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  1. #21
    Piccolo insipiente
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    "Il vero amore non sta solo nelle parole. Uno dei primi obblighi che la Carità c'impone verso il nostro prossimo è quella che, trovandosi questo nel bisogno, chi lo può, lo soccorra"
    (San Giuseppe Cafasso)
    Sto combattendo la Buona Battaglia, sto proseguendo la Corsa, sto tentando di conservare la Fede

    Sono un clandestino nel Regno dei Cieli

  2. #22
    Piccolo insipiente
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    Santa Teresa Margherita del Cuore di Gesù, Vergine, Arezzo, 15 luglio settembre 1747 - 7 marzo 1770 (7 marzo e 1° settembre)



    Martirologio Romano: A Firenze, Santa Teresa Margherita Redi, Vergine, che, entrata nell’Ordine delle Carmelitane Scalze, percorse un arduo cammino di perfezione e fu colta da prematura morte.

    La vigilia della Festa della Madonna del Carmelo dell’anno 1747, ad Arezzo, nella nobile famiglia Redi, venne alla luce Anna Maria, seconda di tredici figli. Era la sorella di Francesco Saverio, il fratellino che diventerà gesuita, salutato da lei per l’ultima volta, prima di entrare in Monastero, con queste parole: “Cecchino, vuoi bene a Dio?… Amalo davvero Gesù; se sapessi quanto è bello quanto è caro quanto è amabile!”.
    In un ambiente familiare profondamente cristiano crebbe candida come un giglio: ripetutamente chiedeva ai genitori e agli zii che le parlassero di Gesù e cosa dovesse fare per piacergli. Formata ad un profondo spirito di pietà, all’età di sei anni poteva dirsi già una piccola contemplativa che domandava a chiunque fosse in grado di risponderle: “ditemi, chi è questo Dio?”
    Amava poi ritirarsi nella sua stanza per pregare ed ammirare i suoi “santini”. All’età di nove anni, per la sua formazione, sia cristiana che umanistica, fu mandata a Firenze con la sorella Eleonora Caterina, all’Educandato delle Benedettine di Sant'Apollonia. Qui, felice e serena, trascorse la sua adolescenza. Ricevette la Prima Comunione il giorno dell’Assunta del 1757. Fatto significativo, il suo maggior confidente era il padre, Ignazio Maria Redi, uomo illuminato e religioso. Tra i due iniziò un intenso rapporto epistolare, andato purtroppo quasi interamente perduto per la vicendevole promessa di dare al fuoco le lettere. Anna Maria più volte disse che era grata al padre, più per quello che le insegnava, che di averla generata fisicamente. Dopo aver letto la vita di Santa Margherita Maria Alacoque nacque in lei una grande devozione al Sacro Cuore, amore intimo a Cristo. All’età di diciassette anni, seguendo l’esempio dell’amica Cecilia Albergotti, e l'ispirazione di Santa Teresa d'Avila, sentì la vocazione ad entrare nel Carmelo; il distacco dalla famiglia fu dolorosissimo. Il 1° settembre 1764 fu accolta nel Monastero di Santa Maria degli Angeli di Firenze. Fece la professione religiosa il 12 marzo 1766 divenendo Suor Teresa Margherita del Cuor di Gesù.
    Dentro il Carmelo Anna Maria si sentì nel proprio centro. Nel fervente monastero trovò i mezzi più adeguati per realizzare la sua vocazione contemplativa. La totale obbedienza, lo spirito di spogliamento e di distacco, la purezza e la generosità delle sue madri e sorelle la riempirono di ammirazione e di rispetto e lo sentì, e lo manifestò, a confessori e maestre: si ritenne indegna di vivere in mezzo a loro. Da questa profonda umiltà derivò il bisogno di mettersi al di sotto di tutte, di farsi la piccola serva di quegli ‘angeli’ e questa sarà per lei una grazia, che si tradurrà nel positivo proposito e nella pratica instancabile di una operosissima carità. Quest’umiltà non le impedì di gustare una purissima gioia interiore, che trasparì dal suo stesso contegno. La sua gioia più grande fu di abitare nella “Casa” di Gesù: dopo il coro, dove lo trovava vivo, amava la cella, così silenziosa e spoglia, in cui sapeva che Egli viveva con lei, nella solitudine che la Regola imponeva.
    Nell’anno del noviziato avvenne la sua fioritura alla grazia: costante nascondimento, obbedienza totale, delicatissimo spirito di povertà e, soprattutto, fedeltà “a costo di qualunque ripugnanza”. Era impaziente di essere tutta di Dio e solo un mese dopo la vestizione ottenne dal confessore ordinario di pronunciare i voti privati. Lo spirito di Teresa Margherita trovò il sistema pratico su cui regolare ogni aspetto della sua vita “con ogni possibile perfezione”. La sua natura sensibile le era di tormento, Dio diventava sempre più la figura dominante della sua vita. La sua azione purificatrice travolgeva qualsiasi ostacolo alla sua avanzata.
    Scrupolosa nel rispetto della Regola, amava molto la preghiera mentale, anche notturna. Un amabile sorriso era sempre impresso sul suo volto. Spiritualità carmelitana dunque con una profonda devozione al Cuore di Gesù, sorgente di vita e d’amore. Con l’amica Cecilia iniziò una “santa sfida” nell’amare Cristo e per questo presero l’impegno di confidarsi ogni mancanza, nel periodo del silenzio non con le parole, ma con piccoli biglietti. Attraverso le testimonianze del padre e del direttore spirituale, Padre Ildefonso di San Luigi, conosciamo la sua scalata alla santità. Mentre era ancora una giovane professa, nacque in lei il desiderio profondo di conoscere la vita nascosta di Gesù. Padre Ildefonso le diede da meditare un brano della lettera di San Paolo ai Colossesi in cui si legge: “Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”. Appagare la sete di Dio attraverso l’imitazione di Cristo divenne lo scopo della sua esistenza. Nacque così quella singolare espressione: “Che bella scala, che scala preziosa, indispensabile è il nostro buon Gesù!”, maestro, modello e strumento per comprendere ed entrare nel Mistero Divino. La sua contemplazione era trinitaria: lo Spirito Santo era la fonte e Cristo la via per giungere al Padre. All’atto della professione religiosa, per amore di Gesù, rinunciò a quello cui maggiormente teneva: il rapporto epistolare col padre. Le costò tantissimo ma si promisero che da lì in poi, ogni sera, prima del riposo, si sarebbero incontrati nel Cuore di Gesù. Domenica 28 giugno 1767, mentre era in coro per l’Ora di Terza, sentì dalla lettura breve : “Deus Charitas est et qui manet in charitate, in Deo manet” (Gv. 1 4,16). Un sentimento soprannaturale la pervase e per più giorni rimase scossa. Comprese che la vera grandezza stava nell’accettare generosamente l’Amore del Cuore di Gesù, unita al quale anche una povera creatura era in grado di amare. Unita con Dio - consapevole di Dio, perché di Dio - infinitamente amante e assetata, Teresa Margherita era ignara di sé - a se stessa nascosta – e avvertì che “altro non bramo che di essere una vittima del Sacro Cuor vostro, consumata tutta in olocausto col fuoco del vostro santo Amore”.
    Donò il suo cuore a Cristo, offrendosi per essere consumata dal suo amore; e Dio la esaudì.
    Era giunta all’ultimo gradino della scala, divenendo Tempio del Dio Vivente. Tutto ciò nella più grande umiltà, col desiderio però di trasmettere tale dono mistico alle consorelle. Chiese al confessore il permesso di fare l’offerta della Alacoque: porre la propria volontà nella piaga del costato di Cristo ed entrare nel suo Cuore. Allorché comprese il “significato” di “Dio è Amore”, fu sospinta ad intendere e vivere le ricchezze dell'Inabitazione trinitaria nell'anima. Nella linea della spiritualità biblica di San Paolo e San Giovanni, Teresa Margherita fece suoi tre basilari principi: vivere nascosta - con Cristo - in Dio ("Mio Dio..., ora e sempre intendo racchiudermi nel tuo amabilissimo Cuore, come in un deserto, per condurvi con Te, per Te, in Te una vita nascosta di amore e sacrificio...). Teresa considerava il Sacro Cuore quale "centro dell'amore con cui fin dall'eternità il Figlio ci ha amati e con il quale noi ora lo possiamo riamare in terra e in cielo". Questo significato della devozione al Sacro Cuore - "riamare perché amata" -, rese Teresa Margherita sempre più aderente alla sua vocazione contemplativa, trasportandola dalla vita interiore e nascosta dell'anima umana di Gesù all'esperienza del mistero del Verbo (Figlio) nel seno della Trinità. Dalla devozione al Sacro Cuore ella trasse una norma di comportamento cristiano che esprimeva impetuosamente così: "bisogna restituire amore per amore". E poiché Gesù ci ha amato soffrendo per noi, noi dobbiamo soffrire per Lui. Le malate della sua comunità concretizzarono per lei questi movimenti d’amore e di croce: esse erano per lei l’immagine di Cristo che soffriva, e lei, per amarLo, doveva assumersi con gioia il durissimo peso del servizio. Diceva: "Lui in Croce per me, io in croce per Lui".
    Si sentiva però piccola e la sua più grande preoccupazione era di non amare abbastanza. Non lesse, ma visse San Giovanni della Croce passando per la notte oscura (amava senza credere di amare). L'efficacia di questa carità fraterna la rese la serva di tutte le religiose: sempre pronta, amabile, dimentica di sé, abilissima nel riservarsi i lavori più faticosi della comunità con un costante sorriso che, nascondendo la sofferenza e la fatica, era un invito silenzioso a rivolgersi a lei per qualunque atto di carità, era il velo che avvolgeva la sua ininterrotta ascesi delle virtù quotidiane. Teresa Margherita raggiunse il vertice del suo cammino: in un perfetto equilibrio di contegno esterno, in un costante auto-dominio che rivelava una maturità spirituale pienamente realizzata, insieme ad una carità praticata silenziosamente ed abitualmente in grado eroico, sia nel suo ufficio di infermiera che in tutto il contesto di vita comunitaria.
    Infatti l’amore a Dio si concretizzò nella mansione di aiuto infermiera che esercitò con straordinaria abnegazione, in particolare verso una consorella che per problemi psichici era purtroppo divenuta violenta. La sua carità fu silenziosa ed eroica. Tra l’altro in quel periodo le consorelle malate ed anziane erano molte. La sua stessa comunità divenne strumento di mortificazione e così, nell’ultimo Capitolo, suor Teresa Margherita fu rimproverata perché, per l’eccessivo lavoro in infermeria, sembrava trascurasse la vita contemplativa. Il totale dominio di sé, dopo un breve smarrimento, le fece superare il rimprovero con ironia.
    Di Santa Teresa Margherita Redi possediamo pochi scritti: alcune lettere, vari biglietti che amava dare alle consorelle con pensieri e massime, i propositi per gli esercizi del 1768 e un altro breve proposito.
    Se ogni realtà anche piccola rappresentava un investimento d‘amore, tutto allora diventava fonte d’amore e motivo di nuova donazione: "altro desiderio non ho che di essere tua". A rendere più cristallina questa giornaliera esperienza non mancò il segno doloroso della siccità, della somma freddezza: nella sue lettere allude con sincerità a momenti di depressione, senza spiraglio di luce, angustiata e tentata di disperazione. In esse scorgiamo alcuni momenti di sconforto: “trovandomi in questo stato di somma tiepidezza, ad ogni momento faccio qualche mancamento”, “faccio tanti propositi, ma sono sempre l’istessa”. La sua reazione fu santamente sconvolgente: patire e tacere..., essere per tutto imperturbabile..., godere di non godere. Si confidò con la priora chiedendole di essere trattata con durezza.
    Dalle lettere scorgiamo alcuni momenti di sconforto: “trovandomi in questo stato di somma tiepidezza, ad ogni momento faccio qualche mancamento”, “ faccio tanti propositi, ma sono sempre l’istessa”. Si confidò con la priora chiedendole di essere trattata con durezza.
    La sua ardente devozione le fece raggiungere un’altissima esperienza mistica, testimone di ciò che la preghiera può operare in un’anima. Fu attenta a tenere nascoste le sue virtù e per umiltà, con battute, smorzava la curiosità delle consorelle, tanto da essere considerata una “furbina”. Arrivò però a dire al direttore spirituale che avrebbe dovuto rendere pubblici i suoi difetti. Pur senza avere molte conoscenze teologiche fu attentissima alla comprensione della Sacra Scrittura, intesa come dono dello Spirito. Ebbe molto cara anche la lettura delle opere della Santa Madre Teresa e il suo invito a far posto a Dio col silenzio interiore. Vivendo tra contemplazione e azione, nascosta nell'amore e nell'immolazione di se stessa, si domandava ad ogni azione: "Adesso che faccio questa azione, amo il mio Dio?" - Ella capì subito che il segreto, il cuore pulsante della vocazione al Carmelo era la donazione totale al Cristo, alla Chiesa, a tutti e per tutti i giorni. Era vivere la gioia di essere amati da Dio per poter amare Dio e tutti con amore consumante, che è pure dono di Dio.
    Ardente fu l’amore per l’Eucaristia: “All’offertorio, rinnovo la professione: prima che si alzi il Santissimo prego Nostro Signore, che, siccome tramuta quel pane e quel vino nel suo preziosissimo Corpo e Sangue, così si degni di tramutare tutta me in se stesso. Alzandosi lo adoro, e rinnovo ancora la mia professione, poi gli chiedo quello che desidero da lui”. Fece celebrare, per la prima volta, la festa del Sacro Cuore nella sua comunità, predisponendo ogni particolare perché fosse solenne. In questo fu sostenuta dal padre e dallo zio, il gesuita Diego Redi. Erano gli anni in cui nasceva questa devozione, non sempre ben accolta a causa delle influenze gianseniste.
    Nell’anno precedente la sua morte, ottenne dal suo direttore di fare la vita nascosta di Gesù Cristo dentro di sé; il che voleva dire, non solamente vivere rimanendo come invisibile e inosservata tra le religiose, ma ancora significava essere in un certo senso occultata e ignota a se medesima e morire a sé senza saperlo e senza gustare alcun piacere di questa morte mistica e spirituale, seppellendo in Cristo ogni pensiero e riflesso anche spirituale ed esterno da sé; imparare a conoscere solo Dio e compiere questi suoi alti desideri, esercitandosi nelle più penose desolazioni di spirito.
    Una peritonite fulminea, dopo diciotto ore di atroci sofferenze, le fece incontrare lo Sposo Celeste, tanto amato e desiderato. Dimentica di sé, poche ore prima di morire, continuava a preoccuparsi delle consorelle ammalate. Morì, a neppure ventitré anni, il 7 marzo 1770. Il suo corpo emanava un profumo soave e ancor’oggi è conservato incorrotto nel Monastero delle Carmelitane Scalze di Firenze (in passato antica villa della famiglia Redi). Il 19 marzo 1934, Papa Pio XI la proclamò santa definendola “neve ardente”. L’esistenza breve di questa semplice suora, senza avvenimenti particolari, è oggi di esempio alla Chiesa Universale.
    La vita di Teresa Margherita fu un'esistenza spoglia di avvenimenti straordinari, ma radicata in un terreno che le permise di penetrare le più alte verità in una purità di fede, divenuta esperienza mistica; una vita priva di documenti dottrinali, ma che accesa e consumata dalla sete di amare il suo Dio, dimostra una volta di più che Dio non si raggiunge con l'intelletto, ma con l'amore.
    Teresa Margherita assorbì così bene lo stile, l’esempio e la dottrina di Santa Teresa d’Avila, da sentirsi sua figlia e da vedersi introdotta da Dio alla fruizione della sua intimità. Con quel candore che le era tipico, poté affermare che "al Carmelo dove era stata collocata era quasi più difficile non essere, che essere una santa".
    Teresa Margherita del Sacro Cuore di Gesù: come Teresa d’Avila perduta d’amore per Gesù, come Margherita Alacoque consunta d’amore nell’infuocato Cuore di Gesù.
    Sto combattendo la Buona Battaglia, sto proseguendo la Corsa, sto tentando di conservare la Fede

