La conversione dell'imperatore romano Costantino muta profondamente le prospettive. Ormai favorita dal potere imperiale, la Chiesa cattolica prospera. Il cristianesimo, proclamato religione lecita nell'Impero nel 313, diventa ben presto, nel 390, religione di Stato. Le conversioni si generalizzano, anche se non è sempre possibile stabilirne l'assoluta sincerità. Ne deriva una percettibile tensione tra l'atteggiamento rigorista e intransigente degli antichi fedeli e quella, più lassista, di una parte dei nuovi convertiti, sospettati a volte di opportunismo. Lo sviluppo del monachesimo da una parte e, dall'altra, di dissidenze rigoristiche e gnostiche si spiega in parte come reazione alle nuove condizioni giudicate troppo favorevoli: la via della salvezza deve, agli occhi degli adepti, rimanere stretta, arida, austera, e poco frequentata. Il deserto, la solitudine, l'ascesi individuale o collettiva (ma liberamente scelta) sostituiscono le antiche persecuzioni imposte un tempo da un potere politico ormai protettore.

Un protettore a volte invadente, poiché l'imperatore intende dirigere sia l'impero sia la Chiesa. Ciò è chiaro fin dal 325, quando convoca egli stesso, a Nicea, il primo «concilio ecumenico» incaricato di definire gli articoli fondanti della fede cristiana ufficiale, quella che da questo momento in poi riceverà l'appoggio dello Stato romano.

In Occidente questa dottrina incontra un'adesione pressoché unanime: le decisioni di Nicea riflettono, in buona sostanza, la dottrina che, fin dalle origini, si è diffusa sotto la guida del vescovo di Roma, «patriarca dell'Occidente», che, con l'appoggio dell'imperatore, si va poco a poco imponendo come il «papa». In Oriente le cose vanno diversamente; lì gli altri patriarcati (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, a cui si aggiungerà in seguito Costantinopoli), più antichi e più popolosi, recalcitrano per due principali ragioni: essi non riconoscono il primato del papa di Roma, che l'imperatore vorrebbe imporre loro, e mettono spesso in discussione le definizioni dogmatiche prese a proposito della natura di Cristo. Seguiranno molti secoli di dispute dottrinali.

Mentre la Chiesa cattolica romana insegna che il Cristo, figlio incarnato di Dio, godeva su questa terra della piena «natura divina» (cosa quindi che definiva un Dio «uno e trino», la Santa Trinità), molti fedeli, soprattutto in Oriente, insistono con Ario sull'unicità di Dio, solo a essere eterno, solo non creato. Il Figlio, per Ario, non poteva dunque essere completamente eterno, «non creato»: in quanto «creatura divina», certamente eccezionale ma non «consustanziale al padre», Gesù non poteva essere «pienamente Dio» allo stesso modo del padre. La delicata questione della natura del Cristo avrebbe in seguito preso forme diverse e sottili, soprattutto in Oriente.

La dottrina ariana (arianesimo), condannata a Nicea da una maggioranza di vescovi orientali, si diffuse tuttavia ancora a lungo nell'impero e anche al di fuori di esso: molte popolazioni barbariche che invasero più tardi l'impero in Occidente, in particolare i Goti, erano state evangelizzate da missionari ariani e professavano l'arianesimo: furono quindi considerate «eretiche» dal clero occidentale.

Dopo aver sconfitto Licinio, suo rivale in Oriente, Costantino, verso il 332, decide di stabilire in Oriente una capitale più «centrale» di Roma. Essa avrà il suo nome. Fa quindi dono del suo palazzo del Laterano al vescovo di Roma (falso storico), che vi si trasferisce. Il sacco che subisce da Alarico nel 410 lascerà sbalordito nel mondo degli intellettuali.

Sotto Costantino, nella Chiesa, ci si può solo rallegrare dell'avvento di un impero romano divenuto cristiano. È forse la realizzazione di quelle profezie che predicono l'avvento del regno di Dio? Alcuni, forse, lo credettero, in una prospettiva materialista o per lo meno temporale. La grande maggioranza dei cristiani, però, continuò ad attendere il regno di Dio più perfetto, senza sofferenza né lacrime, un regno pienamente spirituale, libero dalle contingenze politiche. Questa speranza che era di pura tradizione biblica, adesso non poteva più esprimersi come prima. Due fatti ne provocarono il cambiamento.

