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    Predefinito Liberalismo e socialismo democratico nell’epoca dei populismi

    di Paolo Bonetti – In “Nuova Antologia”, a. CLIII, fasc. 2285, gennaio-marzo 2018, Firenze, Polistampa, pp. 209-220.


    Chi, come chi scrive, crede ancora nei principi della democrazia liberale e nelle istituzioni politiche e giuridiche ad essi conformi, non può, però, non essere preoccupato da quello che appare oggi come il fenomeno sociale più inquietante e pericoloso per la sopravvivenza di queste istituzioni: il progressivo indebolimento economico e culturale di quel ceto medio che è stato, nella seconda metà del Novecento, il maggiore sostenitore della democrazia rappresentativa nei paesi industrializzati dell’Occidente. Oggi, dopo la grave crisi economica che abbiamo attraversato, quel ceto appare smarrito, incerto sul suo futuro e attratto da forme di partecipazione politica tanto confuse quanto velleitarie, oppure sospinto verso atteggiamenti di radicale rifiuto nei confronti di una politica incapace di far fronte ai problemi generati dalla crisi. Perché, se è vero che da questa crisi stiamo uscendo (l’Italia più lentamente e faticosamente di altri paesi), è altrettanto vero che una valutazione realistica dei nuovi rapporti economici che si sono stabiliti fra l’Occidente e altre parti del mondo un tempo appartenenti all’area del sottosviluppo ci induce a pensare che la crescita economica dei decenni passati e le aspettative di benessere da essa generate difficilmente torneranno. Non si tratta di arrendersi a una qualche forma di determinismo economico e di pensare i processi politici e culturali come del tutto condizionati dagli andamenti sussultori del ciclo produttivo, ma di essere consapevoli che la fiducia nelle istituzioni della democrazia liberale si è fondata in gran parte sulla convinzione diffusa che queste istituzioni fossero le più adatte per garantire a noi e ai nostri figli e nipoti un tenore di vita incomparabilmente superiore a quello delle società non ancora industrializzate. Le società dell’Occidente sono ormai entrate da tempo in una fase post-industriale, mentre gran parte del resto del mondo si va velocemente industrializzando e insidia sempre più quello che resta nei nostri paesi della vecchia società industriale. I mutamenti economici degli ultimi decenni hanno decomposto e ricomposto la nostra struttura sociale, fatto scomparire ceti sociali tradizionali per generarne di nuovi, frantumato i vecchi rapporti di classe, messo in crisi sindacati e partiti politici che su quei rapporti avevano fondato la loro stessa ragione di vita. Un vento impetuoso, quello della globalizzazione, ha frantumato la compattezza delle vecchie classi dando origine a fenomeni culturali di vero e proprio smarrimento delle antiche e rassicuranti identità. Quello che oggi chiamiamo populismo, e che richiede di essere pazientemente capito piuttosto che frettolosamente condannato, nasce da questo smarrimento e dall’ansia per un futuro di cui non si riesce ad intravedere il carattere, nonostante le molte attese e promesse generate dalle nuove tecnologie.

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    Predefinito Re: Liberalismo e socialismo democratico nell’epoca dei populismi

    Liberalismo occidentale al tramonto?

