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    Predefinito Intervista di Oriana Fallaci a Pietro Nenni (1971)




    In Oriana Fallaci, “Intervista con la storia”, Rizzoli, Milano 1977 (1994), pp. 260-284.


    Chiuso in una torre d’avorio che non gli si addiceva, il gran vecchio partecipava ormai scarsamente alla vita politica cui aveva dedicato tre quarti dei suoi ottant’anni e cui dette tutto ciò che può dare un uomo. Perfino una figlia, morta nel campo di sterminio di Auschwitz dopo ver scritto ai compagni francesi: “Dites à mon père que je n’ai jamais trahi ses idées”. Dite a mio padre che non ha mai tradito le sue idee. Da quella torre d’avorio, che a intervalli era la sua casa di Roma e a intervalli la sua casa di Formia, usciva solo per recarsi in Senato. Lo avevan fatto senatore a vita, e aveva accettato la carica con molte esitazioni: lui che era stato sul punto di venire eletto presidente della Repubblica. Nel Partito socialista ormai contava come una bandiera che si sventola quando fa comodo e che quando non fa più comodo si rinchiude dentro un cassetto. Non era riuscito. Aveva perduto la sua battaglia e l’aveva persa male, in amarezza e inconfessato disgusto. Uscendo dalla sala del congresso, era il 1968, lo avevano udito mormorare: “Qui Nenni non ha più amici”. Peccato. Avrebbe avuto ancora tanto da dire, da salvare. L’età gli aveva dato solo un’effigie da patriarca stanco, pel resto era in ottima forma. Si alzava ogni mattina alle sette, i giornali li leggeva pedalando sulla sua cyclette per un tempo che equivaleva al tragitto di cinque chilometri. A bocce giocava con la foga di un giovinetto: i medici lo guardavano con stupore incredulo. Ma il meglio del meglio, in quell’organismo di leone nato per non arrendersi, restava il cervello. Gli funzionava ancora come un computer.
    Gran parte del tempo lo passava a studiare, a scrivere. Lavorava a un libro che doveva essere la sua biografia e che, nel suo pudore a parlar di se stesso, finiva col non esserlo. Voleva intitolarlo Testimonianza di un secolo. Molti si chiedevano se, giunto all’ultimo capitolo, egli avrebbe detto ciò che ora non voleva dire o diceva senza chiarezza: cioè che il suo socialismo non era più quello di cinquant’anni fa, e neanche quello di venticinque anni fa. Era ormai un socialismo che rifiutava i dogmi, gli schemi, le formule astratte; in compenso si nutriva di fede cieca nella libertà, nella democrazia, nell’uomo. Eresie imperdonabili per un vero marxista. Se lo agguantavi sul tema, lui sviava l’argomento. O ricorreva a discorsi contorti, vaghe ammissioni che subito dopo ritirava. Ma la verità non gli sfuggiva: s’era accorto che il mondo non è retto soltanto dall’economia, che il capitalismo di Stato non è diverso dal capitalismo privato e sotto vari aspetti è ancor più dispotico perché si sottrae alle leggi della critica, del mercato, della concorrenza. S’era accorto che la dittatura del proletariato è una frase e basta, che contro il padrone Agnelli si lotta e contro il padrone Stato no: come dimostrano gli operai massacrati a Danzica e a Stettino, gli intellettuali imprigionati o messi in manicomio a Mosca e a Leningrado. “Io mi sento più a mio agio a Stoccolma che a Leningrado” diceva. Ed era la sola frase senza compromessi con cui osava interrompere la sua reticenza. S’era innamorato del socialismo svedese che non ha abolito la proprietà privata ma ha dato all’uomo più di quanto abbia dato il socialismo dottrinario e scientifico. E, forse, gli era risorto l’amore giovanile per un’anarchia interpretata come difesa del singolo. Chissà quali tormenti una simile scoperta gli era costata e gli costa. Chissà quali notti insonni, quali angosce causate da scrupolo verso coloro di cui fu maestro. Giunto al termine della sua vita, egli soffriva e soffre un dramma paragonabile al dramma dei teologi che scoprono di non creder più in Dio. O di non credere più nella Chiesa, anche se credono ancora in Dio.
