sono certo quelle di “colpire al-Qaaeda dopo l’attentato alle Torri Gemelle”, ma di collocare una poderosa postazione militare ai confini della Russia e anche in grado di minacciare la Cina) era questa trattativa che a fine agosto 2019 la delegazione talebana a Doha, definiva “prossima a concludersi” e che la stessa portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, si era detta pronta a garantire. Una trattativa, va detto, molto interessante anche per l’Italia, che in Afghanistan, tra Herat e Kabul, ha dislocato 800 militari, 145 mezzi terresti e dieci mezzi aerei che potrebbero tutti, uomini e mezzi, col ritiro USA e NATO, tornare a casa.

    Trattativa che tuttavia Trump fa saltare con l’improvvisa dichiarazione del 20 agosto con la quale si afferma che “probabilmente non è ancora venuto il tempo della pace” e che comunque, “gli USA manterranno in Afghanistan almeno 8.600 soldati”. Oltre le basi USA e NATO, naturalmente. E poiché lo stesso Mullah Hibatullah Akhundzada, attuale guida dei talebani, dichiara immediatamente che il mantenimento degli 8.600 soldati USA in Afghanistan fa crollare ogni ipotesi di intesa, la trattativa a Doha si interrompe e si scatenano, subito dopo, decine di nuovi e sanguinosi attentati talebani nelle aeree “protette” dall’ “Afghan National Army” e dai marines, attentati che si aggiungono alle incursioni in atto di al-Qaaeda. Tutto ciò poco prima (e poi durante) le presidenziali di questo settembre.

    Ma perché Trump decide – nei primi giorni di settembre, nel pieno della trattativa di Doha, poco prima delle elezioni e dopo aver annunciato il ritiro completo dell’esercito USA – di dichiarare la permanenza di un contingente militare in Afghanistan, invalidando così l’intera trattativa? È vero che il 19 agosto c’è un attentato, a Kabul, durante un matrimonio, con sessanta morti ed il 3 ed il 5 settembre vi sono altri due attentati, sempre a Kabul, con ventisei morti (tra cui due soldati americani) e 140 feriti (ed è in seguito a ciò che Trump annulla il vertice segreto che doveva tenersi a Camp David e a cui erano invitati sia una delegazione di talebani che il presidente Asraf Ghani). Ma Trump sa anche che questi attentati sono opera dell’ISIS, non dei talebani e che la stessa ISIS compie quelle stragi proprio per far saltare l’incontro di Camp David, la trattativa di Doha e la stessa linea dei talebani ora volta all’accordo.

    Ed è a partire da ciò, da questo differente atteggiamento tra talebani ed ISIS sull’eventuale accordo sul (pur parziale) disimpegno militare USA in Afghanistan che va ridefinita l’attuale linea politica dei talebani. A questo proposito di grande importanza è la rivelatrice intervista che lo scorso 3 ottobre Qadir Hekmat, comandante militare talebano di sette provincie del nord dell’Afghanistan ha rilasciato, significativamente (per far conoscere, cioè, il nuovo profilo politico talebano all’occidente) al quotidiano “la Repubblica”.

    L’intervista inizia con la seguente domanda del giornalista Giampaolo Cadalanu: “Come ha deciso di aderire ai talebani?”. Importante è la risposta: «Vivevo nel Logar con la mia famiglia, studiavo in una madrassa. All’inizio credevamo che gli americani fossero arrivati per ricostruire il Paese e portare sviluppo. E invece ci siamo accorti che massacravano donne e bambini, che entravano nelle nostre case con la forza, che uccidevano i musulmani o li imprigionavano senza motivo. Non è stato un incidente specifico a farmi decidere che volevo oppormi agli invasori. In realtà non c’è un solo villaggio dove non abbiano commesso crimini di guerra o ucciso innocenti».

    Anche la domanda sull’organizzazione della lotta talebana, “Come è organizzata l’attività?”, suscita una risposta di grande interesse al fine della comprensione dell’attuale politica talebana e delle dinamiche in campo in Afghanistan: «C’è una riunione di vertice ogni due mesi, in coordinamento fra due strutture, i talebani legati alla Shura di Quetta e la rete Haqqani. Ogni network porta le risorse che ha disponibili per le operazioni: intelligence sul posto, armi, combattenti. Non ci sono rivalità, gli Haqqani sono più attivi a Nord e a Est, noi a Sud e a Ovest. Ma uniamo le nostre forze contro gli invasori americani e i militanti di Isis-Khorasan».

    Vi è poi una domanda centrale, che di nuovo suscita una risposta interessante: “Che differenza c’è fra voi talebani e i fondamentalisti che giurano fedeltà ad Abubakr Al Baghdadi?” (attuale guida suprema di al-Qaaeda,n.d.r.). «Loro sono wahabiti, seguono l’influenza saudita. Di fatto hanno creato una nuova famiglia eretica, con l’aiuto degli ebrei e degli Stati Uniti, per dividere i musulmani. Ma le differenze sono soprattutto nelle operazioni. Noi non attacchiamo mai obiettivi civili, matrimoni, funerali. Americani e Isis, sì».