    Sono un clandestino nel Regno dei Cieli

  3. #23
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    “Ditemi, chi è questo Dio?”
    (domanda che la piccola Santa Teresa Margherita faceva a tutte le persone che incontrava)

    "Cecchino, vuoi bene a Dio?… Amalo davvero Gesù; se sapessi quanto è bello quanto è caro quanto è amabile!”
    (ultimo dialogo tra Santa Teresa Margherita e il fratello Francesco Saverio, prima dell'entrata nel Convento)

    "Adesso che faccio questa azione, amo il mio Dio?"
    (domanda che Santa Teresa Margherita faceva e si faceva a proposito di ogni sua azione)

    "Fedeltà...a costo di qualunque ripugnanza"
    “Che bella scala, che scala preziosa, indispensabile è il nostro buon Gesù!”
    “Altro non bramo che di essere una vittima del Sacro Cuor vostro, consumata tutta in olocausto col fuoco del Vostro santo Amore”
    “All’offertorio, rinnovo la professione: prima che si alzi il Santissimo prego Nostro Signore, che, siccome tramuta quel pane e quel vino nel suo preziosissimo Corpo e Sangue, così si degni di tramutare tutta me in se stesso. Alzandosi lo adoro, e rinnovo ancora la mia professione, poi gli chiedo quello che desidero da lui”
    "Mio Dio...ora e sempre intendo racchiudermi nel Tuo amabilissimo Cuore, come in un deserto, per condurvi con Te, per Te, in Te una vita nascosta di amore e sacrificio..."
    "Il Sacro Cuore è...centro dell'amore con cui fin dall'eternità il Figlio ci ha amati e con il quale noi ora lo possiamo riamare in terra e in cielo"
    "Riamare perchè amata...Bisogna restituire amore per amore...Lui in Croce per me, io in croce per Lui"
    "Altro desiderio non ho che di essere Tua"
    “Trovandomi in questo stato di somma tiepidezza, ad ogni momento faccio qualche mancamento...faccio tanti propositi, ma sono sempre l’istessa...per questo, bisogna...patire e tacere...essere per tutto imperturbabile...godere di non godere”
    (dagli scritti di Santa Teresa Margherita del Cuore di Gesù)
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    Sono un clandestino nel Regno dei Cieli

  4. #24
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    "Io N. fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.
    Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.
    Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell'origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.
    Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.
    Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell'evoluzione dei dogmi da un significato all'altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.
    Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall'oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell'intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.
    Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell'enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.
    Riprovo altresì l'errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.
    Disapprovo pure e respingo l'opinione di chi pensa che l'uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.
    Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l'analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.
    Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l'insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull'origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell'aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l'esame di qualsiasi altro documento profano.
    Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c'è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l'abilità e l'ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.
    Mantengo pertanto e fino all'ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell'episcopato agli apostoli, non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa.
    Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell'insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio."
    (San Pio X, Giuramento Antimodernista)
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  5. #25
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    San Gregorio I Magno, Papa e Dottore della Chiesa, Roma, 540 - 12 marzo 604 (12 marzo e 3 settembre)



    Martirologio Romano: Memoria di San Gregorio Magno, Papa e Dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
    (12 marzo: A Roma presso San Pietro, deposizione di San Gregorio I, Papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

