di Paolo Bonetti – In “Nuova Antologia”, a. CLIII, fasc. 2285, gennaio-marzo 2018, Firenze, Polistampa, pp. 209-220.
Chi, come chi scrive, crede ancora nei principi della democrazia liberale e nelle istituzioni politiche e giuridiche ad essi conformi, non può, però, non essere preoccupato da quello che appare oggi come il fenomeno sociale più inquietante e pericoloso per la sopravvivenza di queste istituzioni: il progressivo indebolimento economico e culturale di quel ceto medio che è stato, nella seconda metà del Novecento, il maggiore sostenitore della democrazia rappresentativa nei paesi industrializzati dell’Occidente. Oggi, dopo la grave crisi economica che abbiamo attraversato, quel ceto appare smarrito, incerto sul suo futuro e attratto da forme di partecipazione politica tanto confuse quanto velleitarie, oppure sospinto verso atteggiamenti di radicale rifiuto nei confronti di una politica incapace di far fronte ai problemi generati dalla crisi. Perché, se è vero che da questa crisi stiamo uscendo (l’Italia più lentamente e faticosamente di altri paesi), è altrettanto vero che una valutazione realistica dei nuovi rapporti economici che si sono stabiliti fra l’Occidente e altre parti del mondo un tempo appartenenti all’area del sottosviluppo ci induce a pensare che la crescita economica dei decenni passati e le aspettative di benessere da essa generate difficilmente torneranno. Non si tratta di arrendersi a una qualche forma di determinismo economico e di pensare i processi politici e culturali come del tutto condizionati dagli andamenti sussultori del ciclo produttivo, ma di essere consapevoli che la fiducia nelle istituzioni della democrazia liberale si è fondata in gran parte sulla convinzione diffusa che queste istituzioni fossero le più adatte per garantire a noi e ai nostri figli e nipoti un tenore di vita incomparabilmente superiore a quello delle società non ancora industrializzate. Le società dell’Occidente sono ormai entrate da tempo in una fase post-industriale, mentre gran parte del resto del mondo si va velocemente industrializzando e insidia sempre più quello che resta nei nostri paesi della vecchia società industriale. I mutamenti economici degli ultimi decenni hanno decomposto e ricomposto la nostra struttura sociale, fatto scomparire ceti sociali tradizionali per generarne di nuovi, frantumato i vecchi rapporti di classe, messo in crisi sindacati e partiti politici che su quei rapporti avevano fondato la loro stessa ragione di vita. Un vento impetuoso, quello della globalizzazione, ha frantumato la compattezza delle vecchie classi dando origine a fenomeni culturali di vero e proprio smarrimento delle antiche e rassicuranti identità. Quello che oggi chiamiamo populismo, e che richiede di essere pazientemente capito piuttosto che frettolosamente condannato, nasce da questo smarrimento e dall’ansia per un futuro di cui non si riesce ad intravedere il carattere, nonostante le molte attese e promesse generate dalle nuove tecnologie.
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