    Dopo la prima guerra mondiale e nella successiva epoca dei totalitarismi contrapposti, si fecero sempre più fitte ed insistenti le voci di un “tramonto dell’Occidente”, a cominciare da quella del filosofo tedesco Oswald Spengler, che scrisse sull’argomento un libro il cui successo andò ben oltre la cerchia dei filosofi di professione. Un libro discusso e discutibile per la sua apocalittica filosofia della storia, ma nel cui profetismo molti oggi sono tornati a vedere i sintomi di una crisi e di una decadenza ormai inarrestabili. Non ha le pretese filosofiche o pseudotali del libro di Spengler quello del giornalista inglese Edward Luce, già laureato a Oxford, poi collaboratore dell’amministrazione Clinton e attualmente editorialista del “Financial Times” si tratta, però, di un libro (Il tramonto del liberalismo occidentale, con introduzione di Gianni Riotta, Torino, Einaudi, 2017) che, con piglio decisamente e a volte superficialmente giornalistico, ma anche con una buona informazione e conoscenza diretta di problemi e situazioni, affronta un tema, quello della decadenza della nostra civiltà, che si è riproposto insistentemente negli anni recenti e che, dopo la grande crisi economica, è diventato ormai quasi un luogo comune e magari un alibi per indurci a una rassegnata contemplazione dell’ineluttabile. La diagnosi di Luce sulla condizione della società occidentale è quanto mai severa e la prognosi sulle sua prospettive future sostanzialmente infausta, anche se “con l’accelerazione della rivoluzione robotica e la diffusione dell’intelligenza artificiale, la situazione potrebbe cambiare: dobbiamo però stare attenti a ciò che vogliamo”. Il fatto è che “l’Occidente è sceso da quella scala mobile naturale che assicurava una crescita annua del 2 o 3 per cento che significava il raddoppiamento o più dei nostri standard di vita nel giro di una generazione, se non più in fretta”. Ce la passiamo tuttora, per quello che riguarda i redditi individuali, notevolmente meglio delle economie emergenti di altre aree del mondo come la Cina o l’India, sebbene le distanze si vadano accorciando, ma è caduta la speranza che le prossime generazioni godranno di un benessere molto superiore al nostro. Si comincia, anzi, a parlare di un inevitabile regresso, mascherato magari con l’illusione di una “decrescita felice”.
    Luce cita il sociologo americano Daniel Bell che, negli anni Cinquanta, aveva scritto che “la crescita economica è diventata la religione secolare delle società industriali avanzate”. Se questa religione comincia a rivelarsi illusoria, rischiamo oggi di trovarci di fronte a un equivalente dell’ateismo: “è un senso di apatia che si manifesta in molti modi. Nel mercato del lavoro, fa diminuire i tassi di partecipazione della forza lavoro. Come nelle società agnostiche la voglia di partecipare al culto cala, così nelle economie stagnanti la voglia di lavorare diminuisce. Nell’ultimo decennio, la quota delle persone impiegate a tempo pieno negli Stati Uniti è scesa sotto il livello europeo”. Luce è un liberal traumatizzato dalla vittoria di Trump e dalla Brexit e questo trauma si riflette ossessivamente in molte pagine del libro inducendolo a un pessimismo probabilmente eccessivo sul futuro dell’economia e dell’intera società occidentale, ma non c’è dubbio che molte sue critiche alle élite politiche, economiche e culturali che guidano o dovrebbero guidare i nostri paesi non mancano di cogliere nel segno. Significativo, a questo proposito, è il sarcasmo adoperato nei confronti dei convegni annuali di Davos, la città svizzera dove sono soliti riunirsi i potenti del mondo. Davos – scrive l’opinionista del “Financial Times” – “è specializzata nel proiettare nel futuro un passato recente che l’ha colta impreparata. Al riguardo nessuno è innocente, ma Davos ha fatto di un’azzimata saggezza convenzionale il proprio marchio di fabbrica”. Le parole d’ordine che le élite dell’Occidente lanciano coi loro proclami sono “parole a effetto – resilienza, governance globale, collaborazione multilaterale o piazza digitale” e sono la risposta meccanica ad ogni problema, indipendentemente dal problema preso in esame. In realtà – sostiene Luce – queste soluzioni preconfezionate dimostrano l’incapacità o la non volontà delle élite di ascoltare davvero le voci che si levano dalle viscere delle nostre società e manifestano una diffidenza sempre più marcata verso la pratica della democrazia. La prospettiva democratica viene rovesciata: sono le classi medie, sempre più arrabbiate, che debbono ascoltare più attentamente quello che dicono le élite e non avanzare richieste incompatibili con gli interessi dei grandi aggregati finanziari e produttivi multinazionali. Sono, quindi, le élite mondiali che “hanno contribuito a provocare ciò di cui avevano paura: una rivolta populista contro l’economia mondiale”. Luce si rende ben conto che l’alternativa della democrazia digitale, fintamente partecipativa, è “uno slogan vuoto”, mentre intanto avanza, in molti paesi del mondo, un’altra scelta sgradevole e pericolosa, quella di una qualche forma ammodernata di autocrazia. Quali realistiche possibilità di sopravvivenza possiamo ancora concepire per la democrazia liberale nell’epoca della globalizzazione profonda?