    Leggendo la documentazione su San Gregorio colpiscono particolarmente due aspetti della sua personalità e del suo itinerario spirituale.
    Il primo. Gli storici gli hanno decretato l’appellativo di Magno, cioè Grande. Non sono molti i personaggi storici con tale onore. Gregorio per i suoi meriti, per la sua intelligente opera a beneficio della Chiesa e dell’Italia stessa, ha meritato questo titolo. È quindi uno dei Grandi della storia. Eppure lui amava firmarsi dichiarandosi “servus servorum Dei” cioè “servo dei servi di Dio”.
    Il secondo aspetto. Nel recente passato si discuteva, spesso a sproposito, della contrapposizione tra azione e contemplazione. Gregorio aveva una profonda nostalgia della contemplazione, voleva vivere una vita ritirata, eremitica, in solitudine, “popolata” solamente dalla presenza di Dio. Nonostante questo suo grande desiderio fu uomo di grande attività, non strettamente ecclesiale ma anche politica. Fu grande nell’azione e fu grande nella contemplazione. Forse è più corretto affermare che Gregorio fu grande nell’azione perché fu grande nella contemplazione.
    Fra tutti i pastori che Gesù Cristo diede alla Chiesa universale, nessuno superò i meriti e la fama del santo Pontefice che oggi veneriamo. Il suo nome è Gregorio, che significa vigilanza; il suo qualificativo Magno, che già gli era dato prima che San Gregorio VII salisse sulla Sede di San Pietro. Questi due grandi Papi sono fratelli, ed ogni cuore cattolico li circonda del medesimo amore e d'una comune ammirazione.
    Colui del quale onoriamo la memoria è già conosciuto da quei fedeli che si studiano di seguire la Chiesa nella sua Liturgia. Ma le sue fatiche intorno al servizio divino, in tutto il corso dell'anno, non si limitarono ad arricchire gli Uffici d'alcuni cantici ; l'intera Liturgia Romana lo riconosce per il suo principale organizzatore. Fu lui a raccogliere ed ordinare le preghiere ed i riti istituiti dai suoi predecessori, e quindi a dare loro la forma che hanno attualmente. Similmente il canto ecclesiastico ricevette da lui l'ultimo perfezionamento; la diligenza del santo Pontefice nel raccogliere le antiche melodie della Chiesa per disciplinarle, e disporle secondo l'occorrenza del servizio divino, legò per sempre il suo nome a quella grande opera musicale che tanto efficacemente contribuisce a preparare l'animo del cristiano alla venerazione dei Misteri ed al raccoglimento della pietà.
    Ma l'attività di Gregorio, non si limita a queste cure, che basterebbero da sole a rendere immortale un Pontefice. Quando egli fu dato alla cristianità, la Chiesa latina si gloriava di tre grandi Dottori: Ambrogio, Agostino e Girolamo; la scienza di Gregorio le serbava l'onore d'aggiungere il nome suo al loro. L'intelligenza delle sacre Scritture, la penetrazione dei divini misteri, l'unzione e l'autorità, segno dell'assistenza dello Spirito Santo, apparivano nei suoi scritti in tutta la pienezza; e la Chiesa si rallegrò d'avere una nuova guida nella sacra dottrina.
    La venerazione per tutto ciò che usciva dalla sua penna pre*servò dalla distruzione l'immensa sua corrispondenza; ed è facile costatare in essa che non v'è un punto del mondo cristiano che non sia stato osservato dal suo infaticabile sguardo; non una sola questione religiosa, locale e personale, nell'Oriente e nell'Occidente, che non abbia sollecitato il suo zelo e dove non sia intervenuto come pastore universale. Eloquente lezione data dagli atti d'un Papa del VI secolo ai novatori che osarono affermare che la prerogativa del Romano Pontefice non aveva altra base se non negli apocrifi documenti risalenti a due secoli dopo la morte di San Gregorio!
    Sulla Sede Apostolica apparve l'erede degli Apostoli, non solo come depositario della loro autorità, ma come continuatore della loro missione di chiamare interi popoli alla fede. Sta ad attestarlo, l'Inghilterra, che, se conobbe Gesù Cristo, e per tanti secoli meritò l'appellativo di "Terra dei Santi", lo deve unicamente a San Gregorio, il quale, mosso a compassione degli Angli, di cui voleva fare, a suo dire, degli Angeli, nel 596 mandò in quell'isola il monaco Agostino insieme a quaranta compagni, tutti figli, come lui, di San Benedetto. Il Papa visse abbastanza a lungo, per raccogliere su quel suolo la messe evangelica. Piace vedere l'entusiasmo del santo vegliardo, quando ci descrive "l'Alleluia e gl'Inni romani ripetuti in una lingua avvezza a barbari canti, l'Oceano spianarsi sotto i piedi dei santi, e maree d'indomiti popoli placarsi alla voce dei sacerdoti!" (Morali di Giobbe, l. 27, c. 11).
    Ma, come descrivere le virtù che fecero di Gregorio un prodigio di santità? Il disprezzo del mondo e dei beni, che gli fecero cercare un asilo nell'oscurità del chiostro? l'umiltà che lo portò a fuggire gli onori del Pontificato, sino a che Dio stesso rivelò con un prodigio il nascondiglio di colui, le cui mani erano tanto più degne di tenere le chiavi del cielo, quanto più ne sentiva il peso? lo zelo per tutto il gregge, di cui si considerava lo schiavo e non il padrone, onorandosi del titolo di servo dei servi di Dio? la carità verso i poveri, che ebbe gli stessi limiti dell'universo? l'infaticabile sollecitudine, cui nulla sfugge ed a tutto sovviene, alle pubbliche calamità, ai pericoli della patria, come alle avversità particolari? la costanza e l'amabile serenità in mezzo alle più gravi sofferenze, che non cessarono di gravare sul suo corpo per tutto il tempo del suo laborioso pontificato? la fermezza nel conservare il deposito della fede e nel combattere l'errore in ogni luogo? finalmente la vigilanza sulla disciplina, che restaurò e mantenne per tanti secoli in tutta la Chiesa? Tanti servigi e tanti esempi hanno scolpito l'opera di Gregorio nella mente dei cristiani con tali impronte che non si cancelleranno mai.
    Papa dal 3 settembre 590 al 12 marzo 604, nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant'Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l'ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell'azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604.
    Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro Dottori dell’Occidente: Papa San Gregorio I, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa!
    Uno storico ha definito Gregorio “l’ultimo grande Romano”; oggi si direbbe che era “Romano de Roma”.
    Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: San Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Sant'Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano (un senatore, discendente dalla nobiltà senatoria e probabilmente notaio regionale) e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi, e anch'esse venerate come sante.
    Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua Parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
    Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci (tra questi, San Leandro di Siviglia) aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa (586), che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere e di sottrarsi all’incarico perfino ricorrendo all’Imperatore e al Patriarca di Costantinopoli, tentando anche la fuga. Inutile, non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Diventò papa e fu una grande grazia per Roma, per l’Italia e per la Chiesa intera. Era l’anno 590.
    Non solo per Roma Gregorio fu padre amorevole, pieno di sollecitudine per il benessere materiale e spirituale (celebri le sue omelie ai romani), attento alla buona e giusta amministrazione a beneficio di tutti, (donò molta parte delle sue sostanze per il sostegno dei poveri) ma il suo amore ed interesse pastorale e politico si estesero a tutta la penisola. L’Italia era allora impoverita per le continue invasioni, ultime quelle dei Goti e dei Longobardi. Il quadro sociale era fatto di città in rovine, di profughi, di distruzioni e saccheggi ovunque.
    Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, San Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Sant’Agostino di Canterbury fu il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
    Di fronte all’impotenza di Costantinopoli, che avrebbe dovuto difendere l’Italia, Gregorio nel 592 si spinse fino ad assumere la responsabilità delle operazioni militari contro i Longobardi, dando ordini ai generali e pianificando l’attacco. Con la sua tattica non solo riuscì a liberare Roma ma da buono e abile diplomatico, per evitare altri massacri, firmò una pace separata con i Longobardi, facendo infuriare così l’imperatore di Bisanzio, che gli mandò una lettera estremamente offensiva.
    Gregorio gli rispose fermamente: “Se la schiavitù del mio paese non si aggravasse di giorno in giorno, io rimarrei in silenzio, lieto di essere disprezzato e schernito. Ma ciò che mi affligge è che la ragione per cui debbo sopportare accuse di menzogna è la stessa per la quale ogni giorno di più l’Italia è condotta prigioniera sotto il giogo dei Longobardi... Io mi aspetto più dalla misericordia di Gesù che viene, che non dalla giustizia della vostra pietà”.
    Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
    Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.
    Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.
    Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.
    Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.
    Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.
    Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.
    Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.
    Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.
    Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.
    Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.
    (...)
    Sto combattendo la Buona Battaglia, sto proseguendo la Corsa, sto tentando di conservare la Fede