    Prosegue Cadalanu: “Parliamo dei vostri nemici, Isis-K e americani. Li mette sullo stesso piano?”. Risposta: «Fanno lo stesso tipo di azioni militari, e collaborano fra loro. Se non fosse per le forze americane, che intervengono ogni volta per bombardarci quando accerchiamo gruppi di Isis-K, questi sarebbero stati spazzati via da tempo. Si vede che gli Usa hanno bisogno di aiuto per i loro piani. Vogliono soltanto impadronirsi delle nostre risorse. Se veramente fossero arrivati esclusivamente per catturare Bin Laden, sarebbero andati in Pakistan. Ma Islamabad è un loro alleato stretto, tanto è vero che non gli hanno mai imposto sanzioni. E quando se ne andranno lasceranno tutte le attrezzature al Pakistan, che pure è la madre di tutti i terrorismi. Mi stupisce che la Nato, Italia compresa, abbiano deciso di seguire gli Stati Uniti in questa operazione sciagurata».

    Sulle trattative a Doha chiede il giornalista de “la Repubblica”: “Come giudica la sospensione dei colloqui di pace a Doha tra voi e gli americani?”. Risposta: «Noi non vogliamo un bagno di sangue ed eravamo pronti a firmare un accordo di pace, ma gli Usa ci hanno ripensato. Per noi non è un problema. Sul terreno stiamo vincendo, avanziamo senza sosta e abbiamo chi ci sostiene, in Iran, in Russia, in Cina, nello stesso Pakistan. Anche per l’ultimo attacco a Qalat, nella provincia di Zabul, con una grande esplosione su uffici governativi, abbiamo usato esplosivo arrivato da fuori».

    Ora, è del tutto evidente che le posizioni talebane emerse da questa intervista, ma in genere da tutta la nuova linea politica talebana che va emergendo, non ci parla certo di un nuovo movimento rivoluzionario di carattere antimperialista e progressista, poiché la strategia sociale talebana non ha caratteri anticapitalisti e di liberazione e forte rimane l’elemento confessionale reazionario che, ad esempio, mantiene la terribile discriminante antifemminile, anche se nell’intervista il comandante talebano -attraverso una davvero orrenda “concessione”- afferma che il burqa non sarebbe più obbligatorio per le donne. Tuttavia emerge, nella linea talebana, un nuovo dato e cioè il carattere nazionale e nazionalista della lotta talebana volto alla cacciata degli invasori USA e NATO; emerge una nuova considerazione della concezione dello Stato islamico, che ora i talebani considerano come un nemico del popolo afghano, essendo sostenuto dagli USA e dall’ebraismo israeliano. E considerando sé stessi dei partigiani nazionalisti, i talebani collocano oggi la loro patria e la libertà dagli USA del loro popolo ben al di sopra della Umma, della comunità internazionale dei musulmani e della Jihad mondiale. Anche se tutto ciò è da verificare, naturalmente.

    Perché, dunque, Trump, consapevole della nuova inclinazione politica dei talebani e del loro positivo atteggiamento verso l’accordo di Doha si muove per chiudere, almeno in questa fase, le trattative?

    Per almeno tre motivi: primo, l’approssimarsi delle nuove elezioni presidenziali USA del novembre 2020, fatto che induce Trump a non mostrarsi cedevole, verso l’elettorato, con i terroristi ( pur sapendo che le azioni terroristiche portate avanti a ridosso delle trattative di Doha sono da attribuire all’ISIS e non ai talebani); secondo, le contraddizioni interne allo stesso establishment americano, caratterizzato sia da una linea volta alla fine dell’impegno militare USA in Afghanistan ( il più lungo della storia americana), linea rappresentata, sia pure in modo altalenante, dallo stesso Trump, che da una linea più dura e volta al permanere della presenza militare in Afghanistan, soprattutto in funzione antirussa e anticinese e rappresentata da John Bolton, estromesso infatti dal negoziato con i talebani ma influentissimo; terzo, il fatto che la ritirata degli USA e della NATO dall’Afghanistan interessa naturalmente e molto anche la Cina ( oltreché la Russia, il Pakistan e l’Iran) ed è questa la fase dell’acutizzazione dello scontro economico, della guerra doganale, con la Cina. Questi sono i punti reali del ripensamento di Trump sulle trattative a Doha e non certo gli attentati dell’ISIS, che peraltro, assieme agli attacchi dei talebani, mai sono cessati dall’invasione USA e NATO del 2001.

    Ma per comprendere ancora meglio la fase afghana successiva all’invasione USA e NATO possiamo ripercorrere, mettere a fuoco, le biografie dei presidenti Kazal e Ghazi e del primo ministro Abdullah Abdullah, sicuramente tra i più importanti uomini politici afghani dal 2001.

    Iniziamo con la biografia di Karzai, che è il primo presidente post-invasione americana.