    Alla sua lucidità, alla sua saggezza, chiesi di parlarmi e illustrarmi ciò che accade nell’Italia degli anni Settanta. E lui lo fece: con una conversazione durata più giorni e frantumata in più incontri. La sua salute non era perfetta, così lo incontravo nella sua casa di Formia, dove si recava per ogni pretesto o weekend, oppure nella sua casa di Roma che era all’ultimo piano di un edificio in piazza Adriana. Di regola parlavamo un poco al mattino, dopo che aveva fatto la sua partita a bocce, e ci interrompevamo al momento di andare a tavola. Qui mangiavamo senza fretta, aiutati da un buon vino francese, e poi lui andava a dormire. Verso le quattro o le cinque si riprendeva: lento come il suo parlare. A ogni domanda rispondeva con lentezza esasperante, staccando ogni parola dall’altra come se dettasse a una segretaria, indugiando sui punti e le virgole, ignorando il tempo dell’orologio. E il tramonto ci coglieva così, in quel procedere prolisso di frasi, di idee che tuttavia mi rapivano al punto di dimenticare d’accender la luce. Ricorderò sempre una seduta che si concluse al buio, e nessuno dei due s’era accorto che fosse sceso il buio. Eravamo nel suo studio di Formia che era una piccola stanza arredata solo con un divano letto, una scrivania, una libreria e due sedie. Entrò Pina, la sua governante, e ci sgridò: “E che? Ora si chiacchiera come i ciechi?”. Altre volte, invece, il tramonto ci colse nel suo studio di Roma che era altrettanto piccolo ma assomigliava piuttosto a un sacrario. Qui, sul divano letto, c’era un grande ritratto ad olio di sua moglie defunta e poi ci sono le fotografie di Vittoria: la figlia morta ad Auschwitz. Ma non fotografie normali, di un giorno felice: fotografie scattate al suo ingresso nel campo di sterminio, col grembiule a righe dei detenuti, il numero in basso. Una di faccia e una di profilo. Mi son sempre chiesta perché. Forse per non dimenticare mai, in nessun momento, e meno che mai al momento di chiudere gli occhi nel sonno e riaprirli, il sacrificio di sua figlia? Nello studio di Roma gli incontri avvenivano soprattutto per riesaminare e discutere la trascrizione dei dialoghi incisi sul magnetofono a Formia.
    Non è facile intervistar Pietro Nenni, chiunque lo sa. Giornalista lui stesso, anziché farsi intervistare preferirebbe intervistarsi e poi stender da solo l’articolo: onde misurare ogni frase, ogni aggettivo, ogni virgola, e subito dopo, magari, cancellare ogni cosa, ricominciare daccapo. Non è mai contento di quello che scrive. Quand’era direttore dell’ “Avanti!” si costringeva a buttar giù i suoi pezzi in tipografia, coi minuti contati, onde impedirsi correzioni in extremis. Figuriamoci, dunque, se può esser contento di quello che dice in un magnetofono. “Questa sua macchina mi piace poco, è pericolosa.” Se lo intervisti a più riprese, come me, l’indomani lo trovi affogato in un mare di fogliettini colmi di scarabocchi, messe a punto, richiami. Levando l’indice rugoso li legge, e immancabilmente è una nuova versione di ciò che t’aveva detto: controllata, purgata, sciupata. Più che leggerla però te la detta e, dopo averla dettata, vi aggiunge modifiche supplementari. Prolisse. “Tolga quell’io. Non sta bene dire io, io, io. Tolga quegli essi, ci metta noi. Non sta bene che dia agli altri le colpe che sono anche mie.” Vorresti arrabbiarti e invece ti commuovi: è un tale galantuomo, un tale professore di onestà. E anche un tale professore di generosità: allorché giudica gli altri teme sempre di offenderli. Mi pregò di non scrivere un giudizio su Churchill, uomo che non gli piacque mai per il disprezzo che mostrava verso tutti, onde non sembrare ingiusto. “In fondo, senza di lui, oggi non potremmo stare qui a parlare.” Churchill, Stalin, De Gaulle, Mao Tse-tung, Krusciov, Kennedy, Nixon, Gramsci, Turati, Malatesta, Elisabetta d’Inghilterra: dalla sua vita son passati tutti e non superficialmente. “Ricordo quando Mao mi disse… Ricordo quando De Gaulle mi disse…” E l’episodio del giorno in cui gli toccò di salire, lui repubblicano, sul cocchio d’oro di sua altezza reale la principessa Margaret: “No, quello non me lo faccia ricordare”. E quello del giorno in cui volavano farlo sedere accanto all’ambasciatore greco a un pranzo ufficiale. E lui cambiò di posto, indignato. “Ah, che sofferenza, che angoscia. Mi aveva preso lo stomaco.” Ascoltarlo è un piacere che va preso come un regalo. Scrivere ciò che s’è ascoltato invece è un tormento che va preso come un castigo.
    Così, al momento di comporre questa intervista, mi trovai dinanzi a un problema di coscienza: comporla a modo mio o a modo suo, raccontare tutto ciò che mi aveva detto prima dei suoi ripensamenti o riportare solo ciò che il suo scrupolo esasperato mi domandava? Problema grosso quando si rispetta un uomo nella misura in cui rispetto lui ma allo stesso tempo si crede al proprio lavoro come a un dovere. E, per alcuni giorni, me ne tormentai: ora decidendo di far ciò che lui voleva e ora decidendo di disubbidirgli. Risolsi il dilemma, alla fine, con una specie di compromesso. E cioè componendo l’intervista come sembrava giusto a me, allo stesso tempo accettando alcune delle sue raccomandazioni.