    Il pericolo che ci si possa avviare verso una “democrazia illiberale” esiste realmente, non è il semplice prodotto delle crisi depressive di qualche intellettuale. Come osserva Luce, la fiducia nelle nostre istituzioni politiche democratiche non era mai stata così scarsa dalla caduta dei totalitarismi che hanno funestato l’Europa della prima metà del Novecento, mentre si va perdendo la consapevolezza che la democrazia può funzionare “solo se viene controllata mediante un sistema che preveda diritti individuali, l’indipendenza del potere giudiziario, la separazione dei poteri e altri bilanciamenti”. Quella della democrazia liberale “è dunque la lotta di una continua tensione fra la teoria popolare della democrazia e un’idea liberale più complessa. Oggi, tale tensione è diventata una contrapposizione di forze. Ecco, quindi, il punto cruciale della crisi dell’Occidente: le nostre società sono divise fra la volontà del popolo e il governo degli esperti; la tirannia della maggioranza contro il circolo degli addetti ai lavori; Gran Bretagna contro Bruxelles; West Virginia contro Washington. Ne consegue che la vittoria di Trump, così come la Brexit, sono riaffermazioni della volontà popolare”. Possiamo anche considerare reazionaria questa volontà popolare di reclamare una sovranità perduta, ma resta il fatto, come dice Luce, “che Davos non è certo un fan club della democrazia. Dopo essersi appropriate di molti ambiti che un tempo erano sotto il controllo democratico (dalla politica monetaria al commercio, agli investimenti), dopo il 2016 il timore delle élite occidentali è di non essersi spinte abbastanza in là”. Se la storia “non è un’automobile col pilota automatico che porta l’umanità a una destinazione prestabilita”, occorre che coloro che si trovano alla guida si assicurino che anche “gli altri siano saliti in macchina”. Fuor di metafora, questo significa che la “reazione populista” non può essere semplicemente considerata un fenomeno regressivo che mette in pericolo “i diritti conquistati dalle donne, dalle minoranze etniche e dalle minoranze sessuali”. Forse è più ragionevole ed utile ascoltare attentamente quello che i movimenti populisti dicono: “alcune delle loro ansie sono culturali, altre economiche” – osserva ancora Luce – e “se scarichiamo metà della società perché pensiamo che sia ignobile, non perdiamo soltanto la possibilità che ci ascolti. Mettiamo anche in pericolo la democrazia liberale. Una cosa è convincere noi stessi che conosciamo il futuro, un’altra è ignorare quello che ci accade sotto gli occhi”.


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    Predefinito Re: Liberalismo e socialismo democratico nell’epoca dei populismi

    Le contraddizioni del liberismo

    Le accuse che Luce rivolge alle élite politiche ed economiche del mondo occidentale vanno naturalmente a colpire anche quella concezione della vita economica e sociale neoliberale o liberista che è stata l’ideologia dominante degli ultimi quarant’anni. Sostanzialmente emarginato nella prima metà del Novecento e sopraffatto poi, negli anni della grande crescita economica fra la fine della guerra e la prima crisi petrolifera, dalla costruzione, in molti paesi dell’Occidente, di uno Stato sociale a vocazione universalista, il liberismo ha ripreso vigore con la presenza di Reagan e, in forme ancora più intransigenti e radicali, con il nuovo indirizzo tory di Margaret Thatcher. Dopo la grande crisi economica della prima parte del nuovo millennio, gli entusiasmi liberisti, che avevano costretto anche i partiti socialdemocratici europei (a cominciare da quello britannico, che fa parte però di una tradizione diversa da quella continentale di matrice marxista) a rivedere metodi e programmi, si sono alquanto attenuati, per non dire spenti. Ma il maggior esponente novecentesco di quella che non è una semplice ideologia, ma anche una filosofia che investe tutti i settori della vita sociale, Friedrich von Hayek, merita ancora di essere letto con attenzione. L’opera del pensatore austriaco è ampia e complessa, ma c’è modo di accostarsi ad essa attraverso la lettura di alcuni saggi fondamentali raccolti ora da Lorenzo Infantino nel volume Competizione e conoscenza (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017). Fra questi saggi ce n’è anche uno, Gli errori del costruttivismo (si tratta di una conferenza tenuta a Salisburgo nel 1970), particolarmente significativo per capire il senso della battaglia di Hayek contro la pretesa di molti intellettuali e uomini politici di poter modellare le istituzioni della società e della civiltà a loro piacimento. I maestri e precursori di Hayek appartengono a una tradizione ben diversa da quella di un liberalismo interventista, per intenderci alla Keynes, con la sua pretesa di riequilibrare, mediante l’intervento statale, il ciclo economico. Questa tradizione è quella dei filosofi scozzesi del Settecento, Smith, Hume, Ferguson, che hanno capito, in contrapposizione al razionalismo di Cartesio e dei suoi seguaci, che “una larga parte delle formazioni sociali, pur essendo il risultato dell’azione degli uomini, non è dovuta alla progettazione umana”.