    Hamid Karzai proviene da una famiglia pashtun, tra le maggiori sostenitrici del re Zahir Shah e parte del potente clan Popalzay, influentissimo nell’intero Afghanistan. Inserito in questa cerchia del potere Karzai inizia molto giovane la propria esperienza politica. Si laurea alla Habibia High Scholl di Kabul nel 1979, arricchisce i propri studi con un corso pst lauream in Scienze Politiche presso l’università indiana Himachal Pradesh per poi tornare in Afghanistan a supportare la lotta militare contro il governo comunista e i sovietici. In questa fase viene contattato dalla CIA, che fiancheggia, sostiene economicamente ed organizza militarmente i mujaheddin e che lo arruola nella guerra antisovietica. Un ruolo nella CIA e nella lotta anticomunista che sarà per Karzai il viatico per una grande carriera politica nel proprio Paese, sempre al servizio degli USA. Dopo la caduta del governo rivoluzionario, d’ispirazione marxista e comunista di Mohammed Najibullah, a Karzai viene dato l’incarico di viceministro degli Esteri nell’Esecutivo di Burhanuddin Rabbani, governo dei mujaheddin che avevano battuto i sovietici con il grandissimo aiuto economico, politico e militare degli USA, della NATO e di tanta parte dell’occidente capitalistico. Negli anni ’90, quando emerge in Afghanistan la forza dei talebani, inizialmente Karzai sostiene questa nuova forza, per poi prenderne le distanze. Quando i talebani entrano a Kabul, nel 1996, e destituiscono il governo Rabbani instaurando il loro potere, Karzai si rifiuta di rappresentare, come ambasciatore afghano, questo nuovo potere all’ONU e si reca in esilio, con la propria famiglia, a Quetta, in Pakistan. Da Quetta Karzai lavora assiduamente al fine di rovesciare il potere talebano per riconsegnarlo al re Zahai Shah. Per questo motivo il padre di Karzai verrà assassinato dai talebani, nel 1999. Nel periodo successivo all’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, Karzai combatte con la Lega militare dell’Alleanza del Nord, filoamericana, unendosi poi all’invasione statunitense dell’Afghanistan. Questa scelta di campo sarà decisiva, per Karzai, per vincere le elezioni presidenziali del 9 ottobre 2004 quando, con il totale appoggio dell’Amministrazione USA di George W. Bush, batte gli altri 22 candidati e diviene il primo presidente afghano eletto. Nelle presidenziali del 2009, come già abbiamo visto, Karzai ha come maggiore avversario politico Abdullah Abdullah, che accusa Karzai di corruzione e manipolazione delle votazioni. Karzai viene di nuovo eletto presidente. Ma nonostante il pieno appoggio che gli deriva dalla presenza USA e dalle basi NATO in Afghanistan, Karzai non riesce mai a divenire il vero presidente del Paese, ma solo “il sindaco di Kabul”, in quanto circa l’80% dei territori rimangono in mano ai talebani. A rafforzare ancor più l’immagine di Karzai quale uomo profondamente corrotto e vero uomo-servo dell’imperialismo, tre fatti: il fratello di Karzai, Ahmed Wali Karzai, era stato assunto dalla CIA per reclutare paramilitari nella lotta contro il governo comunista afghano e ciò gli valse come salvacondotto, da parte della CIA e della NATO, per proseguire tranquillamente il proprio “lavoro” di grande trafficante d’oppio. Hamid Karzai stesso aveva lavorato, prima dell’ascesa politica, come consulente della compagnia petrolifera Unocal, fatto che conferma ancor più il rapporto organico e subordinato di Karzai con l’occidente capitalistico. Per ultimo il giudizio del generale sovietico Igor’ Rodionov su Karzai: “Egli non ha nessun legame col popolo afghano. È solo uno dei grandi capi della mafia afghana”.

    Veniamo ad Abdullah Abdullah: si laurea in medicina all’università di Kabul e nel 1984 si è trasferisce in Pakistan, esercitando presso l’ospedale dei Rifugiati delle famiglie afghane. Partecipa alla lotta contro l’intervento sovietico e contro il governo comunista della Repubblica dell’Afghanistan e diviene il capo del Dipartimento della Salute per il Fronte di resistenza del Panjshir, quel Fronte guidato da Massoud, che negli anni ’80 aveva molto contribuito, con l’aiuto determinante in armi, soldi e sostegno organizzativo degli USA, della NATO e di tanta parte del fronte capitalistico occidentale, a sconfiggere i sovietici e che negli anni ’90, nella lotta contro i governi talebani ( una lotta che contro gli orrori talebani è giusta ma che si colloca sul fronte filo imperialista) concorre alla vittoria americana aprendo la strada alla missione Enduring Freedom, diretta all’invasione dell’Afghanistan e che nel 1992, caduto sotto la spinta dei mujaheddin sostenuti dagli USA il governo talebano, entra come ministro della difesa nel governo pro occidentale di Burhanuddin Rabbani. Abdullah Abdullah, nell’Alleanza del Nord – struttura militare foraggiata dall’occidente – che organizza nel Panjshir la lotta contro i governi talebani degli anni ’90, diviene uno dei più importanti collaboratori del comandante dei mujaheddin Ahmad Shah Massoud e ciò gli varrà come importante salvacondotto per la propria carriera politica, sia nella fase che precede l’invasione statunitense ( nel 1992 è ministro degli Esteri per il governo in esilio della Repubblica islamica anti talebana e filo occidentale) che nella fase successiva all’intervento USA e NATO, quando diviene primo ministro e tra i più autorevoli candidati alla presidenza dell’Afghanistan.

    Meno ricca politicamente, ma altrettanto chiara in relazione all’appartenenza al mondo culturale e ideologico nordamericano e occidentale, è la biografia politico-intellettuale di Ashraf Ghani, attuale presidente, in attesa dell’esito elettorale del 28 settembre, dell’Afghanistan.

    Ghani, di etnia pashtun, si laurea presso l’American University di Beirut nel 1973 e si perfeziona in antropologia nel 1977 alla Columbia University. Sarà un alto funzionario della Banca Mondiale e poi ministro delle Finanze e consigliere-capo di Karzai nel primo governo dopo l’invasione USA-NATO.

    Poiché l’intento di questo scritto è far luce sulla complicata storia afghana degli ultimi decenni, dagli anni ’70 sino ad oggi, ci pare opportuno offrire al lettore una cronologia dei fatti che, a partire dai primi anni ’70, giunga sino ad ora.

