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    Il Re del Nord
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    Predefinito Re: Rete dei Comunisti - Eurostop

    EUROSTOP: DAI TRE NO ALLA PROPOSTA DELL’AREA ALTERNATIVA EUROMEDITERRANEA

    di Stefano Zai

    Un commento al libro “PIGS, la vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea” di Luciano Vasapollo con Joaquin Arriola e Rita Martufi, presentato domenica a Roma al convegno di Eurostop.

    Il testo attualizza una precedente pubblicazione, “Pigs, il risveglio dei maiali”, che poneva in essere la trattazione dell’unificazione economica e monetaria dei paesi periferici della UE, appunto i “Pigs” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), proponendo una nuova prospettiva, quella della costruzione dell’Area Euromediterranea. L’elaborazione originaria degli autori è stata aggiornata ed integrata con le osservazioni degli attivisti del coordinamento nazionale di Eurostop, venendo così a formare uno scritto che è il prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”.

    Area Euromeditteranea non è forse la definizione più corretta, infatti a ben leggere nel testo si parla di area Euro-Afro-Mediterranea. Una costruzione che non guarda solo al sud dell’Europa e ai paesi “maiali”, come definiti dalla UE perché, “grassi ed ingordi”, non hanno saputo controllare i conti pubblici sperperando danaro (nda: sulla formazione del debito italiano e non solo e la narrazione ipocrita che lo accompagna occorrerebbe una trattazione ad hoc che per motivi evidenti non può essere affrontata in questo breve articolo, si tenga presente che un così alto debito pubblico è il prodotto da un atto politico – volontaristico e consapevole delle conseguenze – che preparava l’Italia all’entrata nell’Euro: ossia la divisione del ministero del Tesoro da Banca d’Italia, nel 1981, producendo la sussunzione dello Stato nella finanza e preparando il terreno del ricatto politico delle riforme in nome della stabilità di bilancio), ma anche ai paesi del nord Africa che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

    “Non da oggi, e non solo tra intellettuali marxisti, è in corso un dibattito sull’opportunità per un’area formata da paesi a struttura economico-sociale simile di realizzare l’”abbandono” o il “distacco” (“delinking”, secondo Samir Amin) da quella che Hosea Jaffe nel 1994 ha chiamato “l’azienda mondo”, identificando con questa un sistema capitalista internazionale fondato su istituzioni e organismi come Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, BCE, WTO ecc.)

    […] L’attenzione che oggi si registra intorno alla nostra proposta di costruire un’area mediterranea dipende proprio dal fatto che si tratta di una proposta politica che si relaziona con l’autodeterminazione di quei popoli che sono direttamente colpiti dal rafforzamento dell’Unione Europea […].

    La proposta dell’ALBA o Area Euro-Afro-Mediterranea (AR.E.A Medit) parte anche dalla considerazione che è pura retorica fuori contesto storico e socio-economico parlare in unità della classe operaia europea. Oggi il proletario italiano, quello portoghese, lo spagnolo, il greco ed anche il tunisino, l’algerino, l’egiziano e il marocchino, hanno interessi e condizioni di vita completamente differenti da quelle del lavoratore tedesco, svedese olandese, belga, britannico, che guadagnano un minimo salariale al mese relativamente molto più alto dei lavoratori dei PIIGS, e possono vantare condizioni di vita estremamente più stabili e di benessere completamente differenti dalle nostre. Inoltre, gli europei mediterranei, come pure quelli dell’est europeo, sono considerati “proletari migranti” e cioè concorrenti che possono danneggiare o minimizzare il loro standard di vita. (nda: chi stesse già partendo con accuse di nazionalismo, si fermi un attimo e continui a leggere l’articolo fino alla fine)

    Come si evince dall’estratto, una proposta contestualizzata a pieno nel quadro storico attuale, che guarda e affonda le mani nelle contraddizioni che ci troviamo di fronte, non rincuorandosi nella retorica politica ormai stantia e non reale legata alla costruzione dell’Unione Europea come luogo dei popoli o teorici recuperi democratici di una struttura di “governance”, quella della UE, che invece sta funzionando per come è stata concepita. Le tesi sostenute non sono campate per aria, ma affondano a pieno nella materialità storica in cui ci troviamo a vivere. Prima fra tutte la necessità della rottura con la “gabbia della UE”, una struttura fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione. I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio; cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con la caduta del ponte Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e di ristorazione.

    Un ruolo definito dall’ortodossia neoliberale del centro nei confronti dei PIGS – attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei secondi nei confronti dei primi – che dalle tesi del libro incomincia ad essere scalzata con una proposta che guarda al “qui ed ora” dello spazio nazionale (unico spazio nel quale le classi lavoratrici, gli sfruttati, ecc., possono influire nei rapporti di forza in essere, come hanno dimostrato il referendum del 4 dicembre 2016 e le ultime elezioni politiche) e che non si tira indietro di fronte alla non veridicità della sincronicità storica che determinati eventi alternativi possano accadere simultaneamente e con le stesse caratteristiche in differenti paesi, determinando per tutti le medesime condizioni. Ma immediatamente e contestualmente rivolto ad una proposta internazionalista, sia nelle relazioni tra le classi di sfruttati degli altri paesi, sia in relazione alle “bordate” finanziarie e monetarie internazionali di cui come singolo paese si sarebbe bersaglio e da cui difficilmente se ne potrebbe uscirebbe vincitori.

    “È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo […]

    La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro […]

    Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori”

    La globalizzazione è ormai finita e ci troviamo in un contesto geopolitico internazionale che ritorna alla “polarizzazione”, nella quale si acuisce lo scontro fra i differenti imperialismi. Ognuno sta giocando la sua partita per accaparrarsi una fetta dell’attuale mondo, posto in cui “il vecchio muore ma il nuovo ancora non può nascere”, ed in tale scontro si va affermando quello tra Stati Uniti e Cina. Scontro imperialistico che non trova più un centro geografico come quello otto-novecentesco, ma che come riportano gli autori si da con le seguenti caratteristiche.

    “Il cambiamento più grande nel XXI secolo è proprio la globalizzazione neoliberista. Che è anche un sottoprodotto del dominio anglosassone, in un contesto in cui la mondializzazione è proprio la globalizzazione del neoliberismo della cultura anglosassone, inalterata dai limiti che strette frontiere nazionali impongono alla circolazione di beni e persone e in cui la cultura e la lingua globale, l’inglese, funzionano come un procedimento per estrarre ricchezza immateriale – conoscenza – dal resto del Pianeta; e la finanziarizzazione e il dominio del dollaro nelle transazioni e nelle riserve internazionali attirano rendite finanziarie a beneficio del centro del dominio globale.

    […] a differenza delle rivalità intercapitalistiche precedenti, ora la disputa non è gestita dalle strette frontiere nazionali dei principali competitori; la disputa ora non è per imporre l’uno o l’altro progetto imperiale con un centro geografico delimitato da confini dentro dei quali si accede alla cittadinanza dell’impero e al di fuori no. Il nuovo scenario ci porta indietro, in un certo qual modo, al concetto di cittadinanza dell’antica Roma: ovunque ci sia un cittadino romano, sia presente l’impero”. Per tale ragione, ora, l’area di influenza della Cina è, prima di tutto ed al di fuori del territorio cinese, la comunità cinese sparsa nel mondo. Questo nuovo scenario, di rivalità comunitarie più che nazionali, è stata ben intesa da una parte della classe politica dei paesi anglosassoni”.

    Da qui, ulteriormente, la necessità di creare un’area “Euro-Afro-Mediterranea”, che sia ben riconoscibile e che punti a contrastare ed invertire le tendenze imperialistiche, nonché scalzare le presenti e nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati, affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel “globalismo borghese”, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.

    Ci troviamo di fronte ad un progetto politico che propone un percorso di costruzione reale, ben piantato nel XXI secolo e soprattutto “affermativo”, perché finalmente ci troviamo di fronte ad una proposta. Sicuramente non esauribile in un solo testo, conscia dei problemi che pone nel progetto, che ha di fronte a sé delle sfide enormi, ma che finalmente propone e che non si fa perimetrare nello spazio politico del campo avversario, limitandosi a dire “No”, ad essere solo “Contro” o “Anti” qualcosa. Questa è l’intuizione fondamentale del libro, ovviamente pariteticamente intrecciata dal rigore scientifico della proposta stessa, analisi e dati. Lo smarcamento, nell’affermazione del progetto, per la definizione di un campo differente da quello del nemico. Il blocco sociale, se lo vogliamo definire così, a cui dobbiamo guardare e che fino ad ora solo elettoralmente ha espresso la propria rabbia per le condizioni di vita in cui si trova a dover galleggiare, ha scaricato definitivamente nel passato le élite neoliberali di centro-destra ma anche ed egualmente quelle euro-riformiste ed eurocentriche della sinistra neoliberale, ma indirettamente ha dato un segnale che non può non essere colto da tutti quei movimenti politici e sociali antagonisti che si adoperano per un cambiamento: “non ci bastano i no, perché con quelli non si mangia, occorrono progetti e proposte”.