    C’è dunque, per Hayek, una ordine naturale e spontaneo, che egli chiama catallassi, frutto di complessi processi evolutivi e che non va turbato con gli inopportuni interventi riformatori di chi vorrebbe, in questo modo, realizzare una qualche giustizia sociale, di cui non si comprende bene il significato, ma di cui Hayek paventa le negative conseguenze per le nostre libertà. Nel saggio in questione, egli afferma che “la grande conquista della teoria economica è stata quella di aver riconosciuto, duecento anni prima della cibernetica, la natura di questi sistemi auto-regolati in cui alcune norme (o forse è meglio dire ‘vincoli’) di comportamento degli elementi hanno portato a un adattamento costante di tutto l’ordine a fatti particolari che in prima istanza riguardavano solamente gli elementi separati”. Quello che meno convince nelle teorie del filosofo ed economista austriaco è proprio questo suo evoluzionismo che sembra sfociare in un determinismo economico senza alternative, anche se non è in discussione la fede di Hayek nelle istituzioni liberali. Alcuni anni fa un suo interprete inglese, Andrew Gamble, in un libro dal titolo inglese molto efficace e significativo (Hayek. The Iron Cage of Liberty, Polity Press, Cambridge 1996), tradotto e pubblicato poi in italiano nel 2005 dal Mulino col semplice nome del filosofo, faceva notare come uno dei punti più deboli della teoria di Hayek sta proprio nelle contraddizioni in cui egli cade a causa della struttura di tipo evolutivo della sua concezione antropologica. Le difficoltà nascono dal “suo rifiuto di accettare molti aspetti della tradizione intellettuale dell’Occidente come componenti autentiche della medesima”. Eppure anch’essi sono parte integrante di quel processo evolutivo che ci ha condotti alla situazione presente e “per quanto Hayek voglia sostenere che il razionalismo costruttivistico non ha neanche diritto a esistere”, esso appartiene alla tradizione del pensiero occidentale degli ultimi quatto secoli. Ma le critiche di Gamble, che pure apprezza molti aspetti del pensiero di Hayek, mettono in discussione anche quella netta separazione che il pensatore austriaco compie fra autentica tradizione liberale e socialismo riformista: una delle chiusure ideologiche più inaccettabili della sua opera è proprio, con il tentativo settario di delegittimare un intero aspetto della tradizione culturale occidentale, la sua incapacità di “ravvisare gli stretti legami che intercorrono tra liberalismo e socialismo. Ben lontano dall’essere la negazione del liberalismo, il socialismo può essere considerato con buoni motivi parte del medesimo progetto del liberalismo, se non addirittura il suo compimento”. Naturalmente qui si parla di quel socialismo che, nel corso del secolo passato, non solo ha accettato di operare all’interno delle istituzioni liberali, ma si è anche conciliato con quel pluralismo economico (a cominciare dal riconoscimento del diritto di proprietà) che è parte necessaria, anche se non sufficiente, di una società che voglia sfuggire alla fascinazione totalitaria.