    -Dal 1933 sino al 1973 l’Afghanistan è guidato dal re Zahir Shah;

    -a partire dagli anni ’50 il Paese stringe, anche per difendersi dall’Iran e dal Pakistan filo americani, ancor più i rapporti con l’Unione Sovietica, rapporti che erano solidi sin dalla Rivoluzione d’Ottobre;

    -nel 1964 il re approva una nuova Costituzione, di impianto liberale, con libere elezioni e più vasti diritti politici e civili;

    -nel 1973 Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato guidato dal principe Mohammed Daud. L’Afghanistan diviene una repubblica e Daud viene eletto presidente. Le sue sono politiche liberali, segnate da elementi progressisti e democratici. Daud ribadisce il rapporto dell’Afghanistan con l’URSS, pur proponendo per il proprio Paese una prospettiva liberista e capitalista. Forte è il suo impegno per la liberazione della donna;

    -nell’aprile del 1978 scoppia in Afghanistan la “Rivoluzione d’aprile”, d’impianto marxista e comunista e guidata dal Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA). Daud, nell’insurrezione rivoluzionaria, viene ucciso. Alla guida del Paese viene eletto il comunista Mohammad Taraki, con Babrak Karmal vicepremier. Si lanciano immediatamente politiche anticapitaliste, contrarie ai latifondisti, ai poteri reazionari tribali e favorevoli alle aree proletarie e alla più grande massa dei contadini; si punta ad una profonda laicizzazione del Paese e ad una vastissima estensione dei diritti, innanzitutto quelli per le donne. Tuttavia, il grande impianto riformatore si scontra con il senso comune dal carattere conservatore e reazionario di vasti strati della popolazione e ciò favorisce l’organizzazione controrivoluzionaria islamica armata;

    -già nel 1979 le diverse forze dell’organizzazione controrivoluzionaria islamica, grazie ad un immediato quanto vasto appoggio economico, politico e militare dell’occidente capitalistico al quale si aggiunge il poderoso aiuto dell’Iran e del Pakistan, fanno un salto di qualità e si costituiscono nel Fronte Unico di Resistenza, che giunge a controllare l’80% del territorio afghano. Nelle contraddizioni che i successi della controrivoluzione aprono in seno al governo il presidente comunista della Repubblica, Taraki, viene ucciso e il potere passa nelle mani di Amin, sempre del PDPA ma, per le sue posizioni ritenute estremiste, inviso ai sovietici. Tra il 27 ed il 28 dicembre, difronte all’estensione del processo controrivoluzionario sostenuto sia dai paesi imperialisti che dalle potenze regionali reazionarie, l’URSS interviene militarmente in Afghanistan. Amin viene ucciso dai servizi segreti dell’URSS e al suo posto viene chiamato Karmal;

    -nel 1980 il presidente nordamericano Jimmy Carter dichiara che gli USA sono pronti all’intervento militare diretto in Afghanistan e nel frattempo sostengono un poderoso piano di aiuti economici e militari al Pakistan per respingere l’avanzata sovietica;

    -nel 1982, per la prima volta, le forze controrivoluzionarie islamiche attaccano Kabul;

    -nel 1984 è il nuovo presidente, Ronald Reagan, a dichiarare che gli USA invieranno missili Stinger ai controrivoluzionari islamici;

    -nel 1985, mentre Gorbaciov, neopresidente dell’URSS, inizia a pensare al ritiro dell’esercito sovietico in Afghanistan e a proporre agli USA soluzioni pacifiche per il conflitto, Reagan dichiara di inviare al Pakistan, al fine di farli giungere alla controrivoluzione islamica, i missili Sidewinder, che si aggiungono agli Stinger;

    -nel 1986 gli USA dichiarano che il loro sostegno economico alla guerriglia controrivoluzionaria ha raggiunto i 470 milioni di dollari; difronte all’allargamento del sostegno imperialista e reazionario alla guerriglia islamica si acutizzano i problemi all’interno del governo comunista afghano: Babrak Karmal non viene più sostenuto da Gorbaciov e viene sostituito, sia come segretario generale del PDPA che come capo del governo, da Najibullah, che, sulla spinta del nuovo presidente sovietico, lancia in patria una proposta di conciliazione nazionale, letta dagli USA e dalla guerriglia controrivoluzionaria come un primo passo per la resa. Ciò mentre lo stesso Gorbaciov ritira dall’Afghanistan ben sei reggimenti e insiste sul ritiro totale dal terreno afghano, con la contrarietà di una parte del PCUS e dell’Armata Rossa;

    – il 25 maggio del 1988 Gorbaciov annuncia ufficialmente il ritiro di una buona parte dell’Armata Rossa dall’Afghanistan e a luglio Najibullah forma un governo con alcuni ministri non comunisti;

    -il 15 febbraio del 1989 Gorbaciov ordina il ritiro totale dei soldati sovietici, mentre i guerriglieri musulmani, con l’aiuto determinante degli istruttori militari della CIA, della NATO e degli ufficiali pakistani, si organizzano in un esercito regolare, ben armato ed equipaggiato dal sostegno economico USA e di buona parte del fronte occidentale;

    -tra l’aprile e il giugno del 1992, dopo l’autoscioglimento dell’URSS, il movimento controrivoluzionario islamico – al cui interno, nel frattempo, si aprono violente e sanguinose contraddizioni – prende Kabul e costituisce, con la benedizione esplicita degli USA, un governo con a capo Burhannudin Rabbani;

    -nel 1993 le terribili faide interne al movimento controrivoluzionario portano ad una prima guerra tra le truppe fedeli al governo di Rabbani e quelle di Hekmatjar, guerra che produce circa 10 mila morti;