Il primo è l'inevitabile processo di «spiritualizzazione». Il regno di Dio tanto atteso veniva fino a questo momento immaginato in maniera molto terrestre, per non dire materiale: era in un certo senso il regno del Bene sulla terra, una vita fisica libera da tutti i mali che la accorciano e la rendono faticosa o dolorosa. Una vita senza sofferenza, senza morte, senza malattie, senza nemici, senza la solita dominazione dei cattivi e degli empi. In poche parole, un regno di Dio costruito a immagine, sublimata, dei regni terreni. L'improvviso e imprevisto instaurarsi di un impero romano retto da un imperatore cristiano poteva certamente rendere comoda la vita dei fedeli... ma non poteva per questo portarli ad assimilare il nuovo impero al regno di Dio.

Quest'ultimo era assolutamente di altro ordine, di altra natura. La sua qualità spirituale infinitamente superiore condusse molto naturalmente i pensatori cristiani a spiritualizzarlo ulteriormente, a «smaterializzarlo», a farne il regno immateriale delle anime disincarnate. La crescente influenza della filosofia neoplatonica sui pensatori cristiani amplificò il fenomeno di disincarnazione del regno di Dio. Sant'Agostino rappresenta il punto di arrivo e la più piena espressione di questa nuova tendenza.

Il secondo elemento è l'inevitabile inflessione dell'attesa escatologica. Com'era possibile ormai comprendere che l'apparizione dell'Anticristo, preludio necessario ai tempi della fine, è legata all'indebolimento e alla scomparsa altrettanto necessaria di un impero romano ormai cristiano, quando esso fa così bene alla Chiesa e ai suoi fedeli? Può un cristiano insegnare che questo impero cristiano è destinato a scomparire presto, senza caratterizzarsi egli stesso come un suo nemico? L'attesa escatologica, quando si esprime, assume sempre più, per forza di cose, questa nuova doppia tonalità: è spiritualizzante fino all'estremo, e si esprime in modo molto meno «anti-romano». O, più esattamente, tende a volte a esonerare l'Impero romano - nella sua forma cristiana - da qualunque ruolo negativo nella realizzazione delle profezie.

La conversione di Costantino porta alla Chiesa la libertà, la prosperità e la pace. Essa non può che rallegrarsene, e vedere in ciò la realizzazione di un piano divino, malgrado il conflitto che comincia a sorgere: l'imperatore è al di sopra della Chiesa e può quindi dirigerla? Oppure, in quanto cristiano, deve essere sottomesso alle sue decisioni, e in particolare al vescovo di Roma, il papa?

Intorno all'imperatore, i dignitari ecclesiastici diventano sempre più numerosi. L'imperatore concede loro fiducia, e si appoggia alle strutture ecclesiastiche per governare. Nella cerchia dei suoi vicini molti scrittori cristiani si profondono in lodi. Costantino appare loro in modo assolutamente naturale come l'uomo della provvidenza, l'inviato da Dio, che ha sconfitto i suoi nemici grazie al segno della croce.

Nel 317 Costantino chiama come precettore di suo figlio un certo Lattanzio. Costui redige un vero e proprio panegirico di Costantino, unificatore e pacificatore dell'impero, liberatore della Chiesa. Ammette tuttavia che l'Impero romano debba finire, ma non immediatamente: la fine del mondo sopraggiungerà quando avrà raggiunto l'età di seimila anni. Secondo il suo metodo di calcolo, restano circa due secoli di storia umana, all'incirca fino all'anno 500.

Il panorama della storia futura, che egli tratteggia come i suoi predecessori, è ancora quasi totalmente conforme alla tradizione: Roma, che oggi governa il mondo, perderà in seguito il suo potere, che passerà in Asia. Lì apparirà un profeta che convertirà il mondo intero, ma sarà combattuto da un re empio venuto dalla Siria: questi ucciderà il profeta, governerà il mondo, si farà adorare come un dio e perseguiterà i fedeli. È l'Anticristo. Alla fine, quando questi ritornerà, sarà sconfitto da Cristo. Tutti i cattivi saranno allora catturati. Satana, il loro ispiratore, verrà legato per mille anni. I fedeli morti resusciteranno e si realizzerà su questa terra un millennio di pace e di abbondanza. Dopo questi mille anni, Satana sarà liberato dalla sua prigione. Radunerà le nazioni e condurrà un'ultima battaglia nei pressi di Gerusalemme. Attaccherà la città santa, ma sarà vinto, distrutto, e la terra purificata col fuoco per sette anni. Poi Dio creerà nuovi cieli e una nuova terra, sulla quale vivranno gli eletti trasformati, a imitazione degli angeli.