    Starà a quelli che si vogliono adoperare per un reale cambiamento mostrargli che ciò che si propone è valevole della loro attenzione perché prende realmente in considerazioni le reali condizioni di vita in cui si trovano e al contempo smontare l’ideologia della paura in cui annegano per dirgli che un percorso alternativo si può fare, non è indolore, certo, ma non è la fine della Storia come ci vogliono raccontare e che fuori dalla gabbia della Ue non c’è il nulla dello spazio siderale. La proposta Euro-Afro-Mediterranea va in questa direzione e lo fa considerando l’aspetto economico-produttivo, quello monetario e quello geopolitico, appunto decostruendo lo spauracchio del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato. Tra le sfide e le innumerevoli difficoltà che si trovano di fronte ad un progetto di questo tipo vi è anche quella ideologico-culturale e non solo economico-strutturale. Occorre anche da questo punto di vista trovare quel denominatore comune che unisca popolazioni che hanno storia e cultura profondamente ed innegabilmente differenti. Sottopelle al testo si percepisce che la risposta sta nel “mare nostrum” e nel prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”, quindi chi scrive è convinto che questo non sia un testo con un “The End” ma che termini con un “Continua…”.

    *Eurostop Parma

    Eurostop: dai tre NO alla proposta dell'area alternativa euromediterranea - EUROSTOP
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

  2. #12
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    Predefinito Re: Rete dei Comunisti - Eurostop

    A PROPOSITO DI ELEZIONI EUROPEE. NÈ ORBAN NÈ MACRON
    di Laurence Lyonnais *


    Abbiamo il piacere di salutare fraternamente i compagni di Podemos, Potere al Popolo, l’Alleanza Rosso-Verde che sono con noi per questo incontro. Siamo molto entusiasti di questa discussione dalla dimensione europea e internazionalista e li ringraziamo calorosamente per aver risposto al nostro invito a nome della nostra corrente Ensemble-Insoumis.

    Né austerità, né autoritarismo

    In questa partita che sembra già giocata tra liberali e nazionalisti, stiamo assistendo a un gioco malsano e perverso tra liberali, ultraliberali e nazionalisti di estrema destra, in una gara al rilancio e un’opposizione di facciata ampiamente sopravvalutata.

    Orban ha deciso di aprire il gioco dichiarando a luglio di non volere “un’Unione europea guidata dalla Francia” e lanciando una petizione sulla questione del bilancio europeo e dell’immigrazione. In agosto ha tenuto una conferenza stampa congiunta con Salvini.

    Macron, da parte sua, ha annunciato un “ritorno europeo della battaglia”, dove intende stabilire una frontiera tra “progressisti e nazionalisti, al centro delle sfide del 2019”. Ma Macron non si è congratulato con Salvini per essersi rifiutato di ospitare l’Aquarius? Ha dimostrato una reale volontà politica e una proposta per un’accoglienza e una distribuzione dignitosa dei migranti all’interno dell’UE, in cui la Francia farebbe la sua parte a pieno titolo? Vorrebbe negare le riforme dell’estrema destra austriaca al potere, che ha appena annunciato la giornata lavorativa di 12 ore?

    La realtà è che il bilancio dell’Unione Europea e delle politiche europee ha prodotto una rottura tra la rappresentanza politica e le classi lavoratrici, e ha incoraggiato tutti i più preoccupanti ripiegamenti identitari. Anche le disuguaglianze, la povertà e la precarietà, la stretta compiacenza verso le lobby e le imprese transnazionali, l’impasse energetica, agricola e climatica, sono tutti punti negativi da imputare a un’Unione Europea che si è ormai dimostrata inefficace nel rispondere ai bisogni, alle sfide e alle emergenze, ma ancor più nei suoi effetti negativi e distruttivi nei confronti delle condizioni di vita dei lavoratori e delle popolazioni.

    E se in alcuni campi le politiche europee sono state in grado di rappresentare un orizzonte progressivo e permettere dei miglioramenti, come in Irlanda, con l’introduzione di un salario minimo, o anche per quanto riguarda le politiche ambientali con Natura2000 e la direttiva quadro sull’acqua, o per quanto riguarda la prospettiva di genere e la parità donna-uomo, questi stessi timidi progressi vengono ora spazzati via dall’aspetto ultra liberale del Patto di stabilità, dalle privatizzazioni e dalla concorrenza libera e non distorta.

    Queste politiche antisociali e di austerità hanno le loro controparti autoritarie e identitarie, a volte guidate dagli stessi governi in Francia, come ad esempio, il dibattito sulla revoca della nazionalità e dell’identità nazionale, che è condotto dalle stesse persone e contemporaneamente alle leggi sul lavoro e sulle pensioni, sotto il mandato quinquennale di François Hollande.

    Assistiamo quindi ad uno scambio di argomenti e di influenze tra l’estrema destra e i liberali, dove entrambi possono essere a loro volta causa e conseguenza e quindi alimentarsi, con la reale possibilità che l’unità tra questi sia raggiunta attraverso risposte autoritarie (come già avviene per quanto riguarda la questione dell’accoglienza dei migranti) o che in questa materia e secondo la nota espressione sia preferibile “l’originale piuttosto che la fotocopia”.

    Non c’è anche il dubbio che l’accentuazione delle politiche liberali di aumento delle disuguaglianze e di smantellamento dei servizi pubblici è accompagnata da un arsenale giuridico-poliziesco volto a contenere le popolazioni (schedatura…) e gli attivisti, un processo chiaramente al lavoro sin da Sarkozy e metodicamente rafforzato, mandato dopo mandato.

    La reazione dei popoli questa sbandierata dicotomia si può osservare sull’erosione dell’argomento del “ricatto elettorale”: ad esempio in Francia, durante i duelli nelle elezioni presidenziali dove nel 2002, il rifiuto del candidato di estrema destra era dell’80% mentre nel 2017 era solo del 60%.

    Ma l’estrema destra ha una sua dinamica e non può ridursi al lato “utile e stupido” del liberalismo, come dimostrano i chiari attacchi ai diritti fondamentali in Ungheria (divieto dello spettacolo Billy Eliot), in Danimarca (congelamento dei beni dei rifugiati)… o le parole di Salvini che descrivono i migranti come “schiavi africani”, dopo aver cancellato i figli di coppie omosessuali dal registro civile.

    Inoltre, la questione dell’accoglienza dei migranti assume una dimensione considerevole tra la maggior parte degli europei perché tocca i fondamenti stessi degli impegni umanitari ed egualitari dei movimenti veramente progressisti. I 15mila morti nel Mediterraneo sono una macchia indelebile per l’intero continente e dobbiamo mantenere il dovere di accoglienza e di parità dei diritti di fronte all’offensiva dell’estrema destra che, contrariamente al discorso di Macron che finge di opporvisi, ispira le politiche di chiusura perseguite dai governi europei, Francia compresa.

    In questo contesto di un rapporto di forza degradato per il movimento sociale, dal crollo dei partiti di sinistra, compresi quelli che facevano riferimento anche a noi, dalle linee ideologiche a volte sfocate, non è così semplice inserirsi per imporre un’altra direzione, ed è per questo che l’iniziativa “Ora il popolo” sembra essere un’ottima notizia.

    “Ora il popolo”, una buona notizia nel contesto europeo

    Dalla primavera 2018 e in prospettiva delle elezioni europee del 2019, è stato confermato il raggruppamento di forze, la maggior parte delle quali sono simili sia nella forma di “movimento” che si sono date che nella sostanza politica di rottura con le politiche dell’Unione Europea al di fuori della tentazione del ripiegamento sovranista.

    Questo è stato formalizzato da una dichiarazione fatta il 12 aprile 2018 a Lisbona [1], una scelta simbolica volta a “lavare l’affronto” della firma del Trattato di Lisbona a livello dell’Unione Europea (2007), che ha approvato lo schiacciamento dei voti referendari di Francia e Irlanda in particolare. Sono quindi le umiliazioni subite dai popoli di fronte alle politiche dell’UE, di cui l’esempio greco e anche spagnolo sono senza dubbio i più evidenti, che sono in linea con l’approccio.

    Estratti dalla dichiarazione di Lisbona “Ora il popolo”:

    « (…..) In questo spirito di insubordinazione di fronte allo stato attuale delle cose, di rivolta democratica, di fiducia nella capacità democratica dei nostri popoli di fronte al progetto morto delle élite di Bruxelles, facciamo oggi a Lisbona un passo avanti. Noi lanciamo un appello ai popoli d’Europa a unirsi nel compito di costruire un movimento politico internazionale, popolare e democratico per organizzare la difesa dei nostri diritti e della sovranità dei nostri popoli di fronte a un ordine vecchio, ingiusto e fallimentare che ci porta direttamente al disastro.