    – nel 1994 si acutizzano ancor più le lotte interne al movimento controrivoluzionario e si indebolisce il governo Rabbani; nel caos prende corpo il nuovo movimento degli “studenti della teologia coranica”, i talebani, che proprio in questo 1994 appaiono per la prima volta in azioni armate;

    -nel 1995, con il massiccio aiuto militare del Pakistan, i talebani crescono a dismisura e iniziano a conquistare vasti territori dell’Afghanistan; il governo controrivoluzionario è in piena crisi e il 20 settembre i talebani inviano a Rabbani un ultimatum perché in cinque giorni lasci Kabul; il 10 ottobre i talebani spostano 400 carri armati da Kandahar verso Kabul;

    -il 20 marzo del 1996 la Shura dei talebani incita il popolo afghano alla guerra santa, la Jihad, contro il governo Rabbani e Mohammad Omar viene proclamato guida spirituale e politica dei talebani;

    – il 26 giugno Hekmatjar entra nel governo Rabbani e ne diventa primo ministro;

    -il 26 settembre i talebani conquistano Kabul. Rabbani ed Hekmatjar fuggono. Omar è nominato capo di un Consiglio provvisorio;

    -il 28 settembre gli USA si dichiarano disponibili a stabilire relazioni con il nuovo governo talebano;

    – nel febbraio del 1997 una delegazione talebana visita gli USA; la politica americana del doppio binario prende corpo e dopo i primi rapporti con i talebani Washington benedice anche la costituzione dell’Alleanza del Nord, l’unità militare anti talebana e filo occidentale costituitasi tra l’ex capo del governo Rabbani ed altre fazioni musulmane già anticomuniste;

    -il 18 agosto del 1998 la guida talebana Omar dichiara che il suo governo darà asilo ad Osama bin-Laden;

    -nel 2000 il governo dei talebani, pur nelle altissime tensioni regionali e internazionali, è consolidato e il 13 luglio l’ex presidente Rabbani denuncia una scarsa attenzione e scarsi aiuti USA e occidentali all’alleanza anti talebana afghana; la doppia linea USA nei confronti del potere talebano continua;

    – il 1° ottobre una delegazione talebana è ricevuta a Washington, al Dipartimento di Stato, mentre il 21 novembre gli USA chiedono all’ONU l’inasprimento delle sanzioni contro il governo afghano, sia per l’ospitalità a Osama bin-Laden che per le politiche ultrareazionarie condotte dal governo Omar.

    Il governo dei talebani, che trasforma l’Afghanistan in un Emirato Islamico, dura dal 1996 sino al 2001, quando viene travolto dall’invasione USA e NATO. I soli Paesi che lo riconoscono sono gli Emirati Arabi, il Pakistan e l’Arabia Saudita.

    I rapporti degli USA con il governo talebano si rileveranno alquanto opachi, ambigui. Come abbiamo visto Washington, nella fase di presa del potere dei talebani, alterna tentativi di costruzione delle relazioni diplomatiche con il movimento di Omar ad aiuti espliciti all’Alleanza del Nord, l’unità delle forze politiche e militari che si era costituita nella lotta contro la Rivoluzione d’aprile. La stessa ambiguità USA si perpetrerà durante il governo Omar. In verità, in quella fase, gli USA non hanno ancora un progetto strategico compiuto verso l’area Afghanistan-Pakistan-Iran-Asia centrale, ma il sostegno, seppur mascherato, al governo talebano proviene essenzialmente dal fatto che il Pakistan e l’Arabia Saudita – colonne filo americane nella regione- sono paesi schierati nettamente con i talebani, e la nuova alleanza tra l’Afghanistan di Omar, il Pakistan e l’Arabia Saudita aumenta fortemente, nell’occhiuto interesse USA, la potenza di fuoco contro l’Iran rivoluzionario di Khomeini e l’intero mondo antiamericano sciita. Tra il 1995 ed il 1997, oltretutto, il sostegno USA ai talebani si rafforza per l’interesse americano al gigantesco progetto petrolifero Unocal che prevede la costruzione di una pipeline tra il Turkmenistan ed il Pakistan che deve passare per l’Afghanistan: un interesse strategico così grande e futuribile da oscurare ogni altra questione posta dai talebani, compresa la violenta e medievale attuazione della Sharia.

    Quando, nel 1995, i talebani conquistano Herat e decidono, come prima misura, di espellere dalle scuole tutte le ragazze, gli USA decidono di tenere a freno ogni critica (che pure si alza dalla società civile ed intellettuale USA) affascinati come sono dal fatto che la conquista di Herat, secondo i servizi segreti pachistani (ISI), può significare un aiuto al progetto Unocal e un colpo contro il petrolio iraniano. Lo stesso accade quando i talebani entrano a Kabul, nel 1996, e la CIA viene convinta dai servizi segreti di Islamabad che con il potere talebano sarà certamente possibile realizzare il progetto petrolifero dell’Unocal. In quella fase i massimi esponenti della politica estera USA convincono la Casa Bianca che con l’Afghanistan talebano si sarebbero ripetute le stesse dinamiche positive che gli USA avevano vissuto con l’Arabia Saudita negli anni ’20. E che, soprattutto, i talebani, alla fine, avrebbero scelto la stessa linea filo americana che avevano già praticato i mujahedin saliti al potere dopo che aver sconfitto il governo comunista, essendo i talebani, per gli esperti di politica internazionale USA di questa fase, solo un’altra, subordinabile, costola del movimento generale islamico afghano.