Lattanzio ritorna sul tema della Fine qualche anno più tardi. Ne precisa il processo e l'epoca: il tempo della Fine sopraggiungerà quando l'impero romano sarà suddiviso tra dieci re, di cui uno si impadronirà del potere, sconfiggerà altri tre re e si stabilirà in Asia. Sarà il segnale che la Fine è vicina. Questo empio avrà la pretesa di essere il Cristo, ma sarà in realtà il suo avversario e perseguiterà i giusti per quarantadue mesi, sterminando due terzi degli uomini. Gli altri fuggiranno nel deserto. Lattanzio applica chiaramente alla Chiesa la visione della donna minacciata dal drago che, secondo l'Apocalisse, fugge nel deserto per milleduecentosessanta giorni.

Eusebio di Cesarea, contemporaneo di Lattanzio, si allontana da questa percezione. È orientale, influenzato dai metodi esegetici allegorizzanti di Alessandria, e ha inoltre la tendenza a vedere in Costantino colui che compie alcune delle profezie bibliche. Egli attribuisce a Costantino una dimensione quasi messianica. Quando Elena, la madre di Costantino, ritrova miracolosamente la «vera croce di Cristo» e, per ordine di suo figlio, viene edificata la basilica della resurrezione a Gerusalemme, Eusebio non esita a descrivere questi luoghi santi con termini che traducono la presenza di Dio sulla terra: egli assimila questa Chiesa alla nuova Gerusalemme delle profezie bibliche. Eusebio glorifica smisuratamente Costantino, essere provvidenziale che, inviato da Dio, ha assicurato la vittoria della Chiesa sul paganesimo antico trasformando l'antico impero pagano in un impero romano cristiano. Si capisce bene che sarebbe inopportuno per lui evocare la scomparsa di questo impero come concepimento dei segni profetici...

Per lui, tutto ciò è da comprendere in senso spirituale. Egli rifiuta come «volgare» la credenza in un millennio, periodo reale di mille anni durante il quale Cristo e gli eletti regneranno «corporalmente» su questa terra. Egli la rifiuta a maggior ragione perché non crede all'autenticità del libro dell'Apocalisse. Questo per dire quanto poco interesse rivolga alle profezie in generale, e in particolare a quelle che riguardano la Fine del mondo. Una Fine che egli colloca in un'epoca lontana, verso l'anno 800.

L'interpretazione profetica resta essenzialmente storicizzante per tutta la durata dell'impero cristiano. Si assiste anche a una ripresa in questo senso alla fine del IV secolo, probabilmente collegata alle difficoltà politiche e sociali dell'epoca. In quel periodo la pace romana s'indebolisce, mentre si amplificano i disordini legati alle infiltrazioni barbariche. Si riafferma allora l'idea di una fine dell'Impero romano, e torna in auge il suo significato profetico, pur con qualche variante.

Nel 397 il vescovo africano Quinto Giulio Ilariano riprende l'interpretazione classica delle profezie: alla fine dell'Impero romano, dieci re si spartiranno il potere; sopraggiungerà poi un altro re più potente che l'avrà vinta su tutti loro, prenderà tutto il potere e lo consegnerà all'Anticristo, che perseguiterà i santi; il Cristo, tornato, metterà fine al suo regno e lo annienterà col fuoco, della sua bocca; poi verrà il millennio, periodo di mille anni durante il quale Satana sarà legato. Infine il regno di Dio governerà per l'eternità.

Qualche anno più tardi, verso il 407, San Girolamo condivide quasi totalmente questa convinzione, salvo per ciò che riguarda il millennio, di cui egli contesta l'esistenza. La sua epoca è turbolenta, e lo sarà ancor di più dopo il sacco di Roma ad opera di Alarico, nel 410. Già nel 407, quando scrive, orde di barbari hanno invaso l'impero in diverse ondate. A rischio di scontentare i potenti, Girolamo non esita a riaffermare la fine prossima dell'Impero romano, ultima potenza della profezia, che precederà la venuta dell'Anticristo. Ai suoi inizi, questo impero era infatti forte come il ferro... ad eccolo ridotto, oggi, a contare sui barbari per difendersi da altri barbari! È proprio lui la quarta bestia, come hanno insegnato gli autori che l'hanno preceduto: «verso la fine del mondo, quando l'Impero romano sarà in completa dissoluzione, verranno dieci re che si divideranno il mondo romano, e sorgerà poi un altro piccolo re, l'undecimo, che dei dieci re ne abbatterà tre, ossia quelli d'Egitto, d'Africa e d'Etiopia [...]».