    ***

    La cosa riuscì. Dopo avere letto il giornale Nenni mi disse che non avevo tradito né il suo pensiero né lui. E fu l’avvio di un’amicizia che mi onora fino all’orgoglio. Fu anche un gran sollievo perché, come intendeva Vittoria, la figlia morta a Auschwitz per esser sua figlia, soprattutto egli non va tradito. Delitto che hanno commesso in molti. Anzi, in troppi. Perfino al momento di giubilarlo con l’elezione a presidente della Repubblica. Sarebbe stato uno splendido presidente della Repubblica, e ci avrebbe fatto bene averlo a Quirinale. Ma non glielo permisero, non ce lo permisero. I suoi amici prima ancora dei suoi nemici.

    ORIANA FALLACI. In un’intervista all’ “Europeo”, Arthur Schlesinger ha detto degli italiani: “Chi mai può capirvi se siete i primi a non capire voi stessi?”. Senatore Nenni, sono qui per chiederle di aiutarci a capire noi stessi e quel che accade oggi in Italia. Lei ha fama di pessimista, lo so. Tuttavia…

    PIETRO NENNI. No, io sono pessimista sulla valutazione del fatto immediato: se lei mi domanda cosa succederà stasera, le rispondo che probabilmente succederanno cose spiacevoli. Ma se lei mi domanda cosa succederà nell’arco degli anni a venire, allora divento ottimista. Perché credo negli uomini, nella loro capacità di migliorare. Perché considero gli uomini come il principio e la fine di ogni cosa. Perché sono convinto che la prova decisiva è sempre lui, l’uomo, e che solo cambiando l’uomo si cambia la società. In sessantacinque anni di partecipazione alle lotte politiche, il mio problema è sempre stato quello di migliorare me stesso come uomo e di aiutare i miei compagni di lotta a compiere il medesimo sforzo. Non è impossibile, se si capiscon gli uomini. E quando Schlesinger dice che non si può capire gli italiani, dice una battuta. Essi non sono più incomprensibili degli altri, e neanche peggiori. Hanno solo una gran difficoltà a razionalizzare la loro vita collettiva e a non prendere sul serio certe minacce. Il mancato colpo di Valerio Borghese, ad esempio. Ovvio che il pericolo non è Valerio Borghese in sé e per sé. Il pericolo è la disgregazione dello Stato democratico: una disgregazione che alimentiamo col fare e disfare, così rischiando di lasciarci sorprendere da episodi come quello di Valerio Borghese.

    Ammetterà che è difficile prender sul serio Valerio Borghese, anzi una dittatura con a capo Valerio Borghese.