    La stessa questione legata ad Osama bin-Laden, che Washington vuole sia estradato dall’Afghanistan negli USA (richiesta sempre respinta dal governo Omar) non sembra, nella fase che precede la crescita del movimento talebano, creare ancora troppi problemi a Washington, che non ha ancora saggiato la vendetta che Osama-bin Laden ha in serbo per gli USA.

    Perché, allora, nel 2001 gli USA e la NATO dichiarano guerra al governo talebano ed invadono l’Afghanistan?

    Certo, ci sono le Torri Gemelle e l’impatto devastante che il loro fuoco, l’11 settembre del 2001, ha sul senso comune del popolo nordamericano, che chiede vendetta. Una richiesta di guerra così profonda, così ventrale, così di massa che sembra scaturire da uno stesso, occulto disegno del potere USA.

    In verità, sul piano generale, nel quadro internazionale, le cose sono celermente e inaspettatamente cambiate dalla prima fase della lotta talebana per il potere. Innanzitutto, dopo la caduta dell’URSS (1991) che aveva dato al fronte imperialista l’illusione che la storia fosse finita e fosse giunto il tempo del dominio imperialista totale ed incontrastato, un processo nuovo e inaspettato si mostra agli occhi della Casa Bianca: la crescita improvvisa, che si organizzava attorno allo sviluppo economico titanico della Cina, di un fronte antimperialista in progress che da lì a pochi anni (2009) si sarebbe addirittura costituito nei BRICS ( l’unità tra Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa).

    Rispetto a questo vero e proprio sommovimento tellurico geopolitico torna in auge e diviene linea guida l’analisi già formulata, negli anni successivi alla caduta dell’URSS, del generale USA W.E. Oden, che così rifletteva: “ La scomparsa della minaccia sovietica non ha reso obsoleto il sistema di sicurezza guidato dagli USA e creato per contenerla; l’idea diffusa che la fine della guerra fredda abbia rimosso il bisogno di una leadership degli USA nelle tre aree strategiche ( Europa, Giappone-Corea, Golfo Persico- Asia Centrale) è pericolosamente sbagliata, anzi è divenuta più importante per il collasso dell’URSS. Questo è ancor più vero nel Transcaucaso e nell’Asia Centrale”.

    Questa del generale Oden è un’analisi dirompente che, aggiunta all’esigenza imperialista di contrapporsi al nascente e nuovo fronte antimperialista che sarebbe poi sboccato nei BRICS, spinge gli USA ad una nuova politica di espansione militare globale e specificatamente ad un’espansione della NATO verso l’Asia centrale, ai confini di Russia e Cina.

    La conquista dell’Afghanistan come postazione più avanzata delle basi USA e NATO diviene, agli occhi della nuova dottrina militare della Casa Bianca, elemento decisivo e l’abbattimento del potere talebano, che andava rivelandosi indocile e ben diverso da quello dei precedenti mujahidin sorti dalla lotta anticomunista foraggiata dalle forze imperialiste, obiettivo necessario. D’altra parte, anche il progetto Unicol per il grande oleodotto che doveva attraversare l’Afghanistan, sia come necessità degli USA che come colpo al petrolio iraniano, era stato respinto dal governo talebano. Oltre ciò, a rendere ancor più verosimile l’analisi e la linea di guerra del generale Oden, un significativo e nuovo fenomeno prende corpo: i cinque grandi Paesi del Turkestan occidentale (Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan e Kirghizistan), Paesi ricchi di idrocarburi e materie prime, vivono una fase, dopo l’indipendenza dall’URSS, di confusa transizione economica e politica, che attrae fortemente Washington. Anche per ciò, e non è poco, aumenta l’esigenza USA di collocare in Asia Centrale una nuova e forte presenza militare e l’Afghanistan si presta, agli occhi americani, come base centrale di tale presenza.

    Su questo nuovo quadro, peraltro, s’abbatte anche il cambiamento radicale degli USA verso Osama-bin Laden. La vasta famiglia Bin Laden, notoriamente, aveva vissuto, sin dagli anni ’60, una lunga fase di giganteschi affari in comune, negli USA, con la famiglia Bush, nel campo petrolifero. Affari in comune facilitati dalla stessa CIA, della quale peraltro G.Bush senior, tra i più grandi petrolieri americani, era stato direttore dal 1976. Osama, però, rispetto agli altri membri della sua famiglia, nutre anche ambizioni politiche. Nella guerra USA-mujaheddin contro il governo comunista afghano e contro i sovietici si schiera con gli USA e con il movimento islamico controrivoluzionario, sostenendolo lautamente sul piano economico. Osama diviene uno dei più importanti finanziatori dei mujaheddin e con la completa assistenza degli USA, del Pakistan e dell’Arabia Saudita e attraverso il proprio Maktab al-Khadamat (Mak, Ufficio d’ordine) riesce ad incanalare verso l’Afghanistan denaro, armi e combattenti musulmani da tante parti del mondo.