Questa distruzione dell'Impero romano è quindi, ai suoi occhi, ineluttabile. È necessaria, poiché è lui a trattenere l'Anticristo. È anche morale, a causa dell'orgoglio di Roma, che Dio non sopporta più.

Qualche anno più tardi, a Girolamo preme giustificare la sua interpretazione che, è lecito sospettare, non è piaciuta ai potenti dell'impero o di ciò che ne resta, in particolare a Stilicone, che allora governa Roma. Egli rivendica il suo diritto a esporre la verità profetica, anche se è sgradevole.

Il sacco di Roma lo riempie di stupore, lo scandalizza e conferma le sue paure. Ciononostante si rifiuta di assimilarlo alla Fine del mondo, di cui è soltanto un segno, quello del previsto indebolimento dell'impero, destinato a scomparire. Girolamo non vuole fissare la data di questo avvenimento e combatte coloro che, nel suo tempo, insegnano che il mondo ha soltanto pochi anni di fronte a sé.

Quando i capi barbari si appropriano del potere e di alcune regioni dell'impero, l'inquietudine escatologica si amplifica. Se ne ritrova eco in un trattato anonimo composto probabilmente l'anno stesso del sacco di Roma. L'autore non ipotizza nessuna data precisa per la Fine del mondo, ma sottolinea che questo tempo è prossimo, imminente, poiché quasi tutte le profezie che l'annunciano si sono realizzate o si stanno realizzando in questo stesso momento: il Vangelo è predicato in tutte le nazioni; carestie, disordini e guerre intestine si moltiplicano; ovunque infuria la guerra, «i regni si oppongono ai regni, e genti inaspettate scacciano gli imperatori dai loro troni legittimi strappando loro di mano lo scettro», cosa che sembra alludere al fatto che i capi barbari prendono in mano il governo o la difesa di molte regioni dell'impero. Egli ne trae l'ovvia conclusione: l'abominio della desolazione sta per sopraggiungere, e l'Anticristo apparirà.

Nel 418, il prete Orosio, che era fuggito dalla Spagna prima dell'arrivo dei Vandali, si rifugia in Africa, dove scrive un'opera che ha lo scopo di dimostrare che i cristiani non sono affatto responsabili delle calamità che si abbattono sul mondo romano. Riprendendo a sua volta la ripartizione del profeta Daniele, egli suddivide la storia del mondo in quattro imperi, ma modifica leggermente l'interpretazione profetica precedente insistendo soprattutto sul primo e sull'ultimo impero, Babilonia e Roma. Egli sottolinea il significato profetico del sacco di Roma da parte di Alarico, ma non vuole per questo dedurne che la fine di Roma sia prossima. Come il suo maestro Agostino egli cerca innanzitutto di rassicurare i fedeli in questi tempi turbolenti. Per questo motivo minimizza il significato profetico delle invasioni barbariche. L'impero non sta per scomparire: Orosio infatti fissa l'incarnazione nell'anno 5199, e ammette una durata totale del mondo di seimila anni: la Fine del mondo sarebbe quindi ancora lontana, situata verso l'anno 800!

Peraltro, egli afferma, Dio non vuole la distruzione dell'impero. Lo prova il fatto che egli abbia permesso che fosse il goto Alarico a impadronirsi della città, invece del pagano Radagaiso, più feroce. E i Goti hanno risparmiato la maggior parte degli abitanti di Roma, contentandosi di saccheggiare la città. D'altronde, non sono forse cristiani o in procinto di diventarlo? Essi non sono altro che gli strumenti che Dio ha usato per castigare l'orgoglio romano. Se Dio ha permesso che i barbari entrassero in massa nell'Impero romano, è per meglio convertirli alla vera fede.

Tutto sommato, per rassicurare i fedeli turbati dalla realtà delle invasioni barbariche e inclini a vedere in esse la realizzazione delle profezie, Orosio svuota quasi completamente la loro interpretazione storicizzante tradizionale. Il segno più importante della Fine dei tempi non è più la caduta di Roma, ma la predicazione universale del messaggio cristiano.