    Coloro che vogliono difendere la democrazia economica, contro i grandi truffatori e l’1% che controlla più ricchezza di tutto il resto del pianeta; la democrazia politica, contro coloro che innalzano le bandiere dell’odio e della xenofobia; la democrazia femminista, contro un sistema che discrimina ogni giorno e in tutti gli ambiti della vita metà della popolazione; la democrazia ecologista, contro un sistema economico insostenibile che minaccia la continuità stessa della vita sul pianeta; la democrazia internazionale e la pace, contro coloro che vogliono costruire ancora una volta l’Europa della guerra; coloro che condividono la difesa dei diritti umani e dei principi fondamentali del benessere troveranno in questo movimento la loro casa. (…) »

    Ad oggi e per il momento, poiché il processo è ancora in fase di allargamento, 6 organizzazioni politiche sono soggetti interessati nel percorso: Podemos (Spagna), Bloco de Esquerda (Portogallo), La France Insoumise, Alleanza Rosso-Verde (Danimarca), Partito della Sinistra (Svezia) e Alleanza di Sinistra (Finlandia). Sono in corso delle discussioni con il giovane movimento italiano Potere Al Popolo, l’irlandese Sinn Féin…

    Sono previste diverse campagne in comune: evasione fiscale, povertà, pace (su proposta di France Insoumise). Si pone ovviamente la questione di rendere visibili queste campagne europee comuni con i compagni di “Ora il popolo”.

    Per aggregare, questo orientamento e questo movimento dovrà riunione una serie di condizioni, a cominciare dai movimenti sociali e dalle formazioni politiche europee che hanno rotto con il social-liberismo e le politiche di austerità e produttivismo. Tuttavia, pesano i rinnegamenti della CES [Confederazione europea dei sindacati, ndt] e la valutazione del fallimento dei Forum sociali europei. Bisogna notare l’assenza di un movimento europeo di solidarietà con il popolo greco. I movimenti sociali si trovano in una situazione di stallo, in una situazione frammentata, sia alla ricerca di nuove modalità organizzative (spontaneità, orizzontalità, luogo delle reti) sia di unificazione delle rivendicazioni sociali e democratiche (in un momento in cui l’elevazione delle conquiste sociali attraverso l’Unione Europea non è più all’ordine del giorno).

    A ciò si aggiunge il movimento per il clima, che sta cercando modalità di organizzazione su scala europea. Ciò solleva per l’ennesima volta la questione delle relazioni tra organizzazioni politiche e movimenti sociali e delle possibili traduzioni di tali relazioni sul terreno elettorale e in materia di mobilitazioni. In Francia, dal 2005 e dalla campagna sul no al TCE [il trattato che istituisce la Comunità europea, ndt], tale arco di forze non esiste più.

    Tra le condizioni da sempre, l’andamento dell’unità di battaglia e mobilitazione contro lo sfruttamento, con ad esempio l’asse scelto da Potere al Popolo, che risponde “prima gli sfruttati” di fronte al “prima gli italiani” di Salvini.

    All’ordine del giorno c’è ancora una volta il dibattito che attraversa molti dei movimenti sopra menzionati, cioè “unire la sinistra” e/o unire le persone, che mette in discussione non solo il registro dei riferimenti storici, ma anche quello delle modalità organizzative (voti elettronici, piattaforme, sorteggi…).

    Infine, naturalmente, per quanto riguarda la critica all’attuale costruzione europea, si pone la prospettiva positiva di una ricostruzione di un’Europa di cooperazione transnazionale basata su assi di trasformazione sociale, democratica ed ecologica, e non su confini geografici in un mercato comune imposto. Anche se alcuni di noi potrebbero avere ancora in mente la prospettiva degli “Stati Uniti socialisti d’Europa”, resta il fatto che questo progetto di trasformazioni e di cooperazioni positive deve ancora essere scritto.

    Alla sovranità nazionale e a quella – subita – di una concorrenza libera e non distorta, questo progetto oppone la cooperazione basata su sovranità scelte: la sovranità democratica, popolare, alimentare, i diritti sociali dei produttori associati, che si riferiscono tutti alle nozioni di diritto e potere sulla nostra vita.

    La portata della crisi e la necessità di tener conto delle dimensioni nazionali

    Se guardiamo all’opinione europea, come riportato dall’Eurobarometro del primo semestre del 2018 [2], possiamo avere la dolce impressione di una unificazione dei punti di vista dei popoli europei. L’Eurobarometro è quindi soddisfatto, un livello record di europei (60%) mostra un’opinione favorevole sull’adesione dei loro paesi all’Unione Europea. Non c’è dubbio che le crisi del debito e le crisi internazionali rafforzano il senso di sicurezza offerto dall’area europea. Il 48% ritiene che il loro voto conta a livello europeo, e un terzo anche che il loro voto può cambiare il corso delle politiche europee (si presume che questo sia lo stesso terzo che conosce la data delle elezioni del 2019…).

    Più rivelatori, anche se preoccupanti, tra i 3 temi prioritari che preoccupano gli europei, vengono: 1) la lotta contro il terrorismo, 2) l’occupazione giovanile, 3) immigrazione. Quest’ordine di preoccupazioni è completamente inverso rispetto all’Eurobarometro del 2014, in cui la lotta contro il terrorismo non faceva che il 7% di preoccupati rispetto al 49% del 2018.

    Infine, e per sorridere un po’, gli analisti dell’Eurobarometro rilevano con perplessità che il 42% degli europei è preoccupato per la crescita economica “mentre gli indicatori economici stanno migliorando”. È qui che i brillanti analisti si chiedono se questo non sia un effetto “barlume delle disuguaglianze percepite a livello nazionale”.

    È qui che sta la tragedia per la bella “macchina europeista”: avere l’impressione di fare tutto bene e non essere ben accolta dai cittadini, perché in effetti l’idea dell’Unione Europea – nel senso “nobile” del termine – è in crisi sotto le conseguenze dei tagli ai fondi delle politiche economiche per favorire liberalizzazione e concorrenza.

    Queste politiche hanno ovviamente avuto effetti differenziati a seconda dei paesi e del loro livello di protezione sociale, o di integrazione nelle dinamiche di crescita capitalistica. Se la rottura è profonda, a livello democratico, sociale, economico ed ecologico, tra gli interessi della tecnocrazia europea e quelli dei popoli, la valutazione può quindi essere ricca di sfumature a seconda dei paesi, soprattutto perché si è osservata una modalità quasi imperialista tra i paesi europei, in particolare durante la crisi greca. Ciò apre logicamente la strada ai ripiegamenti, ai rifiuti e al ritorno alla casa nazionale.

    Poiché le esperienze nazionali non possono essere ridotte l’una all’altra, è quindi importante ripartire dalle esistenze e dalla consapevolezza, a livello territoriale e nazionale, per poter parlare nuovamente di un progetto europeo di emancipazione, avendo cura di non ridurre le esperienze nazionali l’una all’altra e di srotolare il filo degli effetti nazionali delle politiche decise a livello europeo (2 regolamenti nazionali su 3 derivano da norme europee).

    Se diamo uno sguardo all’Unione Europea nel suo insieme, la bella armonia ancora elogiata il 12 settembre scorso da Jean-Claude Juncker nel suo discorso di politica generale – “abbiamo bisogno di un’Europa forte e unita”, come mantra del metodo Coué – appare più come un campo di tensioni, con un quadro fatto di discorsi di uscite, rotture, secessione.

    I giovani a livello globale, ma soprattutto i giovani dei paesi del sud del continente, sono le principali vittime dell’epurazione liberale e dell’austerità. Devono scegliere tra la precarizzazione delle loro condizioni di vita, di studio e di lavoro o l’emigrazione.

    Possiamo quindi vedere una sorta di puzzle, in cui il Portogallo è in grado di limitare la rottura nel quadro dei trattati, ma in una situazione sociale molto deteriorata, segnata dall’esilio dei suoi giovani; in cui l’Italia annuncia un bilancio che non rispetta le regole del Patto di stabilità; in cui un paese ha vissuto un’esperienza di crollo totale e in cui si sta negoziando un fatto completamente inedito, cioè un’esperienza di secessione con la Brexit.

    Inoltre, la crisi politica delle grandi coalizioni e dei partiti sembra totalmente confermata, e colpisce anche la stessa Francia e il cosiddetto “rinnovamento” rappresentato dal movimento “En marche”, baricentro della maggioranza presidenziale, dopo le dimissioni del Ministro dell’Interno Collomb, a conferma della crisi di governo iniziata con quelle di Nicolas Hulot.