    Sono un clandestino nel Regno dei Cieli

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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    (...)
    E' doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia San Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua espressione - servus servorum Dei. Questa parola da lui coniata non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.
    Gregorio fu un Papa grande non solo per la riorganizzazione della Chiesa di Roma, del diritto canonico, per la riforma del clero ed il riordinamento dei monasteri, ma anche per la sua intelligente attività apostolica. Tutto questo nonostante una salute malferma. Si adoperò con successo per la conversione dei Longobardi e lavorò, indirettamente, con l’amico San Leandro di Siviglia per assicurare alla fede cattolica i Visigoti nella Spagna.
    Ma il suo capolavoro apostolico fu la conversione dei popoli anglo-sassoni. Fu infatti lui a mandare nel 596 ben quaranta monaci guidati da Agostino (diventerà Sant’Agostino di Canterbury) per la evangelizzazione dell’Inghilterra.
    Gregorio è anche uno scrittore importante. Ha lasciato una traccia profonda nel campo della teologia, del diritto canonico ma specialmente dell’esegesi biblica. Attività intellettuale che gli ha fatto guadagnare il titolo di “Dottore della Chiesa” cioè Maestro di vita spirituale per tutti i fedeli. Gregorio era di Roma ma è stato molto grande il suo interessamento per l’Italia intera. Questo particolare risulta non solo nella sua attività “politica” ma anche in uno dei suoi capolavori i “Dialoghi”. Gregorio li scrisse per respingere lo sfogo pessimista del diacono Pietro (in verità, in sintonia con molti... contemporanei). Questi si lamentava affermando che in Italia i tempi erano così corrotti che era ormai impossibile trovare dei santi come nel passato. Il pessimismo veniva confutato con il racconto della vita di tanti uomini virtuosi viventi allora (e anche oggi) in Italia, che lui invece riusciva a “vedere”.
    Ma è nel suo amore totale alla Parola di Dio attraverso la “Lectio Divina” che Gregorio lascia un grande messaggio a tutti noi. Per lui è la Scrittura la vera guida nell’itinerario spirituale dell’anima a Dio. Non c’è vita spirituale se non attraverso la conoscenza, le meditazione, la contemplazione della Parola di Dio. È la Scrittura che fonda, stabilisce, vivifica, irrobustisce e fa crescere nell’anima la vita spirituale, cioè il rapporto amorevole con Dio. Essa è la vera ed unica “regola” spirituale. Più si assimila la Parola di Dio più si cresce spiritualmente e si arriva così alla contemplazione e all’amore perfetto per Dio ed il prossimo (alla santità).
    È importante mettere in risalto che la sua insistenza sulla Parola non valeva solo per i suoi monaci ma per tutto il popolo di Dio, costituito dal clero e dai fedeli insieme. Nessuno escluso. La Scrittura è il pane per il nutrimento spirituale di tutti. "La lettura della Parola di Dio...è indispensabile al Vescovo" (che Gregorio vuole sempre preoccupato di tale studio) "È indispensabile ai monaci. È finalmente indispensabile ad ogni fedele"
    È nella lettera a Teodoro, medico, che Gregorio ha il più profondo richiamo a questa lettura e che rimane l’aforisma più profondo di tutto il suo insegnamento a proposito: "Impara a conoscere il cuore di Dio nella sua parola, onde tu giunga a sospirare più ardentemente le cose eterne, e la mente ti si accenda di maggior desiderio dei gaudi celesti"
    Un ultima annotazione che vuole essere anche il messaggio di Gregorio per l’uomo d’oggi: il valore del silenzio. Per il grande Papa esso è condizione essenziale per poter ascoltare se stessi e lasciar parlare Dio alla propria anima. Se non c’è questo silenzio ed un po’ di solitudine difficilmente si instaurerà quel colloquio con Dio in cui consiste la preghiera e la contemplazione.
    Facendo così, dice Gregorio, sarà possibile “silenter cum Illo loqui” cioè “parlare in silenzio con Lui”. Naturalmente non si tratta qui dell’invito ad una qualche forma di esercizio o di seduta di solipsismo psichico, con risvolti e finalità (inconsce) di tipo narcisistico e autocelebrativo, ma di una solitudine e di un silenzio che renda possibile l’“habitare secum” cioè il dimorare con se stessi per arrivare ad essere “abitati da Dio”. Si tratta in altre parole della famosa “unione con Dio”, senza la quale non c’è crescita spirituale, e tantomeno santità cristiana.
    Gregorio ci raccomanda anche oggi che se vogliamo ascoltare Dio e parlare con Lui, (ritrovando come conseguenza noi stessi) dobbiamo avere il coraggio di: mettere in parentesi temporaneamente le cose esterne; arrestare per un po’ di tempo il flusso delle cose mutabili per percepire la presenza dell’Immutabile; controllare lo scorrere del nostro tempo per comunicare con l’Eterno che non passa; ascoltare la caducità e precarietà della nostra vita quotidiana per ancorarci alla Roccia che è Dio.
    Chi mai è più discepolo della Croce di colui che è il Santo di Cristo? I Santi del Signore si sono rivestiti della potenza della Santa Croce ed hanno combattuto la santa e pacifica battaglia del Santo Vangelo. E così, cari fratelli, celebrare le feste dei Santi è ancora celebrare i trionfi di Dio nelle anime umane. E che cosa vuole il Signore se non appunto questo: trionfare sulla dura cervice nostra, avere Lui il primo posto, quel posto che gli spetta nella nostra anima e nel nostro cuore? "Ascolta, o Israele, il Signore è il tuo Dio, il Signore è uno solo, non avrai altri dei al di fuori del Signore e amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze". La sublimità e la grandiosità della vittoria della Croce del Signore, è la vittoria sul peggiore nemico. I Santi tutti sapevano di essere in combattimento duro e senza tregua in questo pellegrinaggio terreno, il combattimento contro il nemico peggiore perché nemico interiore, contro la triplice concupiscenza che fa dell’anima nostra la preda del demonio.
    Dobbiamo comprendere noi stessi come anime in un santo combattimento, sostenuti dalla potenza trionfatrice della Croce di Cristo, morto e risorto per noi. Allora è del tutto consono, è cosa molto bella, lodevole, degna, celebrare le feste dei Santi anche in questi tempi forti, perché sempre si celebra il mistero di Dio e il mistero del suo Cristo.
    Ebbene, San Gregorio Magno di che cosa ci lascia esempio? Anzitutto del suo stesso governo della Chiesa. Egli è stato chiamato ad essere successore di San Pietro, ad essere il Papa della Chiesa universale. Ed è con San Gregorio che in particolare si consolidò quella giusta e legittima autorità che per volontà del Signore doveva essere proprio quella del sommo Pontefice, potestà vicariale, ma nel contempo a nome di Cristo, potestà universale, potestà di giurisdizione, potestà che si estende su tutta la Chiesa e che raggiunge ogni anima di ogni cristiano, ogni anima battezzata e sottoposta a quel potere che il Cristo ha lasciato a San Pietro. E non solo, oserei dire che ogni ragionevole, ogni razionale creatura, come ebbe a scrivere il Papa Bonifacio VIII, ogni razionale creatura deve sottomettersi "ad nutum summi Pontificis", Perché questo? ebbene perché il Pontefice rappresenta il Cristo sulla terra. Come dice appunto Santa Caterina da Siena: "Il Papa è il dolce Cristo in terra"
    Come è bello vedere proprio l’autorità pontificale, sacerdotale e anche l’autorità temporale ai suoi albori del papa San Gregorio Magno. Quello che stupisce sempre di più meditando sul mistero di questi uomini che si sono santificati tramite il governo o episcopale o addirittura pontificale, ebbene, quello che stupisce sempre di più è quella, diciamo così, loro autorità (come si suol dire), parola facile a dirsi , ma meno facile a comprendersi ed ancora meno da esercitarsi come realtà. Si dice spesso al giorno di oggi, che l’autorità è un servizio, ma si dimentica l’altra parte di questa verità e cioè che certamente se l’autorità è un servizio, tra tanti servizi che ci sono nella società e nella Chiesa, uno dei più significativi, anzi il primo, perché deve in qualche modo dirigere tutti gli altri servizi, è proprio quello di esercitare l’autorità. Esercitarla, non di desistere da essa.
    C’è stato un certo tempo, non tanto lontano, negli anni sessantotto e seguenti, quando ci si diceva: "fantasia al potere! Irrazionalità al potere! Malvagità al potere, stupidità al potere!" e c’era chi si piegava, c’era chi assecondava, c’era chi diceva, anche tra i cristiani, "oh, finalmente l’autorità si fa servizio!" e non ci si avvedeva che sotto il nome di autorità a servizio si desisteva e dall’autorità e dal servizio.
    L’autorità è cosa molto delicata, molto preziosa, l’autorità è, direi, il sale della società. Senza l’autorità la società muore, senza l’autorità la società si dissolve, senza la società i regni diventano dei latrocini, come dice Sant'Agostino. Ecco, quanta stima dobbiamo avere dell’autorità, persino della povera autorità umana, dell’autorità che può sbagliare e che anche sbaglia talvolta. Però sempre, cari fratelli, almeno noi cristiani, dobbiamo in virtù della fede ed anche con la virtù della penitenza, dobbiamo mantenere alta l’autorità e il diritto che essa ha a farsi ubbidire e a farsi riverire. Ma, cari fratelli, se l’autorità ha il diritto e il dovere di farsi ubbidire, noi abbiamo anche il diritto e il dovere di richiamare l’autorità ad esercitare i suoi doveri.
    Ciascuno nella società ha il suo dovere che gli è stato assegnato dalla provvidenza divina. Già il grande Platone diceva che la società è ordinata quando ogni cittadino si dedica a fare quello che gli spetta, sembra così semplice, ma vedete come la società è sconquassata proprio perché si cerca di darsi sempre a quello che si dice "il carrierismo", la tendenza ad esercitarsi come arrampicatori sociali, la tendenza ad una falsa, sbagliata diplomazia, che non rinuncia certo alle poltrone, ma rinuncia invece alla propria responsabilità. Così non ci si deve stupire se c’è una facciata ridicola, quasi buffa dell’autorità, ma non ce n’è più la res vera, la vera realtà della bellezza. Come invece erano sereni e santi quei personaggi dell’epoca patristica, in particolare il festeggiato di oggi, San Gregorio, nell’esercizio della sua autorità.
    Egli, che non si faceva mai chiamare "universalis Papa", non perché non sapesse che appunto che la sua autorità è universale su tutta la Chiesa, ma per motivi di vera e autentica umiltà, si faceva però chiamare: "Servus servorum Dei", ovvero il primo tra i servitori di Dio. Vedete come sottolineava il suo primato, giacché dice appunto il Signore: "Colui che vuole essere il primo tra voi, deve farsi il servitore di tutti". Servus servorum, non servilismo, non desistenza dall’autorità, ma l’affermazione del primato, "il primo servitore della Chiesa sono io, il vicario di Cristo". E questo non per mettere in evidenza il proprio io, non per spadroneggiare sulla fede dei fedeli, ma per amministrare il tesaurus fidelium e per condurre tutte le anime ai pascoli ubertosi del Cielo.
    Quello che stupisce sempre è come l’autorità, l’autorità vera, l’autorità robusta, l’autorità serena, l’autorità santificatrice, perché i superiori si santificano esercitandola, ebbene, cari fratelli, come l’autorità vera esclude l’autoritarismo. Basta una piccola aggiunta a quella parola, ma tutto è rovesciato. L’autoritarismo si oppone all’autorità ed è una cosa strana, paradossale, che proprio in un’epoca sconquassata dalla rivoluzione libertaria, dalla democrazia portata agli eccessi-- pensate al totalitarismo marxista, che dice che tramite la dialettica esso arriva al potere in quanto fa esplodere le contraddizioni insite alla democrazia libertaria, non dimentichiamocelo mai questo. Totalitarismo come effetto dell’anarchia. Notare bene come una democrazia che si stacca dalle sue radici soprannaturali, dal suo carattere per così dire sacro (e ogni potere o è sacro o non è), se si lascia profanare, se si lascia secolarizzare, se non pensa di dover dare proprio il conto a Dio, diventa un qualche cosa di spadroneggiante sul popolo, a nome del popolo stesso. Per ingannare chi? Ebbene ancora il popolo stesso. Attenzione. L’inganno del popolo perpetrato a nome del popolo.