    Un’analisi acuta e complessa del neoliberismo di von Hayek e von Mises, condotta da un punto di vista filosofico-antropologico prima ancora che economico, è quella recente di Massimo De Carolis, uno studioso dell’Università di Salerno, in un libro (Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberismo e disagio della civiltà, Macerata, Quodlibet, 2017) che è anche una riflessione sulla politica e sulle dinamiche del potere nella storia del pensiero occidentale. De Carolis cerca di cogliere le radici antropologiche del pensiero neoliberale e vede in esse una contrapposizione al modello hobbesiano di società e di potere che è prevalso in Occidente a partire dalla formazione dello Stato assoluto. Come è noto, lo stato di natura è, per il grande filosofo inglese, una condizione da cui bisogna uscire se si vuole che la lotta di tutti contro tutti non si trasformi nell’annientamento reciproco dei contendenti. Di qui la necessità di uno Stato che dia origine, con la forza delle leggi positive, a quella che chiamiamo civiltà e che è poi l’ordine necessario per garantire ad ogni uomo sicurezza e vita. Il liberalismo classico, quello di Locke, pur rivendicando per gli individui alcuni diritti naturali nei confronti dello Stato, continua a muoversi in questa prospettiva. È il potere dello Stato che garantisce, in ultima istanza, questi diritti. Ma i filosofi dell’illuminismo scozzese a cui si ispirano i teorici del neoliberalismo – osserva De Carolis – avevano una diversa concezione dell’uomo rispetto a quella hobbesiana, un’idea di società “in cui lo scambio mercantile era già eletto a paradigma di ogni vero rapporto civile, in diretta opposizione alla barbarie del vassallaggio feudale”. Una società, insomma, capace di autoregolarsi attraverso l’ordine naturale e spontaneo del mercato. Ma questa concezione ‘pacifista’ e ‘borghese’ della società – è questa la contestazione di fondo che muove De Carolis al neoliberismo – tende “semplicemente a oscurare il problema di fondo sollevato da Hobbes: quello di una prima, collettiva neutralizzazione dello stato di natura, necessaria perché patti, scambi e contratti possano avere davvero valore”.
    Il pensiero neoliberale si batte per il potenziamento della società nei confronti dello Stato e questo potenziamento deve essere inteso non solo in senso strettamente economico, ma anche come spinta alla creazione e alla innovazione in ogni settore della vita sociale. Il neoliberalismo, come abbiamo già detto, è una concezione antropologica prima ancora che una teorica economica. In realtà, secondo De Carolis, i più recenti sviluppi del sistema politico-economico mondiale hanno mostrato, contrariamente alle attese del neoliberalismo, che ad essere tutelato è stato, piuttosto, “l’insieme delle relazioni di potere cristallizzate all’interno della società”. Per i neoliberali vi sono “due sole modalità opposte di coordinazione tra gli esseri umani, da un lato il comando, il dominio o la coercizione, dall’altro la coordinazione libera”. Essi non sono, però, consapevoli che, nella società contemporanea, le relazioni di potere non si riducono alla semplice coercizione: il nuovo potere tende ad “ampliare l’orizzonte delle possibilità e a favorire la dinamicità dei rapporti sociali”, ma questa libertà di scelta, queste possibilità sono in realtà preventivamente manipolate secondo gli interessi dei nuovi feudatari, i grandi aggregati economico-finanziari. Lo schema neoliberale fallisce perché non si pone seriamente il problema del potere nella società contemporanea: contrariamente a quanto esso lascia intendere, “a minacciare l’ordine civile non è insomma l’opposto della libertà ma il suo rovescio; la capriola con cui il governo delle possibilità si capovolge da se stesso nel controllo preventivo delle scelte, fino a esigere la garanzia dell’obbedienza e della fedeltà assoluta”.