    Il Ministro dell’Interno dice di non poter fare nulla per la pubblica sicurezza, il Ministro dell’Ecologia di non poter far nulla di fronte alla crisi climatica, e Macron consiglia ai disoccupati di attraversare la strada per trovare lavoro e ai pensionati di lamentarsi…

    Questa è l’ammissione di un potere politico dimissionario ed espropriato economicamente, in fallimento in termini di legittimità democratica.

    Rispondere a queste dimensioni della crisi implica articolare in un programma radicale i diversi aspetti democratici, sociali ed ecologici.

    Avviare una rivoluzione sociale, ecologica e democratica/cittadina

    Più che un catalogo di rivendicazioni, dobbiamo insistere sul significato, la coerenza e l’articolazione tra le diverse dimensioni dei campi previsti, ma anche sulla spazialità delle alternative.

    Tuttavia, è senza illusioni sulle istituzioni europee, e in particolare sulle gravi carenze democratiche che costituiscono in maniera consustanziale il funzionamento europeo, che noi ci impegniamo a uscire dai trattati liberali dell’Unione Europea, il che implica essere sostenuti a livello popolare e inventare nuove forme di partecipazione/decisione, e questo in ogni fase della campagna, naturalmente, ma anche a seguito di quest’ultima. Questo meccanismo può essere preso in considerazione durante la campagna attraverso strumenti messi in campo in particolare da Podemos, o quelli degli audit cittadini in contrapposizione all’espertocrazia (vedi audit del debito greco).

    Alternative

    Lo stato del movimento sociale e dei movimenti politici ci impone di lavorare per ripristinare il “noi vogliamo” e portarlo al “noi possiamo”, ripartendo dalle condizioni di vita delle persone e dando loro visibilità pubblica. É anche importante incoraggiare e stimolare tutte le iniziative che permettono un’azione congiunta, di solidarietà (vedi l’esempio della scuola a Marsiglia, ridipinta con gli abitanti) anche se appaiono minori. Lo stesso vale per gli esperimenti locali, che riguardino la sovranità alimentare, l’economia circolare e solidale, le esperienze cooperative o di municipalismo ecologico e solidale. É necessario fornire traduzioni visibili di un’auto-organizzazione cittadina egalitaria e democratica.

    Resistenze

    Si tratta anche di denunciare la collusione dei governi nazionali con le istituzioni dell’Unione Europea e di usare la questione europea per sollevare la protesta contro le autorità nazionali, siano esse liberali o di estrema destra. Ciò implica l’organizzazione delle resistenze e delle contestazioni, come ad esempio sulla questione del potere delle lobby, delle imprese e della finanza (indipendenza della Banca Centrale Europea…); resistenze che passano attraverso tutta una serie di azioni, ad iniziare dal “non consenso” e dalla disobbedienza organizzati collettivamente. Ciò risponde anche alle aspirazioni di riconquista democratica nel rifiuto di decisioni tecnocratiche o addirittura autoritarie.

    Spetta a noi stabilire anche il legame tra le resistenze e le controversie esistenti e indirizzarle collettivamente e massicciamente verso un scontro con le classi dirigenti, nella costruzione di un rapporto di forza accettato. Per questo motivo la campagna della France Insoumise / Maintenant le peuple include una dimensione referendaria: “infliggere una sconfitta a Macron” durante le elezioni europee del 2019.

    Protezioni dei beni comuni

    Di fronte alle ansie avvertite dai popoli, che possono portarli al ripiegamento e alla tentazione identitaria, dobbiamo incarnare e proporre un programma di protezione integrale, ovunque e a tutti i livelli.

    Protezione dei giornalisti, protezione dei lavoratori contro il dumping sociale e la direttiva sul distacco dei lavoratori, protezione dell’ambiente e delle condizioni di salute, protezione alimentare per vivere, protezione del clima e della biodiversità, protezione dei servizi pubblici come garanti dell’uguaglianza, progresso, coesione e mezzi di transizione ecologica, creazione di beni comuni nelle città e nei territori (rete di città ribelli, carta delle città d’accoglienza….), protezione ed estensione dell’uguaglianza dei diritti (donne, LGBTQ, ecc), accoglienza e protezione incondizionata dei rifugiati e dei migranti…

    Possiamo quindi promuovere il nostro progetto ecosocialista, che pone al centro del suo scopo d’emancipazione l’articolazione della giustizia sociale e della giustizia ambientale, nella convinzione che ogni transizione ecologica deve essere socialmente giusta per essere sostenibile e che ogni rivoluzione sociale deve essere ecologicamente sostenibile per servire veramente gli sfruttati.

    Siamo naturalmente consapevoli dell’alto livello di confronto necessario per imporre, con il massiccio sostegno popolare, le necessarie rotture con l’ordine europeo stabilito. Ci affidiamo alla federazione delle proteste e delle aspirazioni popolari, all’organizzazione della disobbedienza e alla lenta e impaziente costruzione dei rapporti di forza necessari per raggiungere i nostri obiettivi.

    * Introduzione di Laurence Lyonnais, candidata della lista La France Insoumise alle elezioni europee, al dibattito “Ni Macron, Ni Orban: quelle orientation pour la campagne des Européennes”, all’interno dell’incontro nazionale di Ensemble Insoumis.es del 6 ottobre 2018, al quale hanno preso parte Lorenzo Trapani (Coordinamento Nazionale di Potere al Popolo!) e Andrea Mencarelli (Potere al Popolo! Parigi). Traduzione a cura di Andrea Mencarelli del testo dell’intervento pubblicato su: Ni Orban, ni Macron. A propos de la campagne pour les élections européennes  ? Réflexions et échanges insoumis

    Note:

    [1] Completata il 27 giugno 2018 a Bruxelles. Si vedano i testi delle dichiarazioni: https://lafranceinsoumise.fr/2018/06...euple-selargit

    [2] Eurobaromètre 2018 | L'Europe & Vous | Parlement Européen Bureau de liaison au Luxembourg
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  3. #13
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    Predefinito Re: Rete dei Comunisti - Eurostop

    I comunisti e la questione ecologica. L’elaborazione della RdC

    di Italo Nobile*



    Nell’introdurre il seminario di Andrea Genovese sull’economia circolare è necessario fare un piccolo accenno a come la Rete dei comunisti (o le strutture e le esperienze che poi nella RdC sono confluite) nel corso di questi anni abbia affrontato la questione ecologica. Ovviamente tale ricostruzione è per forza di cose lacunosa perché in più di vent’anni di riflessione e di iniziativa politica molto del materiale è disperso in molti articoli distribuiti in diversi periodici. Tuttavia è possibile ricostruire un atteggiamento complessivo.

    La prima cosa da dire è che la nostra organizzazione ha riconosciuto sempre l’emergenza ambientale ma ha anche evidenziato come la comunicazione deviante che caratterizza quest’ultima fase del capitalismo abbia utilizzato questo allarme per gli interessi materiali che essa serve, per distogliere l’attenzione da altre questioni più scottanti a breve e per alimentare nuove speculazioni in previsione di un aumento del business in questo comparto[1].

    Perciò la battaglia delle idee su tale questione è stata qualificata da un lato dal riportare la contraddizione capitale-natura all’interno del conflitto capitale-lavoro[2] e, d’altro canto, nella critica continua e feroce a tutti i tentativi di far rientrare la politica ecologica all’interno del modo di produzione capitalistico ed in particolare nella critica alla Green-Economy[3] .

    I due momenti sono compementari e tale stretto legame è significativo di un approccio globale e al tempo stesso storico alle questioni, senza nessuna concessione alla nostalgia di una natura che è invece sempre stata mediata socialmente e senza nessuna concessione ad un naturalismo dietro il quale spesso si nasconde una perpetuazione di rapporti di produzione che vanno tolti nel corso del tempo[4].

    Per quanto riguarda il primo aspetto si individua nel modo di produzione capitalistico il sistema sociale la cui dinamica è caratterizzata dalla contraddizione fondamentale che è quella tra la tendenza allo sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale e lo scopo limitato e ristretto della valorizzazione del capitale. Il primo termine della contraddizione ha implicato ed implica una possibilità di emancipazione, storicamente realizzata, della specie umana dai condizionamenti della natura e del lavoro inteso come pura sussistenza, anche se non compiutamente ed irreversibilmente acquisite, e di realizzare nuove potenzialità umane in una gamma di scopi sempre più ampia. Il secondo termine della contraddizione invece segna questa fase della storia dell’umanità in quanto piega quelle potenzialità allo scopo limitato della valorizzazione del capitale, ovvero ad un elemento che tende a riprodursi illimitatamente ma che entra in contraddizione con la complessità del mondo reale che non sarebbe riducibile (senza un costo altissimo) alla mera riproduzione allargata del valore di scambio[5]. L’affermazione globale della produzione capitalistica supera e subordina tutte le altre forme precedenti di produzione e generalizza la forma di merce fino a penetrare nella vita stessa, producendo rapporti sociali, politici e culturali e innescando la contraddizione con un ambiente pervaso e violentato proprio dal funzionamento di questo sistema che tutto subordina. Ovviamente il carattere contraddittorio di tale funzionamento non si è manifestato sempre. Anzi, storicamente ha prevalso il carattere emancipatorio del capitalismo e solo in alcune fasi ed in alcune dimensioni la sua contraddittorietà appare in modo palese (evidenziata dal prevalere del’esigenza di valorizzazione del capitale).. La questione ambientale spesso in forme drammatiche è uno dei momenti che non sembra si possa semplicemente rimuovere con ulteriori fasi di crescita perché queste ultime a loro volta potrebbero accentuare la crisi ambientale. Appare evidente una crisi di autoregolamentazione del sistema in cui si mostrano sempre più impotenti le istanze politiche e viene minata la credibilità stessa delle leggi del mercato[6].