    Lei mi ricorda quanti, nella crisi 1920-22, dicevano: “Ma tu prendi troppo sul serio quel Mussolini! Dev’essere perché sei stato in galera con lui. Ma come vuoi che un tipo simile possa assumere il potere? Manca l’uomo per realizzare una dittatura in Italia!”. Cosa significa “manca l’uomo”? Non c’è mica bisogno di un tipo eccezionale per farne un simbolo di una situazione! Basta un esaltato qualsiasi, uno stravagante ritenuto innocuo, un vanitoso in cerca di successo. Mussolini, del resto, cos’era nel 1920 e anche nel 1921 e’22? Aveva preso quattromila voti nelle elezioni del 1919: quattromila voti a Milano, la città che praticamente dominava dal 1913, quand’era divenuto direttore dell’ “Avanti!”. Era pronto a scappare in Svizzera, credeva più in questa ipotesi che in quella di recarsi a Roma per formare un governo. E invece si recò a Roma. Come io temevo. Perché sapevo che quando gli avventurieri, anzi i “condottieri”, agiscono in una società malata, tutto diventa possibile. Sicché è da incoscienti sorridere e dire dov’è-oggi-un-Mussolini, dov’è-oggi-un-Hitler. Lo si inventa un Mussolini, lo si inventa un Hitler. E per inventarlo bastano cento giornali che quotidianamente dicano “è un grand’uomo”, un papa che dichiari “è l’uomo della provvidenza”, magari un Churchill che affermi “è il primo dietro il quale sento una volontà italiana”. Come accadde per Mussolini. Non si può dunque inventare, allo stesso modo, un Valerio Borghese che è già principe e colonnello e affondatore di navi ed ex-comandante della Decima Mas? Certo che il suo mancato colpo ha l’aria d’essere la caricatura di un golpe: non si occupa l’Italia occupando Palazzo Chigi e la RAI-TV. Ammenoché non vi siano complicità all’interno dello Stato, per esempio l’appoggio delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine. Il che, oggi, potrebbe avvenire solo su scala molto ridotta e grazie e complicità al vertice dello Stato. Non dimentichiamo che Mussolini prese il treno solo dopo aver ricevuto il telegramma del re che lo invitava al Quirinale. Ma al Quirinale oggi non c’è il re, c’è Saragat. E, comunque, il punto da analizzare non è questo. È…

    Un momento, senatore Nenni. Lei sta sostenendo una tesi terribile. Sta sostenendo che esistono analogie tra l’Italia del 1971 e l’Italia del 1922. È così?

    Sì, in parte sì. L’Italia del 1971 non è l’Italia del 1922, ovvio. A quel tempo non conoscevamo il fascismo ed ora lo conosciamo fin troppo, né siamo disposti a subirlo una seconda volta. Però v’è un punto che presenta forti analogie tra l’Italia del ’71 e l’Italia del ’22: quello che prospettai al Senato quando ricordai che a perderci, nel 1922, non fu la forza offensiva del fascismo. Fu la debolezza della classe politica dirigente. Furono le divisioni meschine che smembravano gli uomini politici in gelosie, ripicchi, attese. Nessuno credeva alla minaccia. Ciascuno aspettava. Giolitti aspettava a Vichy, meditando non si sa bene cosa. Forse la tremenda frase di Cromwell: “Bisogna che le cose vadano peggio perché si possa sperare che vadano meglio”. Quanti, tra gli uomini politici d’oggi, pensano la stessa cosa? E non rischiano anch’essi di svegliarsi un bel giorno, anzi un brutto giorno, senza poterci fare più nulla? Non dimentichiamo che una sera del 1967 gli ateniesi si addormentarono con gli occhi e gli orecchi ancora pieni delle manifestazioni popolari al vecchio Papandreu, e la mattina si svegliarono coi colonnelli al potere.

    Ma l’Italia non è la Grecia, senatore Nenni. E in Italia la sinistra è forte.

    Eravamo forti anche nel 1920: non basta esser forti. Bisogna saper impedire certe cose facendo funzionare lo Stato, il governo, il Parlamento, e non continuando a rinviare rinviare rinviare: prassi alla quale abbiamo fatto fin troppe concessioni negli ultimi anni. Sono anni che io metto in guardia contro le gelosie, i ripicchi, le lentezze, le meschinità. Sono anni che ripeto ciò che ora dico a lei: quando si parla di fascismo, meglio un eccesso che un difetto di vigilanza. Non mi ascoltano. Questo mio discorso rischiò di cadere nel vuoto anche nell’estate del 1964. Anzi, allora, i comunisti accolsero la mia denuncia come una “immaginario pericolo”, come un “diversivo per nascondere le adempienze del centro-sinistra”. Eppure esponevo fatti reali: pensi a quel che abbiamo appreso poi sul SIFAR e su alcuni comandi militari. Ma insomma, com’è possibile che a Reggio Calabria quel Franco Ciccio o Ciccio Franco o Come-si-Chiama abbia potuto giocare il ruolo del Masaniello? Come è possibile che ad Aquila i partiti siano rimasti assenti? Si trattava di rivolte municipali e, guarda caso, esse prendevano a bersaglio le sedi dei partiti di sinistra e il governo. Non le sedi del MSI. Così il punto da analizzare, dicevo, non è Valerio Borghese. È: cosa ha potuto far credere a Valerio Borghese che un colpo di mano su Palazzo Chigi e sulla RAI-TV potesse trasformarsi in un colpo di Stato e ricevere i ringraziamenti dello Stato?