    Come è bello quello che dice San Pietro, il primo Papa, nella sua lettera! Penso che sia il suo testamento spirituale a tutti i Papi suoi successori e a tutti coloro che hanno qualsiasi grado di autorità, di dignità nella Chiesa e anche nella società civile. Dice: "non ut dominantes in cleris, sed forma facti gregis ex animo", non come spadroneggianti in cleris, cioè nell’eredità (clerus dalla parola greca……cleronomia vuol dire appunto l’eredità), non come coloro che spadroneggiano sull’eredità del Signore, sul popolo santo di Dio, ma coloro che si fanno modelli del gregge, di buon animo, con amore governare la Chiesa, proponendo sé stessi, non con superbia, ma con squisita umiltà e vera autorità, proponendosi come modelli del gregge. Così dice San Paolo, senza orgoglio alcuno: "fratelli, fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo!". Che cosa dice San Paolo? Dice : "Fatevi miei imitatori", cioè io mi sento responsabile di dare anzitutto il buon esempio a voi. Da notare, fatevi miei imitatori solo in quanto io non sono semplicemente Saulo di Tarso, ma in quanto sono l’apostolo di Gesù Cristo, in quanto io sono l’imitatore di Cristo. Siate dunque imitatori miei in quanto io lo sono di Cristo. Notare come alla radice ( e questo è il paradosso del governo, dell’autorità nell’ambito della Santa Chiesa) come alla radice dell’autorità e del potere nella Chiesa c’è questa umiltà, l’umiltà secondo cui tutti, popolo e pastori, tutti, devono rendere ragione all’unico sovrano onnipotente Iddio e al Cristo, al quale solo spetta la regalità, per tutti i secoli dei secoli, amen.
    Vedete la differenza fra un governo veramente soave e dolce, che rispettava anche il valore autenticamente naturale, cioè creato da Dio e insito per natura nell’umana società, ma nel contempo ostacolava il dilagare della triplice diabolica concupiscenza nella società tramite la gratia sanans Cristi, tramite la grazia sanante di Gesù Cristo.
    Vedete, quanto è subdola e sbagliata quella impostazione che anche ahimè alcuni sedicenti politici cristiani hanno messo in atto, cioè quando hanno detto che intanto noi siamo dei laici, come gli altri, siamo laici quasi allo stesso modo come lo è un partito repubblicano o un partito liberale e via dicendo. Ma qui c’è un grave fraintendimento della parola "laicità", miei cari fratelli. Vedete come l’autoritarismo non è l’autorità, così il laicismo non è la vera laicità. Ebbene, se si studiasse di più San Tommaso d’Aquino, l’insigne angelico dottore, si saprebbe che proprio la sacralità del potere non ripugna per nulla alla giusta e sana laicità della società, alla vera laicità della società, la vera laicità. Perché che cosa vuol dire la laicità della società? Vuol dire che la società ci sarebbe comunque, anche se Iddio non si fosse compiaciuto di inviarci il suo sommo dono, cioè il Verbo Incarnato di Lui, Gesù Cristo, nostro Signore, re dei secoli. Quindi anche senza la regalità gratuita di grazia, regalità soprannaturale di Cristo, comunque ci sarebbe l’umana società.
    San Tommaso lo sottolinea molto bene contro ogni tentativo proprio di fideismo. C’è chi dice: "la società c’è solo come conseguenza del peccato delle origini": no, dice San Tommaso, la società e l’autorità e il potere ci sarebbe stato anche nel Paradiso terrestre e ci sarà in una certa forma anche nel regno dei Cieli, anche in Paradiso. Quindi la società è un fatto che fa parte della stessa natura umana. E fin qui siamo d’accordo. Distinzione tra il livello di fede della rivelazione gratuita e soprannaturale e dall’altra parte distinzione della natura che è l’oggetto dell’opera di Dio Creatore. Fin qui siamo nell’ambito della laicità.
    La laicità diventa invece bieco laicismo quando comincia a dire: "allora bisogna staccarsi da qualsivoglia riferimento alla legge di Cristo.
    Anche se il giudizio umano giudica in un modo o in un altro, non ha importanza, c’è Colui che alla fine dei tempi si siederà sul suo trono come eterno giudice e allora saranno svelate le coscienze, allora saranno citati nomi e cognomi e nessuno sfuggirà a questo momento. Non ci sarà più appello, né al tribunale inquisitoriale, né al tribunale ecclesiastico, né a qualsiasi altra istanza umana. Allora ci sarà il Cristo che verrà a giudicare e le coscienze saranno svelate e nessuno si sottrarrà.
    Non giudichiamo nessuno. Però giudichiamo la situazione delle cose, vediamo l’opera di guasto, vediamo l’opera della scristianizzazione, della profanazione della vita sociale. Perché la vita sociale diventa invivibile? Ebbene perché non ha più l’impronta cristiana e mancandole l’anima cristiana, mancandole la vita di grazia le manca anche l’umanità, perché senza Dio l’uomo non può essere uomo! Senza Dio l’uomo non può essere uomo. E’ proprio un assioma sapete, è un assioma dell’antropologia teologica, di ogni antropologia che voglia essere veramente umana e non bestiale.
    Allora riprendiamo la mentalità proprio di San Gregorio Papa. L’autorità, pieno rispetto per tutti. San Gregorio aveva rispetto per tutto, anche per le istituzioni pagane. Però nel contempo sapeva: il vero re è Cristo, a Lui solo onore, a Lui solo il potere.
    E' importante saper distinguere i valori naturali dai valori soprannaturali, ma nel contempo sapere che non si possono sciogliere, nella prospettiva di una umanità piagata dal peccato delle origini, non si possono mantenere nella loro integrità i valori sociali e morali naturali senza la benedizione e l’aiuto della grazia di Cristo.
    Ecco, infine, alcuni punti di riflessione riguardanti San Gregorio Magno. Uno potrebbe essere questo, dopo aver visto proprio questo suo sereno esercizio dell’autorità, autorità non gestita in prima persona, ma autorità della quale il Papa è consapevole che dovrà rendere conto a Dio. Vedete, finché i sovrani regnavano non per propria persona, ma per grazia di Dio, sapevano che se erano ingiusti dovevano poi pagare la loro ingiustizia anche con la salvezza eterna della loro anima. Invece adesso siamo in mano a degli atei, che non credono più in nulla se non a se stessi. Ecco allora perché la società è governata in maniera così disordinata e così arbitraria.
    Un secondo tema di meditazione potrebbe essere quello di San Gregorio Magno monaco. Nella sua casa paterna (era un uomo che veniva da una famiglia piuttosto agiata) ebbene mise queste ricchezze paterne proprio a servizio di Dio, nella sua casa sul clivus Caudi, a Roma, fondò il convento di Sant'Andrea e si dice di lui che sempre, in tutte le sue mansioni, quando fu eletto diacono di Roma, quando fu mandato ambasciatore alla corte di Bisanzio, apocrisiario del suo predecessore Papa Pelagio II, quando fu eletto persino sul soglio pontificio, ebbene sempre visse da monaco. Tutti lo ammiravano per questa caratteristica, che in ogni circostanza sempre amava anzitutto la contemplazione. Poi, terzo tema di meditazione, dopo questa caratteristica, diciamo così monastica, del primato della dimensione contemplativa, un secondo punto di meditazione potrebbe essere quello della estensione del contemplativo appunto nel campo apostolico. San Gregorio è il grande apostolo delle genti. San Gregorio ispirò una grande missione nell’Inghilterra attuale, tra gli anglosassoni, convertì gli ariani, gli ariani sia della Spagna, sia i longobardi, tramite la regina Teodolinda.
    Questo, è l’ultimo tema di meditazione, penultimo, (perché l’ultimo riguarderà la sacra liturgia, che tanto sta a cuore), ma il penultimo potrebbe essere questo: si dice oggi "la scelta dei poveri". San Gregorio fece la scelta dei potenti, proprio per essere utile ai poveri, ma San Gregorio ha proprio ragione, contro tutti i demagoghi contemporanei. Si dice oggi: "Noi lasciamo da parte i potenti, questo non interessa la Chiesa. Mettiamoci a lavorare alla base". Gruppi di base, democrazia, tutto nasce dal basso. Non è questo il modo di fare. Anche i gesuiti ne sapevano qualcosa, voi sapete che Sant'Ignazio quando mandava i suoi missionari nel mondo, anzitutto cercava di convertire i capi. Perché? Per adulare i capi? No di certo. Per mettere i capi al servizio dei popoli, vedete, cari fratelli, che così vuole il Signore. Allora sappiate anche in questo esempio di San Gregorio, sappiate quale è la vera regola pastorale e quali sono i demagoghi e quali invece sono i veri pastori che ci insegnano le cose di Dio.
    Infine, la riforma liturgica. Cosa stupenda, San Gregorio che cosa fece? Scombussolò forse la tradizione? No. Con tanto amore raccolse tutti i dati della tradizione e si fece un grande assertore di una liturgia semplice e solenne nel contempo. Difensore della venerazione alle immagini e alle sante reliquie. Vedete già allora c’erano tendenze iconoclastiche, ebbene San Gregorio sapeva che bisogna onorare e lodare Dio nella bellezza, perché alla casa del Signore si addice la bellezza.
    Cerchiamo, sempre con obbedienza, però con tanto amore e tanta consapevolezza che la bellezza ha i suoi diritti che nessuno potrà toglierle, ebbene coltiviamo la sacra tradizione e il Papa Gregorio ci benedirà assieme a nostro Signore, Re dei secoli, Gesù Cristo benedetto e così sia.
    Padre del popolo cristiano, Vicario della carità di Cristo e della sua autorità, Pastore vigilante, il popolo cristiano che amasti e servisti così fedelmente, si rivolge a te fiducioso. Tu non hai dimenticato il gregge che serba di te un sì caro ricordo; ascolta dunque oggi la sua preghiera. Proteggi e guida il Pontefice attualmente regnante sulla cattedra di Pietro e tua; illumina i suoi consigli, rinsalda il suo coraggio. Benedici tutta la gerarchia dei Pastori, che deve a te sì ammirabili precetti ed esempi. Aiutala a conservare con inviolabile fermezza il deposito della fede; soccorrila negli sforzi che fa per il rinnovamento della disciplina ecclesiastica, senza la quale regna il disordine e la confusione. Tu, che fosti eletto da Dio a regolare il servizio divino, la santa Liturgia, nella cristianità, favorisci il ritorno alle tradizioni della preghiera che un tempo s'erano affievolite in mezzo a noi e minacciavano di scomparire, e stringi sempre più il vincolo vitale delle Chiese mediante l'obbedienza alla Cattedra Romana, fondamento della fede e sorgente dell'autorità spirituale.
    Tu vedesti coi propri occhi l'inizio di quello scisma che separò l'Oriente dalla comunione cattolica. Poi, ahimè! Bisanzio consumò la rottura; ed il castigo del suo delitto fu l'annientamento e la schiavitù, senza che questa seconda infedele Gerusalemme abbia ancora riconosciuta la causa delle sue sciagure. Santo Pontefice, noi ti supplichiamo che, compiuto il corso della giustizia, si compia anche quello della misericordia: che s'apra l'unico ovile alle pecorelle allontanate dallo scisma!
    O Apostolo d'un intero popolo! ricordati anche dell'Inghilterra che ereditò da te la fede cristiana. Quell'isola che ti fu sì cara, e dove germogliò così abbondantemente il seme da te gettato, è diventata infedele alla Cattedra Romana, ed ogni sorta di errori albergano in lei. Quanti secoli sono ormai trascorsi da che si è allontanata dalla vera fede! In questi ultimi tempi pare che la misericordia divina si sia inclinata verso di lei. Aiuta questa nazione che generasti a Gesù Cristo, aiutala ad uscire dalle tenebre che ancora l'avvolgono. A te spetta riaccendere la fiamma che in sé ha fatto estinguere: torni a brillare quella luce, ed il suo popolo darà ancora una volta, come un tempo, eroi per la propagazione della religione e la santificazione di tutto il popolo cristiano.
    Prega anche per il gregge fedele che si applica alla penitenza, ottenendogli la compunzione del cuore, l'amore alla preghiera, l'intelligenza dei divini misteri. Leggiamo ancor oggi le Omelie che indirizzasti, in quell'epoca, al popolo di Roma; ora la giustizia e la misericordia di Dio è sempre la stessa: fa' che i nostri cuori siano presi da timore e consolati di speranza. Spesso la nostra debolezza si spaventa del rigore delle leggi che la Chiesa ci prescrive quanto al digiuno e all'astinenza; rianima di coraggio, e che nei nostri cuori sia ravvivato lo spirito di mortificazione. Sono luce i tuoi esempi e guida i tuoi insegnamenti; che la tua intercessione presso Dio ci faccia tutti veri penitenti, affinché possiamo ritrovare con la gioia d'una coscienza purificata, quell'Alleluia che ci insegnasti a cantare sulla terra e speriamo di ripetere con te per tutta l'eternità.
    Sto combattendo la Buona Battaglia, sto proseguendo la Corsa, sto tentando di conservare la Fede