    D’altra parte la questione ambientale complessivamente intesa produce, proprio per queste ragioni, delle vertenze concrete in molte aree del mondo. Queste vertenze sono diverse a seconda dei diversi modelli di accumulazione e dei diversi livelli di sviluppo. Perciò un conto sono le mobilitazioni sociali che avvengono nei paesi occidentali che stanno al vertice della piramide imperialistica, mentre altra cosa sono le forme di lotta che si producono nei paesi della periferia[7]. Qui in Occidente quello che possiamo chiamare “il fronte del rifiuto” denota quella pluralità di comportamenti spesso contraddittori che spesso non si manifestano attraverso la classica forma vertenziale/sindacale ma con una modalità di partecipazione attiva del tutto inedita. A questo proposito va detto che in questo Fronte del Rifiuto i militanti della Rete dei Comunisti hanno spesso partecipato ed hanno affinato i loro metodi di lotta e di analisi. E l’esperienza di Potere al Popolo conferma che le vertenze territoriali sono spesso legate a questioni ambientali (basti pensare alla Tav in Piemonte[8] e alla resistenza al biocidio in Campania). Al tempo stesso il problema delle fonti e quello dei pozzi rende necessario un approccio sistemico e un’istanza di pianificazione dell’economia. Come vedremo l’economia circolare è un’ipotesi che si fa carico proprio di queste istanze.

    A tal proposito, il centro Cestes-Proteo, fortemente legato alla Rete dei Comunisti, ha sviluppato con anticipo tutta una serie di questioni specifiche di attuazione di questi temi. Da un lato ha sviluppato, con il compianto Domenico Vasapollo, il tema dell’educazione ambientale, intesa come critica allo sviluppismo capitalistico e come promozione dello sviluppo sostenibile, alla luce del fatto che essa va concepita come processo trasversale di crescita collettiva[9]. All’interno di questo percorso la cosa che è stata giustamente sottolineata è stata quella che tale crescita ha come presupposto non la colpevolizzazione dell’individuo che spesso è la vittima di un sistema sociale ingiusto che produce la questione ambientale, ma la rivoluzione degli individui associati (dei proletari) e la loro responsabilizzazione nella misura in cui sono autori del destino collettivo loro e dell’intero ecosistema.

    A tal proposito, nella stesso articolo, Domenico Vasapollo evidenziava come questa educazione ambientale (e la connessa critica al capitalismo) nei paesi dell’Alba Latino-Americana fosse già un principio esplicito ed operante (soprattutto in Bolivia e Venezuela). Un principio legato anche al protagonismo delle culture indigene di quelle nazioni, culture indigene che per esperienza storica vedevano nello scambio armonico tra collettivo umano e ambiente il presupposto della sopravvivenza degli individui e delle comunità[10].

    Questo percorso ha l’esito suo più specifico e concreto nell’idea della compatibilità economica e sociale dell’attività produttiva[11]. Vasapollo e Martufi sviluppano questo tema evidenziando come l’economia e la politica economica dei paesi capitalistici non tiene conto di questa compatibilità e come sia necessario collegare ad essa (come si fa nell’Alba latino-americana) la compatibilità sociale riconsiderando le scelte di politica economica in direzione di un’equa distribuzione della ricchezza prodotta ed in una gestione sociale della produzione stessa che è il presupposto necessario per introdurre seriamente la compatibilità ambientale. La cultura sociale ed economica di mercato non è conciliabile con la questione ambientale e non può creare lavori socialmente utili di tipo non mercantile anche perché negli ultimi trent’anni ha innescato un processo di privatizzazione dei servizi pubblici. A questo proposito perché si possa controllare il rapporto tra i processi produttivi e l’ambiente, come gli indicatori di gestione sono necessari per ottenere informazioni sullo stato di salute dell’impresa dal punto di vista economico, finanziario e patrimoniale, così dal punto di vista dell’impatto sociale complessivo dell’attività produttiva sono fondamentali gli indicatori di performance socio-ambientale che permettono di analizzare i rapporti che legano l’impresa al macrosistema ambientale complessivamente inteso. Questi strumenti sintetici di natura qualitativa e quantitativa permettono di effettuare un confronto rapido ed efficace sugli aspetti socio-ambientali connessi all’attività d’impresa che la contabilità tradizionale non consente di analizzare (si rinvia alle lettura dell’articolo in nota circa la classificazione di questi indicatori)[12].

    La riflessione critica dell’organizzazione sulle pretese dell’economia capitalistica di ricomprendere la questione ambientale si concentra in un’analisi della Green Economy. Gli intenti reali di quest’ultima sono la concentrazione della proprietà della terra e la privatizzazione della risorse naturali. Ad es. mettendo una sanzione pecuniaria o una tassa sull’inquinamento si vieta di fatto solo a chi è più debole di inquinare e soprattutto si consente a chi è più forte di vincere la competizione economica. I provvedimenti contro la deforestazione si concretizzano nell’impossibilità delle comunità indigene di accedere a risorse che per loro sono vitali, l’utilizzo delle biomasse riserva milioni di ettari all’alimentazione di macchine, l’agricoltura adattabile a differenti climi (reputata intelligente) prevede l’uso di pesticidi e di prodotti transgenici. Le restrizioni dell’uso dell’acqua favoriscono la concentrazione nelle coltivazioni ad alto valore per le esportazioni, la prezzatura delle risorse naturali ne permette la privatizzazione e la mercificazione. Il punto in questo senso è il rapporto tra la questione ambientale e i soggetti che devono decidere come affrontarla. Da questo punto di vista il protagonismo delle comunità indigene soprattutto nei paesi in via di sviluppo è corroborato dal fatto che esse a livello mondiale producono il 50% circa degli alimenti del mondo occupando il 20% della superficie coltivabile mondiale[13]. Non è un caso che Evo Morales abbia dichiarato che l’ambientalismo dell’economia verde sia il nuovo colonialismo rivolto contro popoli e governi anticapitalisti[14]. Giustamente a suo tempo si è criticata quella sinistra (nella quale sono comprese anche associazioni come il WWF, Lega Ambiente, Greenpeace) che, agitando la questione ambientale, ha di fatto delegato a meccanismi di mercato la soluzione della stessa (sgravi fiscali, investimenti pubblici a favore di imprese private, sviluppo dell’agricoltura per la produzione di agrocombustibili, aumenti tariffari a carico di tutti gli utenti)[15]. Al tempo stesso si è evidenziato come nella tradizione marxista e rivoluzionaria ci siano stati numerosi riferimenti[16] all’importanza della questione ambientale[17].

    Ovviamente il fatto che la questione tra Capitale e Natura vada ricompresa in quella tra Capitale e Lavoro non esclude che all’interno dei limiti dati dai rapporti di produzione capitalistici si verifichino conflitti tra le istanze ambientali che riguardano tutta la cittadinanza e la difesa dell’occupazione dei lavoratori. Poiché infatti il come, il dove e il fine della produzione sono determinati dalle esigenze della massimizzazione del profitto, è ovvio che il capitale usi la forza lavoro disponibile come ostaggio per sottrarsi alle esigenze di compatibilità ambientale. E tuttavia si è dimostrato che i lavoratori, le loro democratiche rappresentanze e i loro dirigenti politici possono unificare le questioni togliendo quella contraddizione che invece nel modo di produzione capitalistico si ripresenta incessantemente[18].