    Ma tra il ’90 ed il ’91 il cartello finanziario autonomo che Osama bin-Laden aveva, come membro dell’intera famiglia Bin Laden, con la famiglia Bush si rompe e Osama, già attratto politicamente dal nuovo Afghanistan islamizzato, decide di investire sugli interessi petroliferi afghani. La stessa invasione USA del Golfo Persico radicalizza in senso antiamericano le posizioni di Osama bin-Laden, che inizia a concepire la propria vendetta e la propria guerra anti USA. Le operazioni di al-Qaaeda e le sue grandi organizzazioni del terrore si spostano in Afghanistan; i pachistani mettono Osama in contatto con i talebani e con lo tesso Omar. Una pioggia di denaro viene sposto da Osama a favore dei talebani. Nel 1998 Osama fa esplodere le ambasciate americane in Africa e gli USA rispondono bombardando con un diluvio di missili le postazioni di al-Qaaeda in Afghanistan. Questi bombardamenti convincono definitamente il governo talebano a respingere il progetto Unicol volto al passaggio del grande oleodotto in Afghanistan. Per gli USA è il tempo della guerra e l’esplosione delle Torri Gemelle decreta l’avvio di un attacco da tempo progettato. Il 9 ottobre del 2001 è il giorno dell’attacco e dell’invasione USA in Afghanistan e di nuovo l’Alleanza del Nord, costituita dalle forze che avevano combattuto contro il governo comunista, è a fianco degli USA e della NATO.

    In questo quadro generale, che va dai primi anni ’70 ad oggi, è del tutto evidente che le fasi del governo comunista in Afghanistan e dell’intervento sovietico assumono un carattere centrale che va analizzato. Anche alla luce di quell’esperienza comunista che in troppi hanno rimosso, sia, naturalmente, le forze imperialiste e occidentali che diverse forze di sinistra e persino comuniste europee.

    Come già scritto il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), partito marxista e comunista, prende il potere nel 1978 e lo detiene sino al 1992. All’inizio del 1978, ricordiamo, vi è in Afghanistan il governo presieduto da Mohammed Daud Khan, un governo dal carattere democratico -progressista e laico che tuttavia, proprio per la sua incerta natura, scontenta sia l’ala reazionaria e fondamentalista islamica che l’ala rivoluzionaria capeggiata dal PDPA. Il 17 aprile del 1978 viene assassinato un importante dirigente comunista, Mir Akbar Khiber, amatissimo tra la popolazione. Il 27 aprile i comunisti del PDPA si mettono alla testa dei contadini, dei cittadini rivoluzionari e degli alti ufficiali delle forze armate e assaltano, conquistandolo, il palazzo presidenziale di Kabul, proclamando la vittoria della Rivoluzione di Saur (d’aprile) e la costituzione della Repubblica Democratica dell’Afghanistan.

    Il programma messo subito in atto dal governo rivoluzionario è essenzialmente caratterizzato da queste misure: la nazionalizzazione delle banche; una riforma agraria che redistribuisce le terra a 200 mila famiglie contadine; l’abrogazione dell’ “ushur”, la decima parte che i braccianti dovevano ai latifondisti; la proibizione dell’usura, vissuta dalla popolazione come pratica naturaliter; il riconoscimento del diritto di voto alle donne; il divieto, attraverso il cambio della legislazione, dei matrimoni forzati e di interesse; la legalizzazione dei sindacati; la laicizzazione delle tradizionali e spesso brutali leggi tradizionali religiose; la proibizione dei tribunali tribali, da cui provenivano condanne feroci contro le donne e contro ogni diversità sociale e sessuale; l’abolizione della legge tradizionale che imponeva il burqa alle donne e quella che impediva alle bambine di frequentare le scuole, con una conseguente campagna di massa per l’alfabetizzazione, specie femminile; l’abolizione dello scambio economico nei matrimoni combinati; un vasto progetto di edificazione, nelle zone rurali, di scuole e ospedali; una lotta ideologica contro gli aspetti più deleteri della religione islamica che tuttavia non prevede nessuna penalizzazione della stessa religione, una lotta ideologica che tuttavia le gerarchie islamiche, fortemente colpite dalla riforma agraria e dall’abolizione dell’ “ushur”, raccontano invece come persecuzione violenta. E parte proprio da questi centri del potere ecclesiastico l’incitazione al popolo per una guerra santa (la jihad) contro il potere comunista, per gli “uomini senza dio”. Ben presto, attorno alle gerarchie ecclesiastiche si organizzano le forze islamiche controrivoluzionarie che in breve saranno appoggiate, fortemente sostenute, sul piano economico, politico e militare sia dagli USA e dalla NATO che dal Pakistan e da un vasto fronte imperialista mondiale.

    Il 3 luglio del 1979 Jimmy Carter, presidente degli USA, firma la prima deliberazione per l’organizzazione degli aiuti militari ed economici segreti ai mujaheddin afghani, dando compito alla CIA di tessere una rete con tutti i Paesi arabi al fine di sostenere la lotta controrivoluzionaria. La base per la raccolta fondi e per l’addestramento militare di migliaia di islamisti anticomunisti che provenivano sia dall’Afghanistan che da tante altre aree del mondo la offre il Pakistan. Carter da un sostegno politico e ideologico a questo vasto impegno controrivoluzionario mettendo a fuoco quattro punti:

    -scoraggiare i Paesi del Terzo Mondo a cercare vie rivoluzionarie socialiste;

    -cercare per gli USA un nuovo alleato, dopo la perdita dell’Iran rivoluzionario, in una zona geo strategicamente centrale;

    -rimuovere dal senso comune americano e occidentale il peso della sconfitta imperialista in Vietnam;

    -attrarre l’Unione Sovietica nella guerra al fine di aprire profonde contraddizioni al suo interno.