    La risposte c’è?

    Certo che c’è! Anche in questo caso, come nel 1922, i fascisti contavano sull’aiuto che avrebbero ricevuto dalla destra. La classica destra, la destra di sempre, la destra che ha scarse forze elettorali ma possiede il potere economico, ha punti d’appoggio nell’amministrazione dello Stato e nelle Forze Armate. La destra che vuole riassorbire le forze moderate della Democrazia cristiana. La destra che vuole ristabilire un ordine borghese ormai tramontato. La destra che si serve dei fascisti come elemento di provocazione perché ha bisogno del disordine cioè della paura. Il disordine giova sempre ai nemici della democrazia. Giova perfino ai comunisti che così possono atteggiarsi a difensori della legalità: figuriamoci se giova alla destra. Ecco ciò che non comprendono i nostri uomini politici quando giocano allo snaturamento delle riforme. Ecco ciò che non comprendono i giovani dei gruppuscoli extraparlamentari quando con le loro violenze aiutano la reazione ed il MSI.

    Senatore Nenni, lei ritiene giusto che il MSI sia in Parlamento?

    No, non lo ritengo giusto. Perché il MSI è nato con le caratteristiche di un partito fascista: accettarlo è stato un altro errore di noi italiani che non prendiamo mai le cose troppo sul serio. Sì, anche nel caso del MSI lo Stato democratico è venuto meno alle sue prerogative: non ha applicato la Norma 12 della Costituzione, non ha applicato nemmeno la Legge Scelba del 1952, la quale vieta esplicitamente il formarsi di organizzazioni o partiti che si riallaccino al fascismo. Comunque io do un’importanza relativa al fatto che in Parlamento ci sia un partito di tipo fascista perché vedo le cose in termini politici. I fascisti lei li può sciogliere quando vuole e come vuole: ciò non basta a sopprimerli. Per sopprimerli bisogna strappare le radici sociali, politiche, psicologiche che producono il fascismo. E queste radici non sono state ancora strappate in Italia: solo tagliate in superficie.

    A questo volevo arrivare, senatore Nenni: alla predisposizione che gli italiani mostrano verso una malattia chiamata fascismo. Il fascismo è anzitutto violenza, dispregio della democrazia: quindi non si dipinge soltanto di nero. Non crede che quelle radici mai strappate fioriscano anche nelle violenze degli estremisti di sinistra?

    Sì, i ragazzi che si definiscono maoisti, trotzkisti, neoanarchici esercitano la violenza: è vero. E così offrono esempi, pretesti, alimentano odio e paura: senza rendersi conto che non hanno nulla da guadagnare con l’odio e con la paura. Ma non bisogna confonderli coi fascisti. Il fascismo non è un movimento estremista: è fascismo e basta. Il fascismo è ciò che abbiamo subito sotto Mussolini, sotto la Repubblica di Salò. Esso non vuole far avanzare il mondo, vuole riportarlo indietro. Intendo dire: un atto di violenza maoista e un atto di violenza fascista possono essere, sì, la medesima cosa: ma solo materialmente. Moralmente e storicamente v’è una gran differenza. I fascisti sono pericolosi perché si rifanno a una tradizione recente del nostro paese e hanno dietro di sé le forze della reazione; i cosiddetti maoisti non sono pericolosi perché non vanno al di là di una rivolta tutto sommato infantile. Esso sono animati da idee non spregevoli ma utopistiche e fuori della realtà italiana, anzi europea. Li abbiamo visti esplodere in Franci nel maggio 1968: cosa hanno ottenuto? Il contrario di ciò che volevano. È bastato quel maggio a provocare una involuzione della società francese e riportarla su basi conservatrici. Se oggi in Francia c’è un gollismo senza De Gaulle ed ha il potere e lo tiene, si deve anche al movimento dei giovani che hanno fatto paura. Ho ricordato in Senato un frase di Lenin. Dice: “Soprattutto guardatevi dal fare inutilmente paura”. Questi ragazzi dovrebbero farne tesoro.