    Proprio per questa sensibilità sempre dimostrata è augurabile che nella nostra organizzazione l’ipotesi alla base dell’economia circolare venga approfondita come strumento fondamentale per il rapporto tra questione ambientale e pianificazione socio-economica. Infatti, per quanto sull’economia circolare si stia appuntando l’interesse anche del capitalismo, tale interesse è solo legato alle diverse attività legate a questo progetto, attività che possono a vario titolo essere commercializzate. Tuttavia l’idea dell’economia circolare che si fa strada in ambito capitalistico è una idea distorta dal momento che l’economia circolare non è un modello che possa essere realizzato in ordine sparso a seconda della convenienza economica e della disponibilità ad investire da parte dei soggetti privati. Perché essa possa avere successo, c’è bisogno del coordinamento di un’intera società secondo un progetto complessivo realizzato da istituzioni che non debbano internamente tenere conto di finalità tra loro in potenziale conflitto (da istituzioni in ultima analisi che non abbiano la massimizzazione del profitto come loro obiettivo). Perché essa possa avere successo, la strategia degli incentivi e dei disincentivi economici deve essere solo integrativa ad un asse strategico basato sul coinvolgimento e sulla partecipazione diffusa delle classi popolari e infine sul carattere precettivo di almeno alcune norme prodotte in fase di realizzazione del progetto

    [1] Casadio, Mauro, Note Introduttive in Pianeta Merce, l’ultima frontiera del modo di produzione capitalista, Quaderno di Politica e Classe, Roma, Giugno 2008, p.9

    [2] Vasapollo, Luciano, La contraddizione Capitale-Natura dentro il conflitto Capitale-Lavoro in Pianeta Merce, l’ultima frontiera del modo di produzione capitalista, Quaderno di Politica e Classe, Roma, Giugno 2008, p. 71-84

    [3] L?imbroglio del capitalismo ?verde? | Contropiano

    [4] https://www.marxists.org/italiano/ma...pitolo_II.html

    [5] Casadio, Mauro, Note Introduttive in Pianeta Merce, l’ultima frontiera del modo di produzione capitalista, Quaderno di Politica e Classe, Roma, Giugno 2008, p.11

    [6] Casadio, Mauro, Note Introduttive in Pianeta Merce, l’ultima frontiera del modo di produzione capitalista, Quaderno di Politica e Classe, Roma, Giugno 2008, p.12

    [7] Franco, Michele, Come opporsi ad una società che produce scorie materiali e degrado umano in Pianeta Merce, l’ultima frontiera del modo di produzione capitalista, Quaderno di Politica e Classe, Roma, Giugno 2008, p.103-108.

    [8] Appello per la democrazia e il rispetto della legalità in Val di Susa | Contropiano

    [9] La natura senza padroni. L'Educazione Ambientale come critica allo sviluppismo capitalista

    [10] Riflessioni intorno a “Futuro Indigeno”

    [11] Per una compatibilità ecologica e sociale dell'attività produttiva

    [12] Per una compatibilità ecologica e sociale dell'attività produttiva

    [13] Le false soluzioni della ?green economy? | Contropiano

    [14] La ?Green Economy? è un nuovo colonialismo | Contropiano

    [15] L?imbroglio del capitalismo ?verde? | Contropiano

    [16] Capitale e Natura, per una visione di classe dei temi ambientali, Supplemento di Contropiano, Anno 19, n.2, Roma, Maggio 2011.

    [17] Cambiamento climatico. C?era qualcosa prima di Greta? | Contropiano

    [18] Taranto non può aspettare: il piano ambientale Ilva non va bene | Contropiano

    *Rete dei Comunisti

    (la grafica di copertina è di Federico Ruxo)

    http://contropiano.org/fattore-k/201...la-rdc-0116183
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  4. #14
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    Predefinito Re: Rete dei Comunisti - Eurostop

    La morte di Mohamed Morsi

    La morte di Morsi il 17 giugno durante un’udienza a suo carico è un evento dal grande significato simbolico, in quanto la parabola dell’ex-Presidente dell’Egitto è esemplificativa dell’agire ipocrita e cinico da parte degli imperialismi occidentali.

    I Fratelli Musulmani – di cui Morsi era esponente – vennero scelti nel 2011 dagli imperialismi, in occasione della stagione poi rivelatasi per lo più scellerata delle cosiddette “primavere arabe”, come carta di ricambio affidabile per sostituire i regimi laici dell’area mediorientale, oggetto di contestazioni popolari in alcuni casi ampie, in altri casi minori.

    Si badi che nel caso egiziano, a differenza – ad esempio – di quello siriano, i rapporti fra il precedente regime di Mubarak e i poteri imperialisti erano di vassallaggio più o meno completo; tuttavia, ritenuta terminata la stagione del rais egiziano, i Fratelli Musulmani e l’Islamismo sunnita in generale si presentavano come affidabili in quanto in stretti rapporti con la Turchia e le petromonarchie del Golfo, con i quali all’epoca né gli USA, né l’UE avevano grandi divergenze.

    Tutte le potenze, sia quelle regionali “sunnite” che quelle internazionali, infatti, immaginavano di procedere assieme in un’opera diabolica e criminale di destabilizzazione del quadro politico, unie dall’ostilità verso l’Iran, ma ciascuna con la presunzione di controllare i processi per volgerli a proprio vantaggio.

    Sventolando, così, a vele mediatiche spiegate, la bandiera delle “prime elezioni democratiche mai tenute in Egitto” (anche da parte di monarchie assolute oscurantiste come l’Arabia Saudita!), si giunge alla Presidenziali del 2012, dove Morsi ottiene la vittoria al secondo turno superando di poco l’ultimo Primo Ministro di Mubarak; Morsi ottenne soprattutto il consenso delle aree rurali del paese, quelle che non avevano mai avuto praticamente nulla a che vedere con le famose proteste di Piazza Tahrir.

    Come nella più classica delle situazioni in cui cambia tutto per non cambiare nulla, da Presidente, Morsi segue i dettami delle istituzioni finanziarie imperialiste (parliamo del FMI) e viene persino meno alla promessa, agitata nella campagna elettorale, di rimuovere l’embargo sulla Striscia di Gaza.

    Qui, il Governo di Hamas, anch’esso affiliato ai Fratelli Musulmani, era stato protagonista di un clamoroso voltafaccia nei confronti di Damasco, che da anni ne supportava l’ala militare e ne ospitava i vertici in esilio: passò, infatti, dalla parte delle fazioni jihadiste anti-governative proprio nella convinzione che una rapida ascesa al potere dei Fratelli Musulmani anche in Siria, in concomitanza con quanto stava accadendo in Egitto, ne avrebbe significato la legittimazione internazionale. Tuttavia, non solo le previsioni sul crollo della Siria si rivelarono errate, ma dai “commilitoni” egiziani della Fratellanza Musulmana non giunse nemmeno l’apertura stabilizzata dei valichi di confine. In questo contesto Gaza continuò ad essere una prigione a cielo aperto e le preoccupazioni di Israele riguardo il ruolo giocato dal “nuovo” Egitto si rivelarono infondate.

    Nonostante tali premesse, che avrebbero dovuto tradursi in un veleggiare tranquillo per Morsi, la realtà si deteriora immediatamente, già fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013.

    Gli interessi fra tutte le potenze internazionali che stavano destabilizzando l’area si divaricano rapidamente e in Egitto monta la rivolta delle fazioni militari sconfitte con la defenestrazione di Mubarak (che, nel frattempo era sotto processo in condizioni di salute quasi comatose). Per sintetizzare, la Turchia e il Qatar appoggiano Morsi, mentre l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Francia appoggiano i militari; gli USA, invece, vengono colti un po’ come gli asini tra i suoni e non prendono posizione fino al precipitare degli eventi.

    La precipitazione si ha a inizio luglio 2013, quando le forze armate detronizzano Morsi e, dopo aver fatto strage di manifestanti affiliati o simpatizzanti alla Fratellanza Musulmana (si parla di migliaia di persone) riprendono il controllo del paese, con a capo il Generali Al-Sisi. Ne seguirà una sostanziale restaurazione del vecchio regime (simboleggiata dall’assoluzione di Mubarak), che tuttora, forte della sua funzione di ago della bilancia nel complicato scacchiere dell’area, riesce di volta in volta ad ottenere l’appoggio delle potenze straniere, sia locali, sia Occidentali le quali, sostanzialmente, lo salvano dal collasso economico completo attraverso ingenti prestiti.

    Da segnalare che le parti più progressiste della rivolta di Piazza Tahrir, dopo aver raccolto un buon seguito, in presenza dei Fratelli Musulmani hanno in maggioranza più o meno esplicitamente simpatizzato per il colpo di stato militare, salvo poi trovarsi oggetto della consueta repressione da parte dei militari.

    A proposito di tali repressioni intendiamo ricordare la vicenda di Giulio Regeni, caduto vittima proprio mentre svolgeva un’attività di documentazioni delle difficili condizioni del sindacalismo in Egittto.

    Tornando a Morsi, dopo il luglio 2013, il suo destino è consistito nell’abbandono più totale da parte delle potenze imperialiste, che tanto ne avevano sbandierato la vittoria “nelle primi elezioni democratiche della storia dell’Egitto”.

    La sua condanna a morte prima, e morte poi, avvenuta nell’indifferenza generale, sono la rappresentazione più classica di come l’imperialismo tratta le fazioni dei paesi sotto il suo dominio (o che attende assoggettare al suo dominio): cerca di strumentalizzarle ed utilizzarle finché servono, per poi gettarle via non appena la loro utilità viene meno.