    Sono un clandestino nel Regno dei Cieli

  7. #27
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    "Io sono...il servo dei servi di Dio...il primo servitore della Chiesa sono io, il Vicario di Cristo"
    "La Scrittura è...un fiume basso, e insieme profondo, nel quale un agnello può passeggiare e un elefante nuotare"
    "La lettura della Parola di Dio...è indispensabile al Vescovo. È indispensabile ai monaci. È finalmente indispensabile ad ogni fedele"
    “Il Sacrificio dell’Altare sarà per noi un’Ostia veramente accetta a Dio, quando noi stessi ci faremo Ostia”.
    "La Santa Messa è l’unico sacrificio che fa uscire prestamente le Anime dalle pene del Purgatorio"
    “La sapienza di questo mondo sta: nel coprire con astuzia i propri sentimenti, nel velare il proprio pensiero con le parole, nel mostrare vero il falso e falso il vero.
    Al contrario la sapienza del giusto sta: nel fuggire ogni finzione, nel manifestare con le parole il proprio pensiero, nell’amare il bene così com’è, nell’evitare ogni falsità, nel donare gratuitamente i propri beni, nel sopportare più volentieri il male che farlo, nel non cercare di vendicarsi delle ingiurie, nel ritenere un guadagno l’offesa subita a causa della verità. Ma questa semplicità del giusto viene derisa, perché la purezza d’intenzione è creduta stoltezza dai sapienti di questo mondo. Infatti tutto ciò che si fa con innocenza, è ritenuto da questi senz’altro una cosa stolta; e tutto ciò che la verità approva nell’agire, suona come sciocchezza per la sapienza di questo mondo”
    "Prima della nascita di suo figlio, la madre dell’Anticristo annuncerà l’avvento di un Messia che ridarà grande prosperità all’umanità"
    "Dopo la nascita dell’Anticristo la maggior parte dell’umanità sarà in una condizione tale da corrompere la parola, e le pecore diverranno atee o cadranno nell’eresia. Le chiese saranno vuote e in rovina, i sacerdoti avranno poco zelo per le anime e le persone pie saranno poche. La maggior parte delle persone si darà a ogni vizio immaginabile"
    (dagli scritti di San Gregorio I Magno)

    "Impara a conoscere il cuore di Dio nella sua parola, onde tu giunga a sospirare più ardentemente le cose eterne, e la mente ti si accenda di maggior desiderio dei gaudi celesti"
    (San Gregorio I Magno, "Lettera a Teodoro")