    Si può anche non condividere questa analisi di De Carolis sul potere totalitario esercitato dal nuovo capitalismo, con mezzi comunicativi e persuasivi sempre più raffinati, nei confronti della società civile, ma resta il fatto incontestabile che questa società, anche liberata dalle vecchie ingerenze statali e dal fardello del welfare, più che regolata dall’ordine cosmico di cui parla l’antropologia neoliberale, appare guidata e condizionata da aggregati di potere economico, finanziario e burocratico-tecnocratico che giustamente hanno fatto parlare di rifeudalizzazione, che è cosa ben diversa da un autentico pluralismo liberale. È quanto accade – osserva De Carolis – “con le lobby, con gli intrecci indebiti tra la politica e gli affari, con tutta la rete di relazioni torbide” che, anche per la scuola tedesca degli ordoliberali, richiedono urgentemente una qualche azione di controllo. Ritorna così in primo piano il problema dello Stato e delle forme di governo di una società che non può essere lasciata alla semplice logica del mercato, perché questa logica, come l’esperienza ci insegna, non garantisce ai cittadini il godimento di tutte quelle libertà che, lungi dall’essere naturali, sono nate e si sono rafforzate in un rapporto dialettico e creativo con l’ordinamento statale. Oggi questo ordinamento si rivela per tanti aspetti insufficiente a contenere un dinamismo sociale ed economico che fuoriesce dai suoi confini, ma questo non è un motivo valido per negarne la necessaria funzione di garanzia delle nostre libertà. In quali modi e con quali istituzioni è materia del contendere politico, ma certamente nessuna società, per quanto libera e creativa, può sopravvivere e prosperare con la semplice autoregolazione degli interessi. Non ci possono essere Locke e neppure i neoliberali, se prima non c’è Hobbes.


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    Predefinito Re: Liberalismo e socialismo democratico nell’epoca dei populismi

    La crisi del socialismo democratico e l’utopia libertaria

    Se il neoliberalismo che, fin dalle origini, si è duramente contrapposto non solo a comunismo e fascismo, ma anche a quel socialismo democratico che si è progressivamente trasformato in riformismo liberale, non appare in grado di affrontare efficacemente la sfida populista, neppure la socialdemocrazia europea sembra capace di contenere la spinta dei nuovi movimenti politici che riflettono le profonde trasformazioni della società post-industriale, con la nascita di nuovi ceti e il deperimento di quelli legati al vecchio sistema produttivo. Eppure, come scrive Valerio Castronovo nel suo saggio su L’autunno della sinistra in Europa (Bari-Roma, Latenza, 2017), “agli esordi del Ventunesimo secolo, la sinistra era saldamente insediata al timone dei principali paesi europei, con il socialista Lionel Jospin in Francia, il socialdemocratico Gerhard Schröder in Germania, il laburista Tony Blair in Gran Bretagna, l’ex comunista Massimo D’Alema in Italia, il leader del Partito del lavoro Wim Kok in Olanda. E altri esponenti della galassia socialista avrebbero continuato ad occupare la ribalta politica”. Tuttavia, in questa situazione di apparente egemonia venivano affacciandosi nuovi problemi che la sinistra riformista era chiamata ad affrontare uscendo da una tradizione politica ormai usurata e bloccata. La rivoluzione tecnologica in corso stava producendo “larghe brecce nelle vecchie roccaforti del lavoro dipendente; mentre la crescita di quello autonomo di fascia più alta non era tale da bilanciare la perdita di posti di lavoro nelle fabbriche”. Bisognava prendere consapevolezza – nota ancora Castronovo – del passaggio da un capitalismo di proprietari-imprenditori a quello di finanzieri-manager e della liberalizzazione dei mercati, che intensificava la competizione fra i produttori con benefici per i consumatori, ma che imponeva anche lo smantellamento di taluni monopoli pubblici e la rinuncia a tradizionali protezioni corporative. Il punto dolente per la sinistra socialriformista diventava così la riforma di quel welfare che era stato lo strumento con cui essa aveva contribuito a legare vasti ceti popolari alle istituzioni della democrazia liberale. Bisognava rendere meno costosi la sanità e il sistema previdenziale e rivedere l’interventismo economico pubblico anche in seguito alla firma del trattato di Maastricht e di altre prescrizioni della Comunità europea.