    In questo caso, l’abbandono di Morsi è stato anche la conseguenza di una debolezza da parte degli USA, costretti ad accodarsi ai paesi che ne hanno appoggiato la detronizzazione, ma ciò cambia poco dal punto di vista dell’ipocrisia dei comportamenti culturali e politici dell’imperialismo.

    Il destino di Morsi, ovviamente, costituisce un monito anche per tutti coloro, che, sui variegati scenari internazionali, cercano alleanze (a perdere) con gli imperialismi .

    di Giovanni Di Fronzo 19/6/2019

    La morte di Mohamed Morsi ? RdC
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  5. #15
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    Predefinito Re: Rete dei Comunisti - Eurostop

    REPORT DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE A MILANO SULL’ALTERNATIVA EUROMEDITERRANEA

    Sabato 8 giugno si è svolto a Milano un importante convegno internazionale organizzato dal Cestes e dalla Piattaforma Sociale Eurostop, sulla necessità di costruire una alternativa euro-mediterranea all’Unione Europea.

    A questo appuntamento oltre gli organizzatori hanno partecipato: la CUP dalla Catalogna, Askapena dai Paesi Baschi, Ensemble Insoumise dalla Francia, Annahj Addimocrati dal Marocco. Dall’Italia Potere Al Popolo, l’USB, Noi Restiamo, PCI e Rete dei Comunisti.

    Il convegno è stato un ambito di confronto franco tra esperienze politiche e sindacali del continente e tra le due sponde del “Mare Nostrum” in cui è emersa con forza la necessità di comprendere la fase politica che attraversa l’edificio politico della UE – comprese le dinamiche che si riverberano sulla “Sponda Sud” ma non solo – e cominciare a delineare uno spazio di confronto sull’alternativa al presente, che guardi alla proposta di una area euro-mediterranea come “profondità strategica” in cui collocare la prospettiva di trasformazione e l’azione politica quotidiana.

    L’UE infatti è in un delicato passaggio di fase dovuto alla competizione inter-imperialistica che da un lato la costringe ad intensificare la propria politica neo-coloniale – in special modo in Maghreb e nella Francia Sub-sahariana – e dall’altro è costretta a proseguire nelle politiche di austerity, producendo una torsione autoritaria che se appare evidente solo quando viene sfidata da un movimento sociale di rottura nel Continente, è un dato strutturale e quotidiano per i movimenti politici e sociali che si muovono sulla “Sponda Sud”.

    In questo contesto “la guerra” come paradigma della politica sta divenendo sempre più il cuore della proiezione di potenza della UE, così come la messa in campo di una macchina militare all’altezza una sua priorità.

    Ma l’ostilità, e non la cooperazione, sembra essere allo stesso modo il nesso con cui le oligarchie continentali vorrebbero che si relazionassero i popoli delle due sponde del Mediterraneo, allineandosi con le strategie di governance che fanno della guerra dei “penultimi” contro “gli ultimi” il perno della possibilità di perpetuare l’attuale sistema, e che hanno nel “patriottismo europeo” il più marcio dei suoi frutti ideologici.

    Per questo porre l’idea forza della “rottura” della gabbia della UE, è un posizionamento imprescindibile per lasciarsi alle spalle la timidezza d’approccio – per usare un eufemismo – che ha caratterizzato il ceto politico della sinistra, alienandosi sempre più il proprio blocco sociale di riferimento e non sapendosi proporre come “sponda” delle generose lotte che i popoli del “Sud” del mondo stanno portando avanti.

    Un altro aspetto importante è l’omogeneità che attraversa l’area che è stata il focus del dibattito, e l’omogeneizzazione delle contraddizioni che l’hanno caratterizzata, che spinge ad una maggiore relazione ed ad una sostanziale convergenza di visione quelle realtà che hanno maggiormente potuto toccare con mano come l’UE sia un “male comune” di cui occorra sbarazzarsi, da cui bisogna “sganciarsi” e pensare un alternativa adeguata che parta anche dalla concretezza delle possibilità di relazioni che il mondo multipolare offre.

    Esiste infatti la gabbia dei Trattati dell’Unione Europea sui lavoratori e i popoli europei, ma negli anni è stata costruita anche la gabbia dei Trattati europei contro i paesi e i popoli del Maghreb e dell’Africa. In alcuni casi sono trattati bilaterali sui servizi e l’agricoltura, in altri si tratta di Trattati multilaterali, come l’Epa (accordo di partenariato economico) conosciuto come il Trattato di Cotonou, che impone subalternità e dipendenza coloniale ai paesi subsahariani. Quando si pone la questione della rottura dei Trattati europei, lo sguardo va ormai allargato all’intero sistema di dominio che le classi dominanti europee hanno costruito sui propri e gli altri popoli.

    Le analisi che vengono fatte sulla UE sebbene ne mettano in luce sia il carattere di vettore di politiche neo-liberiste sul piano economico sia la sempre maggiore torsione autoritaria sia nei confronti dei movimenti sia per quanto riguarda la gestione dei flussi dei migranti, ne rimuovono il carattere neo-coloniale e sua struttura che ha ereditato tutte le storture dei singoli paesi membri.

    Pensiamo che questo convegno sia stata un ottima base di partenza, e che lo spazio politico aperto non debba essere episodico, ma che necessiti invece di un ulteriore approfondimento anche alla luce delle continue accelerazioni che l’agenda politica a venire ha evidenziato nei vari interventi e di dare alla pratica “internazionalista” sempre più testa e gambe per potersi affermare come exist strategy ad un eurocentrismo fuori tempo massimo ed ad un miope ripiegamento nella propria dimensione nazionale.

    Report del convegno internazionale a Milano sull'alternativa euromediterranea -
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  6. #16
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    Predefinito Re: Rete dei Comunisti - Eurostop

    Lezioni dalle elezioni in Portogallo

    di Rete Dei Comunisti



    I risultati delle recenti elezioni politiche in Portogallo che hanno sancito la chiara riconferma del premier uscente, Antonio Costa, stanno producendo una discussione la quale sta travalicando l’aspetto interno al paese lusitano e sta assumendo una proiezione politica di tipo generale.

    Nel nostro paese in molti osservatori politici – e più specificatamente quei settori della “sinistra patinata” che fanno capo al gruppo “Repubblica, Espresso, Micromega” ma anche al quotidiano “il Manifesto” – evidenziano come il corso politico interpretato della “sinistra portoghese” in questi anni può diventare un modello per la “sinistra tricolore” in considerazione del dato comune rappresentato dall’obbligato rapporto da intavolare (e subire) con la Commissione Europea ed il complesso delle istituzioni facenti capo all’Unione Europea.

    Già nei mesi precedenti il voto del 6 ottobre scorso molti (interessati) osservatori notavano che il “caso Portoghese” potrebbe diventare una strada percorribile per la socialdemocrazia in Europa in virtù del fatto che l’esecutivo Costa (formato prioritariamente dal Partito Socialista con l’appoggio decisivo di Verdi, Bloco de Esquerda e del Partito Comunista Portoghese) era riuscito nell’alchimia di “governare” i diktat provenienti da Bruxelles temperandoli con una politica interna non particolarmente contrassegnata dalla filosofia antisociale dell’austerity.

    Alcuni dati sono evidenti e sono l’esca su cui si appuntano le interessate attenzionI degli esegeti del “miracolo di Lisbona”: il Portogallo, con l’aumento di 1,7 del Prodotto Interno Lordo sta crescendo più della Germania. In sette anni ha abbassato il deficit pubblico dell’11% del PIL allo 0,5% (il livello più basso dal 1974, anno in cui la Rivoluzione dei Garofani pose termine alla dittatura).

    Tali dati, però, se possono accontentare i freddi analisti statistici rivelano che dietro la patina di alcuni provvedimenti/simbolo (gli investimenti delle multinazionali attratti dalle agevolazioni fiscali e il forte boom del turismo oppure le facilitazioni offerte ai pensionati che provengono da altri paesI) si sta facendo strada una politica economica e sociale che inizia a penalizzare alcuni ceti subalterni aumentando – di fatto – le disuguaglianze e la divaricante polarizzazione tra settori del mondo del lavoro e tra aree territoriali del paese.

    Non è un caso che nei mesi scorsi due categorie – solo astrattamente diverse tra loro – i professori delle scuole e i camionisti hanno impattato con il fermo Niet del governo Costa a fronte delle loro richieste di aumenti salariali e di miglioramenti giuridici e normativi.