    “Se la schiavitù del mio paese non si aggravasse di giorno in giorno, io rimarrei in silenzio, lieto di essere disprezzato e schernito. Ma ciò che mi affligge è che la ragione per cui debbo sopportare accuse di menzogna è la stessa per la quale ogni giorno di più l’Italia è condotta prigioniera sotto il giogo dei Longobardi... Io mi aspetto più dalla misericordia di Gesù che viene, che non dalla giustizia della vostra pietà”.
    (risposta di San Gregorio I Magno all'Imperatore Maurizio che aveva criticato la sua pace separata con i Longobardi)

    “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”
    "Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò ch'è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato. Un discorso imprudente trascina nell'errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch'è giusto e, al dire di Cristo ch'è la verità, non attendono più alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari. Fuggono all'arrivo del lupo, nascondendosi nel silenzio.
    Il Signore li rimprovera per mezzo del Profeta, dicendo: «Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare» (Is 56, 10), e fa udire ancora il suo lamento: «Voi non siate saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli Israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore» (Ez 13, 5). Salire sulle brecce significa opporsi ai potenti di questo mondo con libertà di parola per la difesa del gregge. Resistere al combattimento nel giorno del Signore vuol dire far fronte, per amor di giustizia, alla guerra dei malvagi.
    Cos'è infatti per un pastore la paura di dire la verità, se non un voltar le spalle al nemico con il suo silenzio? Se invece si batte per la difesa del gregge, costruisce contro i nemici un baluardo per la casa d'Israele. Per questo al popolo che ricadeva nuovamente nell'infedeltà fu detto: «I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità, per cambiare la tua sorte» (Lam 2, 14). Nella Sacra Scrittura col nome di profeti son chiamati talvolta quei maestri che, mentre fanno vedere la caducità delle cose presenti, manifestano quelle future.
    La parola di Dio li rimprovera di vedere cose false, perché, per timore di riprendere le colpe, lusingano invano i colpevoli con le promesse di sicurezza, e non svelano l'iniquità dei peccatori, ai quali mai rivolgono una parola di riprensione.
    Il rimprovero è una chiave. Apre infatti la coscienza a vedere la colpa, che spesso è ignorata anche da quello che l'ha commessa. Per questo Paolo dice: «Perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (Tt 1, 9). E anche il profeta Malachia asserisce: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2, 7).
    Per questo il Signore ammonisce per bocca di Isaia: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» (Is 58, 1).
    Chiunque accede al sacerdozio si assume l'incarico di araldo, e avanza gridando prima dell'arrivo del giudice, che lo seguirà con aspetto terribile. Ma se il sacerdote non sa compiere il ministero della predicazione, egli, araldo muto qual'è , come farà sentire la sua voce? Per questo lo Spirito Santo si posò sui primi pastori sotto forma di lingue, e rese subito capaci di annunziarlo coloro che egli aveva riempito."
    (San Gregorio I Magno, "Regola Pastorale")

    “Il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”
    "“Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele” (Ez 3, 16). E' da notare che quando il Signore manda uno a predicare, lo chiama col nome di sentinella. La sentinella infatti sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere. Chiunque é posto come sentinella del popolo deve stare in alto con la sua vita, per poter giovare con la sua preveggenza. Come mi suonano dure queste parole che dico! Così parlando, ferisco m stesso, poiché né la mia lingua esercita come si conviene la predicazione, né la mia vita segue la lingua, anche quando questa fa quello che può. Ora io non nego di essere colpevole, e vedo la mai lentezza e negligenza. Forse lo steso riconoscimento della mia colpa mi otterrà perdono presso il giudice pietoso. Certo, quando mi trovavo in monastero ero in grado di trattenere la lingua dalla parole inutili, e di tenere occupata la mente in uno stato quasi continuo di profonda orazione.
    Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale, l'animo non può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché é diviso tra molte faccende. Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad interesserarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade irrompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi. Ora debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchno opportun aiuti a tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati.
    A volte debbo sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli, cercando tuttavia di conservare la carità. Quando dunque la mente divisa e dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni, come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e non allontanarsi dal ministero della parola?
    Siccome poi per necessità di ufficio debbo trattare con uomini del mondo, talvolta non bado a tenere a freno la lingua. Se infatti mi tengo nel costante rigore della vigilanza su me stesso, so che i più deboli mi sfuggono e non riuscirò mai a portarli dove io desidero. Per questo succede che molte volte sto ad ascoltare pazientemente le loro parole inutili. E poiché anch'io sono debole, trascinato un poco in discorsi vani, finisco per parlare volentieri di ciò che avevo cominciato ad ascoltare contro voglia, e di starmene piacevolmente a giacere dove mi rincresceva di cadere.
    Che razza di sentinella sono dunque io, che invece di stare sulla montagna a lavorare, giaccio ancora nella valle della debolezza? Però il creatore e redentore del genere umano ha la capacità di donare a me indegno l'elevatezza della vita e l'efficenza della lingua, perché, per suo amore, non risparmio me stesso nel parlare di Lui."
    (San Gregorio I Magno, "Omelie su Ezechiele")

    "Dobbiamo dunque disprezzare con tutto il cuore il secolo presente, almeno perché lo vediamo già passato, immolare a Dio sacrifici di lacrime ogni giorno e ogni giorno immolare le vittime della sua carne e del suo sangue. Infatti questa vittima salva, in modo incomparabile, l'anima dalla morte eterna, rinnovando per noi nel mistero la morte del Figlio unico. Benché "risuscitato dai morti non muore più; e la morte non ha più potere su di lui", tuttavia, in sé stesso immortalmente e incorrutibilmente vivente, è immolato per noi di nuovo nel mistero della santa oblazione. Qui il suo corpo è consumato, la sua carne divisa per la salvezza del popolo, il suo sangue sparso non più sulle mani degli infedeli, ma nella bocca dei fedeli.
    Perciò pensiamo cos'è per noi questo sacrificio che per il nostro perdono imita sempre la passione del Figlio unico. Chi dunque tra i fedeli potrebbe dubitare che all'ora precisa dell'immolazione i cieli si aprano alla voce del prete, che gli angeli siano presenti a questo mistero di Gesù Cristo, ciò che è innalzato si unisca a ciò che è basso, ciò che è celeste al terreno, e l'invisibile e il visibile si fondano?"
    (San Gregorio I Magno, "Dialoghi")

    "Nel primo giorno, in cui la Trinità
    beata il mondo comiciò a creare
    o nel quale risorgendo il Creatore
    noi, vinta la morte, libera:
    cacciati via i torpori
    leviamoci tutti più presto
    e di notte ricerchiamo Dio,
    come ci ordinò il profeta
    affinché ascolti le nostre preghiere
    e porga in aiuto la sua destra,
    e resici mondi dalle sozzure
    renda alla sedi dei cieli.
    In tal modo che quanti nel sacratissimo
    tempo di questo giorno
    tranquillamente nelle ore prescritte
    salmeggiamo,
    con doni beati munifichi
    Già ora, Padre della luce
    Ti chiediamo in ogni modo:
    stian lontano le vampate delle libidine
    ed ogni atto colpevole
    Nè insozzato sia, o vacillante
    l'oganismo del nostro corpo,
    per le cui fiamme, di fiamme
    l'inferno bruci più aspramente.
    O Redentore del Mondo, Ti preghiamo,
    tu dissolvi le nostre azioni vergognose:
    e a noi generoso i profitti
    delle vita eterna conferisci.
    Concedi, Padre piissimo,
    unico uguale al Padre,
    con lo Spirito Paraclito
    regnante per tutti i secoli.
    Amen"
    (San Gregorio I Magno, Inno "Primo die, quo Trinitas")

    "Sorgendo la notte siamo tutti vigilanti,
    costantemente meditiamo sui salmi e
    con tutte le forze al Signore cantiamo
    soavemente inni;
    di modo che, al pietoso Re unitamente cantando,
    con i suoi santi meritiamo
    di entrare a far parte della corte celeste,
    e assieme ad essa
    condurre la vita beata
    Conceda questo a noi la Divinità beata
    del Padre e del Figlio, ed egualemnte del Santo
    Spirito, la cui gloria risuona per tutto il mondo.
    Amen"
    (San Gregorio I Magno, Inno "Nocte surgentes vigilemus omnes")

    "Ecco, ormai della notte si attenua l'ombra,
    e la luce rosseggiante dell'aurora risplende:
    Supplici il Signore del creato
    con canora
    voce supplichiamo.
    Affinché i rei di colpa commiserando, ogni
    angustia allontani, tributi salvezza,
    e doni a noi i buoni doni
    della sempiterna
    pace.
    Conceda questo a noi la Divinità beata
    del Padre, e del Figlio, e dell'ugualmente Santo
    Spirito, di cui risuona per tuttto
    il mondo la gloria.
    Amen"
    (San Gregorio I Magno, Inno "Ecce jam noctis")
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    "Quando riceviamo la Santa Comunione... riceviamo la fonte della nostra Gioia e Felicità...Senza di Essa non ci sarebbe felicità a questo mondo e la vita sarebbe insopportabile"
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  9. #29
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    San Lorenzo Giustiniani, Vescovo, primo Patriarca di Venezia, Venezia, 1° luglio 1381 - 8 gennaio 1456 (8 gennaio e 5 settembre)



    Martirologio Romano: A Venezia, San Lorenzo Giustiniani, Vescovo, che illuminò questa Chiesa con la dottrina dell’eterna sapienza.