    Dopo il trentennale ciclo di espansione economica che era seguito alla seconda guerra mondiale, stava finendo quella che era stata chiamata “l’era delle aspettative crescenti” e le necessarie riforme del welfare minacciavano di erodere il consenso socialdemocratico e di accrescere quello delle destre populiste pronte a intercettare il disagio sociale dei ceti emarginati dalla globalizzazione liberista. Il rischio era soprattutto quello di “perdere il contatto sia con una massa di giovani per i quali il posto fisso era già da tempo un’astrazione, e che erano perciò esclusi dal sistema vigente delle garanzie sociali, sia una miriade di nuove figure del mondo del lavoro, fuori dal perimetro d’azione dei sindacati, operanti nell’area delle professioni, dei mestieri e delle microattività autonome”. Nell’analisi di Castronovo, i tentativi della sinistra riformista di fronteggiare o addirittura guidare il mutamento tecnologico e socioeconomico sono stati di tre tipi: in Inghilterra il New Labour di Tony Blair, con la “terza via” teorizzata dal sociologo Anthony Giddens, ha cercato di realizzare “la redistribuzione del lavoro tra vecchie e nuove generazioni nell’ambito di una realtà poliedrica e multiforme”, proponendo una nuova “etica della vita” meno legata al vecchio assistenzialismo e maggiormente capace di adattarsi a situazioni economiche non più stabili e prevedibili. Al contrario, il socialismo francese ha cercato di “mantenere in vita un modello di sviluppo imperniato sul welfare, quale lo si era costruito nel secondo dopoguerra, e sulle prerogative dello Stato, anche se non al punto di lasciare tutto come prima”. La socialdemocrazia tedesca di Schröder ha condiviso con Blair l’esigenza di una modernizzazione del socialismo riformista da realizzare rendendo “più flessibili i meccanismi dell’economia, per assecondare lo sviluppo di nuove risorse e di nuovi settori”, senza però rinunciare a un’azione regolatrice dello Stato e a determinati ammortizzatori sociali, dal momento che il mercato non garantisce di per sé una crescita economica durevole e un sistema sociale equo. La globalizzazione crescente e la perdita di potere degli Stati nazionali hanno progressivamente indebolito le politiche economiche dei partiti socialdemocratici, messi in crisi anche dal fenomeno dell’immigrazione che ha inciso, in modo particolare, sulle condizioni di vita dei ceti più deboli. Oggi la socialdemocrazia, più che dai gruppi massimalisti che si agitano alla sua sinistra e che raccolgono consensi assai limitati, è messa in crisi da quello che Castronovo definisce “un nuovo spettro”, il nazional-populismo: la destra radicale (ma ad essa si aggiungono anche movimenti politici “trasversali” di incerta identità politica, come in Italia il M5S) ha buon gioco quando demagogicamente agita i temi dell’immigrazione e quelli della disoccupazione e della criminalità che ne sarebbero l’inevitabile conseguenza. C’è poi il rancore di coloro che accusano i partiti socialdemocratici al governo e gli altri partiti europeisti di aver sacrificato “la sovranità e l’identità nazionale sull’altare dell’euro e del mercato unico, considerate altrettante creature artificiali”.
    Quello dell’Europa che non riesce a diventare una nazione, vale a dire un organismo unitario e non un semplice aggregato di Stati tenuti assieme da vincoli economici a cui spesso riluttano, ma privi di un indirizzo politico ed economico unico e coerente, non è certamente un problema inventato dai movimenti antieuropeisti: questa trasformazione a metà degli Stati nazionali europei in un organismo più vasto rende comunque impraticabili le tradizionali politiche di stampo keynesiano messe in atto dalle socialdemocrazie, che stanno così perdendo la loro vecchia identità, senza averne acquistata davvero una nuova, incerte fra la strada di un realistico riformismo liberale e la speranza di potere ancora mantenere, con le politiche dello Stato assistenziale, il consenso di ceti sociali che si stanno allontanando da loro. D’altra parte, neppure la sinistra massimalista, come già detto, sembra in grado di trattenere questo consenso, dal momento che continua a ragionare secondo schemi che non tengono conto dei mutamenti che il nuovo capitalismo ha prodotto nel tessuto sociale, scompaginando le vecchie distinzioni di classe. Accade così che, nella grande confusione ideologica della sinistra, spunti di nuovo il mito di una società al tempo stesso libertaria ed egualitaria, insomma “una società senza padri” e senza nessuna forma di autorità, né familiare né religiosa né politica. Non per nulla si celebrano quest’anno i cinquant’anni da quel ’68 che fu indubbiamente una rivoluzione sul piano del costume, con effetti anche politici, ma nulla produsse di solido e duraturo per quello che concerne la struttura economica e gli ordinamenti giuridici delle società occidentali. Eppure c’è chi ancora torna a sognare quella utopia e addirittura vede già i primi consistenti segni di un mondo liberato dalla dittatura dei padri. Che la figura del padre di famiglia sia oggi in crisi, e con essa ogni forma di paternalismo, non si può certo negare, ma quello che si avverte in molti è piuttosto il rimpianto della paternità e di una sua autorevolezza magari da conquistare in nuove forme, ora che la rivoluzione femminile (l’unica vera rivoluzione del Novecento, diceva Bobbio) ha profondamente modificato i rapporti familiari e di conseguenza sociali.