    I professori ed i camionisti – pur nella oggettiva diversità di lavoro e mansioni che concretamente svolgono – stanno pagando il generale incedere della crisi e il dato reale che registra come di alcuni segnali di “ripresa economica” stiano beneficiando, esclusivamente, quei comparti sociali e quelle filiere commerciali e finanziarie che, a vario titolo, afferiscono alle imprese multinazionali del turismo e dei servizi. Un dispositivo economico che penalizza gran parte dei lavoratori dipendenti e del piccolo “lavoro autonomo”.

    Possiamo, quindi, affermare che sicuramente l’operato del governo di Antonio Costa non è, assolutamente, paragonabile a quei governi che immediatamente svendono (senza neanche un minimo di resistenza) il proprio paese ai diktat dei poteri forti continentali ma non è corretto accreditare questo esecutivo e la sua azione di governo come un esempio di “politica avanzata e progressista” a cui occorrerebbe offrire appoggio o, addirittura, andrebbe assunto come modello politico da generalizzare in Europa.

    Il governo Costa – a differenza di quello di Tsipras che impattò subito con i diktat della UE – si è potuto più agevolmente barcamenare nell’esercizio della sua dialettica con la gabbia dell’Unione Europea potendo usufruire degli effetti di una congiuntura economica internazionale ed europea diversa da quella (tanto per indicare una data simbolo) del 2013 e di una collocazione geo/politica del Portogallo che favorisce questo paese (dagli ex paesi coloniali di Lisbona continuano ad arrivare rimesse economiche, manodopera a basso costo ed un afflusso agevolato di risorse naturali e minerarie. Inoltre questi paesi, nonostante non conoscano un poderoso sviluppo economico paragonabile ad altre zone dell’Africa costituiscono un “mercato privilegiato” per il Portogallo).

    Le elezioni portoghesi e il ruolo dei comunisti nell’Unione Europea.

    In questo contesto i risultati elettorali dei giorni scorsi rilevano un pesante arretramento di voti e seggi per la CDU (la Coalizione Democratica Unitaria promossa e guidata dal Partito Comunista Portoghese) la quale, pur recuperando consensi rispetto alle elezioni europee del maggio scorso, registra la perdita di almeno 5 deputati rispetto al numero degli eletti nelle scorse consultazioni politiche. Tiene, invece, il Bloco de Esquerda il quale perde solo lo 0,5%, nel quadro di un arretramento complessivo di quasi 200 mila voti delle forze “più radicali” dello schieramento politico, contenuto nelle percentuali soltanto dall’altro grande dato di questa tornata elettorale, ovvero della caduta dell’affluenza alle urne ai livelli minimi dal 1974.

    Sicuramente è vero, dal punto di vista teorico e politico, che la partecipazione dei partiti comunisti a governi borghesi (specie quelli che si insediano sulla base di accordi post/elettorali e non come uno sbocco di processi di rottura politici e sociali nella società) ha sempre penalizzato le formazioni comuniste. Questo principio si è verificato nella dura realtà quotidiana nei decenni alle nostre spalle in molti paesi europei ogni volta che i partiti comunisti – al netto delle “migliori intenzioni possibili” – si sono assunti responsabilità di governo.

    In Francia, in Grecia, in Spagna ed in Italia abbiamo registrato, dal 1989 in poi (volendo indicare una periodizzazione temporale), più volte la partecipazione di formazioni “comuniste e/o di sinistra radicale” ad esperienze governative il cui esito finale è stato disastroso non solo per gli interessi dei settori popolari che si intendeva difendere e rappresentare ma per la stessa tenuta ideologica, politica ed organizzativa di queste compagini.

    Da materialisti e da conoscitori delle moderne forme della governance capitalista – specie in paesi che sono la base materiale di un polo imperialista come quello incarnato dall’Unione Europea – sappiamo che le “svolte governiste” – anche giustificate da programmi “autenticamente riformatori” – sono terreni politici scivolosi che inchiodano i comunisti a “patti programmatici” e a quel “realismo della politica” che depotenzia e, sostanzialmente, annulla ogni spinta politica in avanti che i comunisti dovrebbero imporre nella loro “azione governativa”.

    L’essere collocati – obbligatoriamente – su un piano inclinato dove chi determina, oggettivamente e soggettivamente, le leve economiche e le scelte concrete da adottare siede a Bruxelles, a Francoforte e Berlino condanna i comunisti o alla funzione di meri notai delle scelte derivanti dalle decisioni della borghesia continentale oppure li espone ad una – impersonale quanto impercettibile – azione di sussunzione e depotenziamento culturale e politico della loro funzione costitutiva.

    Come Rete dei Comunisti abbiamo un grande rispetto per la lunga e gloriosa storia ed il ruolo che il Partito Comunista Portoghese riveste, non da oggi, nella società lusitana e nell’intero continente europeo. Abbiamo sempre apprezzato la produzione teorica e le posizioni di aperta critica al carattere imperialista dell’Unione Europea che il PCP manifesta da tempo. Nei nostri organi di informazione spesso riportiamo le dichiarazioni dei compagni portoghesi a cui riconosciamo una importante funzione in Europa.

    Lungi da noi, quindi, qualsiasi supponenza o spocchia verso una formazione che, concretamente, si misura ogni giorno con le contraddizioni della nostra contemporaneità senza abiurare all’obiettivo della lotta per il socialismo.

    Da compagni vorremmo, però, far notare che l’esperienza del governo Costa (e il risultato di queste elezioni lo conferma) ha espresso tutti i limiti e le derive politiche e materiali derivanti da una concezione della lotta all’austerità ed agli effetti antipopolari delle politiche della UE tutte impostate dentro l’orizzonte della gabbia della Trojka ed il rispetto delle compatibilità.

    Inoltre il “caso Portoghese” dimostra, plasticamente, come ogni tentativo – anche in presunta salsa “sociale e progressista” – impostato su scala nazionale è destinato a rifluire e, tendenzialmente, a soccombore di fronte al rullo compressore diplomatico, finanziario, economico e militare, dell’imperialismo europeo. Ed ancora di più questa implosione è certa quando si tratta di paesi piccoli come il Portogallo!

    Lo stesso ragionamento, dal nostro punto di vista, può esemplificarsi anche in riferiamo alla situazione della Grecia dove il KKE (il Partito Comunista Greco) è, coerentemente, all’opposizione netta di ogni governo compreso gli anni in cui le elezioni sono state vinte da Siryza. Anche in terra ellenica, però, i risultati elettorali – nonostante la caparbietà politica del KKE e la presenza di un forte movimento sindacale indipendente – non premiano questa formazione.

    Evidentemente – come ci sforziamo di argomentare da anni nell’analizzare le conseguenze profonde che la costruzione di un polo imperialista determina a vari livelli – i comunisti che agiscono in questa inedita dimensione politica e strutturale devono prendere atto di tale complessità predisponendo una modalità tattica d’intervento nella classe e nell’insieme della società che tiene conto di questa modifica, del mutamento dei rapporti di forza tra le classi e delle difficoltà per i comunisti di potersi cimentare direttamente sul terrerno elettorale ed istituzionale.

    Come Rete dei Comunisti – sulla base del nostro impianto tattico che abbiamo definito dei tre fronti della lotta di classe – abbiamo sperimentato vari tentativi di costruzione di una Rappresentanza Politica degli interessi dei settori popolari consapevoli che il versante elettorale è – in ogni caso – un fattore subordinato nei confronti del compito primario che afferisce alla costruzione di nuovi e più avanzati livelli di organizzazione e coscienza di classe nei posti di lavoro, nei territori e nella società.

    Una proposta politica di fase, un terreno di confronto e di azione unitaria sovranazionale.

    Una efficace opposizione all’Unione Europea, ai suoi diversificati dispositivi di rapina e di austerity ai danni dei settori popolari – particolarmente del Sud Europa – può avvenire solo attraverso una risposta politica e sociale (una rottura) di tipo internazionalista superando suggestioni/scorciatoie nazionali o micro – territoriali consapevoli che il nostro avversario ha le dimensioni e la potenza di un polo imperialista a tutti gli effetti.

    La ripresa, quindi, di un processo politico d’area (una prospettiva Euromediterranea) è la condizione minima necessaria per dare voce, forza e rappresentanza ad una alternativa popolare di tipo anticapitalista che sottragga il nostro blocco sociale di riferimento sia all’inanità politica e strategica di una “sinistra” sempre più integrata e disciplinata all’involucro europeo e sia dalla fascinazione dei miti idealisti, antistorici e reazionari delle “piccole patrie” di cui le destre e i “sovranisti” vorrebbero farsi interpreti.

    A ridosso di questa proposta politico/programmatica – una vera e propria sfida teorica e politico/pratica – collochiamo la nostra azione a tutto campo e definiamo la nostra politica comunista disponibili al confronto, al dibattito ed alla collaborazione con tutte le forze comuniste, anticapitaliste e popolari a scala internazionale.

    Rete dei Comunisti

    http://contropiano.org/interventi/20...ogallo-0119499
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

 

 
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