    Noi cattolici veneriamo il Cuore Immacolato della nostra Madre celeste, la Beata e gloriosa Vergine Maria, nostra speranza, particolarmente in questi tempi di difficoltà, in questi tempi di smarrimento, di apostasia quasi generalizzata. Con fiducia eleviamo il nostro sguardo verso Colei che è l'arca della nuova ed eterna alleanza, ma vogliamo soprattutto venerare la Beata Vergine Maria e il suo Cuore Immacolato sotto un titolo particolare, sotto il titolo di essere la Madre della Chiesa e chi dice madre della Chiesa dice anzi tutto la Madre, l'anima, il Cuore del Sacerdozio Cattolico.
    Che cosa suggerisce questo pensiero di venerare la nostra cara Madre celeste sopra tutto sotto il titolo di Madre ed avvocata particolare dei sacerdoti? La festa di San Lorenzo Giustiniani, che era il primo Patriarca di Venezia, un presule secondo il Cuore del Signore, il Pontefice in eterno secondo l'ordine di Melchidesech. Nella festa di San Lorenzo Giustiniani preghiamo la Beata Vergine perché si faccia avvocata per la Chiesa tutta intera, perché impetri da Dio Onnipotente, dalla Trinità Santissima per la Santa Chiesa sacerdoti santi, sacerdoti mediatori tra Dio e l'uomo, sacerdoti secondo il Cuore di Cristo, sacerdoti consapevoli, come il festeggiato di oggi, l'illustre Patriarca di Venezia San Lorenzo, di essere stati scelti in mezzo agli uomini, ma non dagli uomini, bensì da Dio stesso!
    Ecco come è importante meditare questo, con tanta riconoscenza nel cuore, perché dal sacerdozio dipende tutto il prolungamento dei benefici di Cristo. Senza il sacerdozio non potremmo avere quelle vie ordinarie della grazia che sono i sacramenti della Chiesa. Quanto è importante il sacerdozio cattolico per il bene delle nostre anime, per il bene di tutto il popolo del Signore, per il bene di tutta la Chiesa, che è un popolo essenzialmente sacerdotale! Popolo sacerdotale in questo duplice senso: del sacerdozio comune, poiché il popolo del Signore è un popolo che porta un dono sacro al mondo intero, il Cristo luce delle genti, che vive misticamente nel suo corpo che è la Chiesa. Quindi popolo sacerdotale già per questo motivo, ma popolo sacerdotale perché è un popolo che è gerarchicamente strutturato.
    Al giorno di oggi succede qualcosa di spaventoso, l'infernale nemico non si dà tregua e cerca di colpire il cuore del cristianesimo, il capo del cristianesimo, quel capo della Chiesa cristiana che è il sacerdozio. Essere sacerdoti non significa essere rappresentanti del popolo democraticamente, ma significa essere scelti da Dio, significa essere posti a capo del popolo per il bene del popolo. Vedete allora come è vitale la questione del sacerdozio. Una volta che crolla la gerarchia sacra, il sacerdozio istituito non dagli uomini, ma da Cristo Gesù, una volta che crolla questo, crollerebbe la Chiesa stessa ed è quello che intenta in questi tristi tempi il nemico del genere umano, l'omicida e il padre di ogni menzogna.
    Stringiamoci attorno a Colei che è Madre dei sacerdoti, Colei che è l'anima del collegio apostolico. Facciamo come gli apostoli nel momento in cui lo Spirito Santo discendeva come fuoco dal cielo sulla sua sposa, la gloriosa Vergine! Imploriamola perché Iddio abbia pietà della Chiesa, perché Dio conservi la santità del sacerdozio gerarchico della Chiesa.
    Quanto si è smarrita la così detta teologia. "Così detta" perché non merita più questo grande nome, il teologo è una parola che concerne Dio, che riguarda Dio e che addirittura scaturisce come riflessione umana dalla stessa verità e dalla stessa parola di Dio che si rivela. Purtroppo, la teologia ha smarrito sia le strade della fede che le strade della ragione, quando alcuni, che osano chiamarsi ancora teologi, asseriscono che c'è il sacerdozio per un tempo, cioè per un certo determinato numero di anni, si è scelti democraticamente dalla base, come i funzionari di uno stato democratico, come noi scegliamo il presidente della repubblica o il presidente del consiglio nelle elezioni universali per un determinato numero di anni. Secondo questi signori ci dovrebbe essere un sacerdozio non già gerarchico, ma un sacerdozio limitato nel tempo. Viene dagli uomini, corrisponde ad una scelta umana e come tutte le cose umane deve essere un sacerdozio che si piega alle leggi del tempo, per tre anni, per cinque anni e poi dopo si cessa di essere sacerdoti e si ridiventa laici. Cari fratelli, sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchidesech, il Cristo è sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchidesech.
    La Madre della Chiesa, la Madre dei sacerdoti non ha voluto ricevere dal nostro Signore Gesù Cristo suo figlio il sacerdozio gerarchico, perché Ella potesse essere non già il capo del collegio apostolico, ma la sua anima, il suo cuore, il suo fondamento.
    Quale è il mistero di Maria! Qualche cosa di analogico al sacerdozio, qualche cosa che sotto un certo aspetto è superiore allo stesso sacerdozio gerarchico. Maria, la madre del Signore, compie dei gesti sacerdotali, senza aver ricevuto la grazia capitale di Cristo. Maria è anzitutto Colei che rende presente il Cristo, quando lo concepì nel suo grembo verginale per opera dello Spirito Santo e quando con l'esultanza di tutte le schiere angeliche del Cielo, partorì il Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza, nella grotta di Betlemme. Maria è Colei che rende presente il Cristo, la luce del mondo. Maria è colei che porta il Cristo ai fratelli, ricordatevi delle nozze di Cana, quando dice ai servitori: "Fate tutto quello che Egli vi dirà", Maria è colei che ci conduce a Cristo e infine Maria è colei che offre il Figlio suo, assieme alla sua offerta, offre Gesù, il Figlio suo, lo offre al Padre, secondo la volontà del Padre, nel momento della Croce, nel momento della sofferenza, nel momento della morte di Cristo.
    Tale deve essere anche il sacerdote secondo il Cuore di Cristo, l'uomo di Dio, l'uomo che ha l'ineffabile potere (sì, si tratta di un potere, ma di un potere così soprannaturale che nessun potere su questa terra lo eguaglia), il potere di rendere presente sostanzialmente, realmente, fisicamente presente il Figlio del Dio vivo nell'Ostia santa! La presenza reale. Il Sacerdozio Cattolico si definisce tramite la divina Eucarestia. Rendere presente il Cristo, offrire il Cristo, ecco il carattere sacrificale della Santa Messa, offrire il Cristo al Padre, per l'espiazione dei nostri peccati, come un vero sacrificio di propiziazione. E infine, portare il Cristo agli uomini, perché il Cristo sia il cibo delle anime nostre, perché sia davvero per noi il Pane disceso dal cielo per la vita dell'uomo.
    Come è grande il Sacerdozio Cattolico! I laici non pensino di essere lontani da questo problema del sacerdozio, perché se i sacerdoti non sono più sé stessi, anche i laici cessano di esserlo! (Sia pure oggi si dica il contrario, oggi c'è una certa laicolatria, una adulazione dei laici, tutto fanno i laici, come se dei preti non ce ne fosse più bisogno). Ma i laici sono i primi se sono veramente tali, laici come laudes Dei, come popolo del Signore, i laici per primi allora si accorgono di aver bisogno della sacra gerarchia.
    Meditiamo un pochino su questo mistero del sacerdozio, il dono dell'episcopato, il dono gerarchico di essere Presule, come lo realizzò San Lorenzo Giustiniani.
    Un figlio accattone non è un bel vedere per la nobilissima famiglia Giustiniani, ornamento della Serenissima. Lui, Lorenzo, arriva a mendicare fin sotto casa: si è dato alla vita ascetica dopo una visione della Divina Sapienza. I servi corrono a riempirgli la bisaccia, purché si tolga di lì. Lui accetta soltanto due pani, ringrazia e continua. Il suo scopo non è l’“opera buona” in sé. E’, addirittura, la rigenerazione della Chiesa attraverso la riforma personale di chierici e laici. L’umiliazione del mendicare ha valore di "vittoria sopra sé stessi", di avversione alle pompe prelatizie, di primo passo verso il rinnovamento attraverso la meditazione, la preghiera, lo studio, l’austerità. L’intraprendente e battagliera Venezia del Quattrocento è anche un fervido laboratorio di riforma cattolica, destinato a portare frutti preziosi.
    San Lorenzo è nato nel 1381, morì nel 1456. Nacque a Venezia da una nobile ricca famiglia, ebbe un'ottima cultura, una cultura umanistica, perché già in quel tempo cominciava il rinascimento, san Lorenzo approfondì molto gli studi letterari e gli studi classici. Lui stesso candidamente confessa il suo cammino verso il Signore. Dice: "Anche io cercavo la pace" sembra di leggere certe pagine delle Confessioni di Sant'Agostino: "anche io cercavo la pace nelle cose esterne, cercavo la pace nelle cose mondane, ma non mi davo tregua". C'è poco da fare, cari fratelli, la nostra anima è fatta per Dio, è fatta per aver la pace dentro di sé, mediante la presenza di nostro Signore, divenendo tempio dello Spirito Santo, non per cercare la pace fuori di sé, in quelle cose che danno più turbamento che pace.
    Anche San Lorenzo ha fatto questa esperienza della caducità delle cose, le cose di questo mondo, ad un certo tratto, gli apparvero, alla luce di Dio, per quello che sono, cioè delle cose vili, abiette e tali da abbrutire l'anima piuttosto che sollevarla. In quel momento, molto agostinianamente, San Lorenzo Giustiniani dice di sé stesso che è entrato in sé ed ebbe (grazia singolare che il Signore concesse a questa santa anima) ebbe una grande visione, una stupenda visione, gli apparve una bellissima fanciulla, la quale gli diceva: "Io sono la Sapienza, la Sapienza del nostro Signore Gesù Cristo" e si sa che il Cristo è la stessa Sapienza del Padre. Tanto è vero che la stessa Sacra Scrittura, alludendo profeticamente alla venuta di Cristo e alla sua incarnazione, la scrittura dell'antica alleanza, sopra tutto i libri detti sapienziali, ci presentano la Sapienza come personificata, come ipostatizzata, come una persona. Anche San Lorenzo ebbe questa visione della Sapienza che in quel modo, allegoricamente, misticamente, gli diceva soavissime parole e che lo invitava a sposarla, a divenire suo sposo.
    Come San Francesco divenne lo sposo della povertà, così San Lorenzo Giustiniani divenne lo sposo della Sapienza di Dio. E fu fedele in questo casto matrimonio soprannaturale, fu sempre fedele alla sua sposa, la divina Sapienza. Tanto è vero che sua madre, che non era molto contenta della scelta del figliolo suo, cercava di procurargli una fidanzata su questa terra, tanto per distoglierlo da pensieri troppo soprannaturali.
    San Lorenzo rimase imperturbabile nella sua scelta, si mantenne fedele al servizio della divina sapienza, al servizio della verità.
    Nei suoi scritti, opere varie e sermoni c'è l'idea madre della Divina Sapienza, elemento dominante della sua mistica. Essa, negli scritti del periodo monacale, guida l'uomo al vertice della perfezione interiore e, degli scritti successivi, al vertice della vita episcopale.
    Scrisse un'opera molto bella intitolata appunto "De Casto Connubio", sul casto matrimonio, alludendo appunto a quel matrimonio dell'anima, alle nozze mistiche dell'anima con Dio tramite la divina sapienza, che poggia sull'esperienza della carità. È molto bello quello che dice in quel libro: "Dobbiamo parlare della nostra stessa esperienza, perché sarebbe temerario parlare degli effetti della carità, senza aver gustato la carità stessa". Vedete che cosa gli premeva: gustare la soavità e la dolcezza del Signore nella divina carità, la quale ci dà la sapienza, cioè l'esperienza mistica. soprannaturale, della presenza di Dio nella nostra anima. Questo era per lui l'alfa e l'omega di tutta la sua vita, l'essenza della sua stessa esistenza.
    Una volta convertitosi al Signore con tanto slancio di amore verso la divina Sapienza sua sposa, San Lorenzo Giustiniani si diede ad opere di ascetismo, ad opere di rinuncia di sé, alla mortificazione. Queste due cose si appartengono a vicenda, l'amore del Signore è una vera e propria estasi mentale, un uscire da sé per collegarsi, per unirsi con il Signore. Ma se così fa la nostra mente, il nostro spirito, esso per uscire da sé, deve staccarsi da sé. La morte spirituale, come nell'amore soprannaturale, nell'amicizia con Dio, è iscritta la Croce del Salvatore. La Croce non è un'opzione, la Croce è l'essenza dell'amore di Dio. Non si può essere amici di Dio e discepoli di Cristo, senza la Croce, senza la penitenza, anche la penitenza ricercata, quella che è follia per il mondo di oggi, in particolare per gli psicologi di oggi, i quali dicono che è tutto masochismo "ricerca del dolore per compiacersi del dolore", non hanno capito nulla. San Lorenzo certamente non si compiaceva del dolore per il dolore stesso, ma si sottoponeva al dolore per purificare l'anima sua, per abbracciare con più forza, con più veemenza la Croce di Cristo, sua salvezza! Vedete che cosa significa lo spirito di penitenza.
    Allora, in questo spirito di penitenza San Lorenzo anzitutto cominciava (lui che veniva da una famiglia piuttosto benestante) a chiedere l'elemosina per provvedere al suo sostentamento, cioè voleva anzi tutto fare la penitenza della povertà e dell'umiltà si dice che quando è arrivato a casa sua per fare la questua, la mamma voleva riempirlo di ogni bene di Dio, perché lui non facesse la questua in altre case. San Lorenzo non accettava mai più di due pani dai suoi, proprio perché cercava l'umiliazione, cercava l'umiltà della mendicità, per raccogliere poi tanti beni da distribuire anche ai poveri.
    Entrò nell'ordine dei Canonici Regolari di Sant'Agostino, di cui fu anche un grande riformatore. Una cosa molto bella, questo suo attaccamento a Dio, questa volontà di consacrarsi, di essere solo del Signore. Divenne frate agostiniano, canonico regolare di Sant'Agostino con questo intento di servire Dio e Dio solo e fece tanto bene ai suoi fratelli. A Venezia sorsero diverse comunità di questi canonici regolari, che si formarono come una vera e propria congregazione di frati, il cui capo era San Lorenzo Giustiniani, che governava con tanta bontà e nel contempo con tanta severità questi frati che meritò di essere rieletto diverse volte in questo incarico così delicato e così difficile.
    San Lorenzo non solo era chiamato a dirigere, a riformare queste comunità dei religiosi, che riformava in un duplice senso: le riformava sia attingendo alla tradizione monastica del passato sia anticipando quasi le splendide riforme future del Concilio di Trento, La Santa Chiesa di Dio è sempre così, le vere riforme attingono sempre al passato, le vere riforme non sono rivoluzioni, sempre sono restaurazioni. san Lorenzo di questo era un grande esempio.
    Lorenzo Giustiniani è diacono nel 1404, quando si unisce ad altri sacerdoti, accolti nel monastero di San Giorgio in Alga, per vivere in comune tra loro, riconosciuti poi come “Compagnia di canonici secolari”: sono i pionieri dello sforzo riformatore. Sacerdote nel 1407, due anni dopo è già priore della comunità di San Giorgio in Alga, continuando comunque a darsi alla preghiera, alla contemplazione, alla questua per le strade.
    Lorenzo ha scarse doti di oratore, ma “predica” con molta efficacia, da un lato, continuando a girare con saio e bisaccia; e, dall’altro, scrivendo instancabilmente. Scrive per i dotti e per gli ignoranti, trattati teologici e opuscoletti popolari, offrendo a tutti una guida alla riforma personale nel credere e nel praticare. Spinge i fedeli a recuperare il senso di comunione con tutta la Chiesa, anima la fiducia nella misericordia di Dio piuttosto che il timore per la sua giustizia.
    San Lorenzo non solo era chiamato a riformare i canonici regolari, ma anche a dirigere questa vasta Diocesi di Venezia, che allora non era ancora Patriarcato, il Patriarcato era legato alla città di Grado. Di lui si dicono cose meravigliose. Che cosa deve anzitutto fare un buon presule? Deve essere sé stesso, cioè deve essere anzi tutto Vescovo. Sembra una tautologia questa, (tautologia vuol dire ripetere due volte la stessa cosa) il Vescovo deve essere Vescovo, sembra una cosa banale, invece è una cosa importantissima. Se è preso da patemi di ordine populistico o qualche cosa d'altro, allora vive come un frate francescano, ma non fa più il Vescovo. Dice San Francesco di Sales che è una devozione indiscreta e sbagliata quella di chi vuole santificarsi in uno stato, seguendo le regole di un altro stato. Il frate francescano si santifica come frate francescano e il Vescovo come vescovo, cioè il Vescovo esercitando la sua autorità.
    Al giorno di oggi ci sono tanti equivoci, cioè si dice: "i Vescovi sono al servizio del popolo di Dio, l'autorità è servizio", è vero, ma il loro servizio particolare è quello di esercitare l'autorità, guai se desistessero dall'esercitare l'autorità, non potrebbero allora adempiere né quel servizio particolare, né nessun altro, perché a quel servizio Dio li ha chiamati, non ad un altro. Spesso ci sono delle umiltà apparenti, che non umiliano l'uomo ma piuttosto il suo ufficio, con grande detrimento del popolo del Signore.
    Sembrerebbe una cosa molto bella, uno dice: "Sono un presule, ma mi faccio semplice, non governo più la diocesi, se mai supplico i fedeli di stare buoni, mai con autorità". Allora un uomo così è umile o no? Apparentemente sì, ma in realtà, affatto, perché l'umile è obbediente alla volontà del Signore e se il Signore, nonostante la mia indegnità, vuole che io comandi, ebbene devo comandare, anche se non mi piace. Ecco allora come è importante che ci sia la vera umiltà, l'umiltà dell'obbedienza.
    Nel 1433 arriva la nomina a Vescovo, sebbene egli cerchi di evitarla, aiutato dai confratelli di San Giorgio in Alga: ma di lì viene anche Papa Eugenio IV, Gabriele Condulmer, che conosce benissimo Lorenzo e non dà retta ai suoi pretesti: la stanchezza, il compito troppo difficile...
    Eccolo perciò Vescovo “di Castello”, dal nome della sua residenza, che è un’isoletta lagunare fortificata, l’antica Olivolo, che riformò con zelo apostolico. Nel 1451, poi, Niccolò V sopprime quello che resta del Patriarcato di Grado, e dà a Lorenzo Giustiniani il titolo di Patriarca di Venezia: il primo. Grazie anche alla sua umiltà e santità seppe sanare la frattura tra la Chiesa e il potere civile.
    Vengono i tempi duri della lotta contro i Turchi. Nel 1453 cade in mano loro Costantinopoli, e "a Venezia è tutto un pianto, non si sa che fare", come scrive un testimone. Lorenzo Giustiniani va avanti con rigore nell’opera di riforma, inimicandosi qualche volta il Senato, altre volte i preti, e affascinando i veneziani che già lo tengono per santo.
    Dopo la sua morte, essi ottengono che il suo corpo resti sepolto per sempre nella chiesa di San Pietro in Castello. Lo canonizzerà, nel 1690, papa Alessandro VIII (il veneziano Piero Ottoboni), ma la pubblicazione ufficiale si avrà soltanto con Papa Benedetto XIII nel 1727.
    È bellissimo quello che dicevano i veneziani di lui. I veneziani dicevano, che non fu mai pesante. Questa breve frase, quanto mai significativa, indicava un uomo che non desisteva dall'autorità, governava, visitava la Diocesi, dava dei consigli, dava degli ordini, però nel contempo non fu mai pesante. Diceva San Tommaso che nei santi presuli c'è una certa imitazione di quel governo per eccellenza che è il governo di Dio sull'uomo. Qualunque governo umano, sia quello ecclesiastico che civile, dovrebbe imitare il governo di Dio, il quale è sommamente forte e perciò stesso sommamente soave.
    È cosa molto importante che i presuli capiscano che non sono scelti dal popolo di Dio, che non sono rappresentanti del popolo o della volontà popolare, debbono sì annullare la loro volontà umana, ma annullarla non davanti alle voglie del popolo, bensì davanti alla volontà di Dio, per il suo popolo! Ecco lì ci giochiamo tutto, ma davvero tutto. In passato c'era questa triade: Dio, il presule e il popolo. Oggi da quella triade è escluso Colui che è il più grande di tutti, cioè Dio. Sembra che ci sia solo una dialettica del popolo con i presuli e non è così, né mai potrà essere. San Lorenzo Giustiniani ci dà un grande esempio di questo, lui non si è mai considerato, alla stregua di un Rousseau, rappresentante della volontà del popolo, di quel dragone rosso che è il marxismo. L'inganno consiste nel fatto che ci si serve del popolo per ingannare il popolo. Si dice: "io sono rappresentante della volontà del popolo", ma di fatto poi, con molta facilità, sono rappresentante della volontà mia. Invece se sono rappresentante della volontà del Signore, non posso mai strumentalizzare Dio a me, perché i dieci comandamenti sono quelli, non cambiano.
    Se uno dice: "Io rappresento il Signore", poi non osserva nessuno dei dieci comandamenti, gli si può obbiettare: "Allora la tua pretesa non è del tutto fondata".
    Come è bello questo: nel passato c'era più autorità, ma meno autoritarismo. Perché? Perché quegli uomini, quei sovrani, quei presuli si annientavano, non davanti al popolo, ma davanti a Dio, per amore del popolo. Come dice Sant'Agostino: "Per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano". Ma Sant'Agostino non avrebbe potuto essere cristiano con noi, se non avesse voluto essere Vescovo per noi.
    Ecco come è importante chiedere al Cuore Immacolato di Maria che ci dia ancora dei presuli che annientino la loro volontà, non davanti alla volontà del popolo, che si muove come un'ameba capricciosa, nella quale si rivela questa volontà democratica alquanto perniciosa, alquanto persecutoria dei veri valori. È questo il guaio, questa desistenza dell'autorità ha fatto sì che coloro che rivestono l'autorità anziché educare il popolo, (che è un lavoro difficilissimo), educarlo a capire, a fare loro, ad appropriarsi dei veri valori, molto democraticamente cedono alla bruttura anziché alla bellezza, al male anziché al bene, perché il male, il brutto, il menzognero è sempre più facile del vero, del buono e del bello. Invece colui che è rivestito dalla autorità davanti a Dio e davanti a Lui annienta la sua volontà, per amore del popolo, allora insegna al popolo come elevarsi, faticosamente, verso Dio.
    Il popolo non glie ne sarà sempre grato, sapete, come dice Platone del mito della caverna, quell'uomo che, illuminato dalla luce del sole, che scende nella caverna per estrarre fuori anche i suoi compagni di prigionia, è malmenato, poverino, perché quelli sono abituati alle tenebre. Che grande compito è quello, che già l'antico filosofo ha scoperto e che è compito di ogni sacerdote, soprattutto di ogni Vescovo cristiano, quello non già di abbassare Dio alle voglie del popolo, ma elevare la volontà del popolo santo del Signore alla volontà di Dio che lo ha chiamato. Con questo voi capite che ogni buon presule deve poi continuare la tradizione della Chiesa, sposa di Cristo, fondata da Cristo.
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori II

    “Nessuna lingua umana può enumerare i favori dei quali è sorgente il sacrificio della Messa; il peccatore si riconcilia con Dio, il giusto diviene più giusto, sono cancellate le colpe, annientati i vizi, alimentati le virtù e i meriti, confuse le insidie diaboliche”
    "È più accetta a Dio la Santa Messa che i meriti di tutti gli Angeli"
    "Anche io cercavo la pace...anche io cercavo la pace nelle cose esterne, cercavo la pace nelle cose mondane, ma non mi davo tregua"
    (dagli scritti di San Lorenzo Giustiniani)

    "Dobbiamo parlare della nostra stessa esperienza, perché sarebbe temerario parlare degli effetti della carità, senza aver gustato la carità stessa"
    (San Lorenzo Giustiniani, "De Casto Connubio")
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