    Per Marco Marzano e Nadia Urbinati, invece, questo bisogno di ritrovare l’autorità nella famiglia e nella società (si veda il loro saggio su La società orizzontale. Liberi senza padri, Milano, Feltrinelli, 2017) è soltanto la nostalgia sterile di chi non si è ancora accorto che il mondo sta marciando verso una “società orizzontale” in cui non ci sono né padri né maestri, non ci sono gerarchie di alcun genere e tutti cooperano liberamente su un piano di eguaglianza. Marzano e Urbinati ammettono la diversità delle funzioni sociali e dei gradi di responsabilità, ma non per questo ritengono che “si debba instaurare una relazione gerarchica di diseguaglianza di potere” e che ci sia “la necessità di un capo che giudichi e separi, che sanzioni e premi senza rendere conto ai suoi subordinati ma solo a un’altra autorità a lui superiore”. Questa è certamente una questione sostanziale nella definizione dei caratteri di un sistema politico democratico, che non si risolve, però, con la eliminazione di quelle élite, non solo politiche ma anche economiche e culturali, a cui spetta, in ultima istanza, l’onere della decisione nei vari settori della vita sociale, tenendo debitamente conto degli interessi e delle aspirazioni di coloro sui quali ricadranno le conseguenze delle scelte fatte. Ogni società complessa, per quanto democratica, ha bisogno di queste élite e l’illusione del governo di tutti si è più volte rovesciata nella dura realtà del suo contrario. Non esiste una scienza del bene comune e bisogna diffidare di coloro che di essa si ritengono i depositari, ma esistono competenze che nessun voto democratico può cancellare, esistono insomma i tanto detestati “maestri” dai quali bisogna avere l’umiltà di imparare. Marzano e Urbinati cercano di coniugare il massimo di libertà individuale con il massimo di eguaglianza, ma per rendere credibile questo sogno occorre di nuovo, nell’utopia libertaria come in quella liberista o marxista, dimenticare Hobbes e accantonare il problema del governo necessario per indurre gli uomini alla cooperazione, senza però dimenticare la loro naturale propensione, per tanti aspetti benefica e da non castigare, alla gara e al conflitto. L’ambigua natura umana è culturalmente plasmabile, ma non al punto di trasformare il mondo in un giardino edenico. La filosofia e il sociologo si battono per una società che non escluda nessuna “diversità”, che “riconosca il diritto di ciascuno a intraprendere un proprio, singolare, percorso esistenziale”, a distinguersi felicemente da ogni altro, “marginalizzando la rilevanza di virtù un tempo centrali come la disciplina e l’obbedienza”. Programma generoso col quale è difficile non consentire. E, tuttavia, bisogna porsi la domanda inquietante se la mia felicità e la mia libertà non vadano talvolta a collidere, anche pesantemente, con la libertà e la felicità degli altri. Possono allora sorgere problemi che le istituzioni delle società liberali hanno risolto nei modi che sappiamo, certamente imperfetti e da aggiustare continuamente per tener dietro ai cambiamenti della vita che non si arresta. Che cosa propongono, invece, i libertari di destra e di sinistra, al posto di queste istituzioni? Non è chiaro.


    Paolo Bonetti
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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