    Al comando della guerriglia anticomunista, gli USA, il Pakistan e l’Arabia Saudita pongono Gulbuddin Hekmatyar, già noto per la crudeltà con cui puniva i comunisti, i sostenitori del governo rivoluzionario e gli “infedeli”, sfigurando con l’acido le donne che non rispettavano, ad avviso dei mujaheddin, i precetti islamici e persino, per creare terrore nelle file comuniste afghane e poi tra i soldati sovietici, lo scuoiamento da vivi e l’amputazione, con tanto di foto divulgate, di dita, orecchie e genitali. Col vasto appoggio militare ed economico del fronte arabo e occidentale coordinato dalla CIA, in breve tempo i mujaheddin diventano un’armata. Gli USA colgono così gli obiettivi che si erano prefissati con la cosiddetta “Operazione Ciclone”, strategicamente e scientemente diretta ad abbattere il governo comunista afghano, a trovare nell’Afghanistan il nuovo Paese di riferimento nella regione, a conquistare i Paesi arabi e a costringere l’Unione Sovietica ad intervenire, nel tentativo di dissanguarla, in un territorio terribilmente difficile come quello afghano, di fronte alla nuova armata islamica messa in piedi da Obama bin-Laden, dai Paesi arabi, dagli USA e dal fronte imperialista mondiale. E’ del tutto evidente che, attraverso l’“Operazione Ciclone”, gli strateghi della CIA e del governo USA puntavano a mettere a valore, prolungandola in un’esperienza terribile come quella afghana, l’esperienza della Guerra Fredda e della corsa al riarmo, che se faceva bene, in termini di profitti e in termini imperialisti (per i mercati mondiali di guerra che si aprivano alle imprese belliche USA) al grande apparato finanziario-militare americano, molto male faceva all’URSS, che era costretta a spostare ingenti ricchezze sugli armamenti piuttosto che sul proprio sviluppo industriale e sociale.

    L’intervento sovietico in Afghanistan ha subito molte letture distorte, molte menzogne e tante condanne, non solo dal mondo imperialista, occidentale e arabo, ma anche da tante forze di sinistra europee, compreso il PCI dell’epoca, mentre gran parte dei partiti comunisti mondiali ed europei hanno compreso le ragioni sovietiche. Tra le accuse all’URSS vi è stata quella di un intervento improvviso e violento in un Paese autonomo, una sorta di occupazione militare, un’invasione.

    In verità i rapporti tra URSS ed Afghanistan avevano già una storia molto lunga, che si era sviluppata molto prima della costituzione del governo comunista a Kabul. Già nel 1919 il governo afghano del re Amanullah Khan fu il primo a riconoscere il governo bolscevico instauratosi a Mosca dopo la Rivoluzione d’Ottobre, ricevendo in cambio, da Lenin, un sostegno decisivo nella lotta afghana di liberazione dal colonialismo britannico; nel 1921 fu siglato un trattato di amicizia tra URSS e Afghanistan che prevedeva anche il reciproco aiuto militare; nel 1953 il primo ministro afghano Daud abbandona definitivamente la tradizionale linea afghana di neutralità internazionale e avvia rapporti più stretti con Mosca, rapporti che si protraggono sino agli anni’70, ben prima della Rivoluzione d’aprile.

    Ricordiamo: il 27 aprile del 1978 i comunisti del PDPA prendono il potere a Kabul ed immediatamente scatta la gigantesca “Operazione Ciclone” internazionale imperialista contro la Rivoluzione. Già nel marzo del 1979 durissima ed estesa su gran parte del territorio nazionale è la controrivoluzione dei mujaheddin alla quale da un grande contributo anche Osam-bin Laden. La controrivoluzione gioca sul malcontento della vasta popolazione islamica, sulla quale i comunisti lanciano una grande riforma laica, e gioca sulle stesse ali dell’esercito afghano che sia Bin Laden che l’“Operazione Ciclone” vanno conquistando, con promesse di grandi prebende future. I militari anticomunisti insorgono a Kabul e la rivolta viene repressa nel sangue, ma entro la metà del 1979, 25 delle 28 province afghane si rivoltano contro il governo. Di fronte al caos diversi esponenti governativi del PDPA sono estromessi dallo loro cariche e un importante dirigente come Karmal viene allontanato dal Paese e inviato come ambasciatore a Praga. In questa fase, 1979, presidente del Consiglio rivoluzionario è Nur Muhammad Taraki, che difronte alle insurrezioni controrivoluzionarie accentua (contrariamente a quanto suggeriva la stessa Unione Sovietica, più propensa a difendere la Rivoluzione attuando le riforme in tempi più lunghi e con più attenzione verso la cultura islamica della popolazione) sia la politica riformatrice che la lotta di repressione contro la reazione islamica. Ma l’ala oltranzista del PDPA giudica addirittura moderata la politica di Taraki e il 16 settembre del 1979 il ministro della Difesa, Hafizzulah Amin, rovescia il governo, uccide Taraki e prende la guida della Rivoluzione. Da questa fase in poi la Rivoluzione accelera ancor più i suoi passaggi riformatori e la lotta contro ogni resistenza islamica, sino al punto da provocare una vastissima opposizione popolare a guida islamica reazionaria, alla cui testa si pone l’intervento imperialista e arabo. Sarà lo stesso KGB sovietico, con Andropov in testa, ad iniziare a sospettare che Amin, nella sua spinta ultra rivoluzionaria e oggettivamente carica di provocazioni antipopolari, possa persino essere un fiancheggiatore della CIA. E sono queste profonde perplessità che frenano l’URSS ad intervenire nel territorio afghano, anche quando Amin, per ben 19 volte, chiede a Breznev l’intervento militare sovietico.

    [...]
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

 

 
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