    E quando trattano un Nenni a versacci, come a Torino? Fu spregevole il modo in cui si comportaron con lei in quell’episodio.

    Ma no. Fu un piccolo episodio di intolleranza. Io non mi scomposi per niente. Un loro compagno era stato arrestato ed essi protestavano contro chi rappresentava l’autorità governativa. Per loro io ero il governo, il responsabile dell’arresto… Non dimentichiamo che i giovani estremisti sono il portato storico di quel tanto di autoritarismo che v’è in ogni sistema sociale, in ogni società organizzata. Guai se a vent’anni si ragionasse con la mentalità di uno che ha ottant’anni come me. O anche con la mentalità di chi ha quarant’anni. Creda, la mia indulgenza verso di loro non nasce da scoramento, nasce da una conoscenza della storia. Nella nostra società il fenomeno della rivolta giovanile si manifesta a cicli precisi: all’inizio di questo secolo la rivolta giovanile fu uno dei movimenti più forti. C’era tutto, anche allora, e su basi internazionali: l’antimilitarismo, l’anticlericalismo, il futurismo, l’incomprensione tra figli e genitori… Sia pure in termini diversi, ci ribellavamo anche noi alle nostre famiglie. Non accettavamo neanche noi i discorsi della mamma contadina che scoteva la testa e diceva: “Lascia perdere, le cose son sempre andate così e andranno sempre così”. Me ne ricordo bene: di quella rivolta fui uno dei protagonisti più arrabbiati.

    La storia si ripete, insomma, e Giambattista Vico ha ragione.

    Certo che ha ragione. La storia non si ripete nelle stesse condizioni ma si ripete. C’era anche allora il sindacalismo estremista, si esercitava anche allora lo sciopero selvaggio. La manifestazione più tipica era lo sciopero del fiammifero, quando si dava fuoco alle messi. A Bologna, a Parma, a Modena. La lotta di classe, a quel tempo, era principalmente lotta di contadini e braccianti. Il punto culminante, per noi, fu la Settimana Rossa che ebbi la ventura di dirigere a fianco di Errico Malatesta. Finii alle Assise di Aquila, in seguito a ciò, con l’accusa di attentato contro lo Stato. Prima della Settimana Rossa, nel 1909, avevamo tentato un grande sciopero internazionale per l’anarchico Francisco Ferrer. Lo fucilarono a Barcellona, per reato di pensiero, e io fui uno dei promotori di quello sciopero nella città di Carrara: allora anarchica e repubblicana. A Forlì promossi anche lo sciopero contro la guerra a Tripoli. Credevamo allo sciopero come mezzo per ottenere la resa della forze capitalistiche, poi come mezzo per impedire la guerra e garantire la pace fra i popoli… Le ripeto: queste crisi durante le quali tutto viene rimesso in discussione son crisi ricorrenti. A volte prendono forme culturali, a volte sociali, ma in sostanza son sempre la medesima cosa. Ai miei tempi ci si rifaceva a Georges Sorel, alle sue Réflections sur la Violence. Oggi si rifanno ai Pensieri di Mao. Ispirato da Mao o da Sorel, il fenomeno si rifà sempre alla stessa legge. La legge secondo cui i giovani sono una componente di sviluppo delle società. I ragazzi d’oggi credono d’avere inventato il mondo. I ragazzi credono sempre che il mondo incominci con loro.

    Senatore Nenni, la vostra rivolta nasceva da uno stato di miseria e di oppressione neanche paragonabile a quelle di oggi. Dunque non trova che la vostra violenza fosse più giustificata di quanto non sia la loro?

    Senza dubbio. E la sua domanda mi riporta a un articolo che è stato scritto sul “moderato” Nenni: l’uomo della Settimana Rossa che oggi chiede di abbandonar la violenza. In questo articolo mi si riconosceva una continuità logica. C’è davvero in me, cara amica. Perché oggi abbiamo qualcosa da difendere, e ai miei tempi non avevamo da difendere un bel nulla. O molto poco. Oggi la libertà di pensiero, di organizzazione, di manifestazione, esiste: aperta a tutti. Ai miei tempi non esisteva. Oggi non si impedisce di trasformare l’attuale ordine civile e sociale. Ai miei tempi lo si impediva. Insomma, ogni lotta per la libertà deve comportare la difesa delle libertà già conquistate e quando osservo i giovani d’oggi mi rammarico d’una cosa sola: che si lascino guastare dal mito risorgente della violenza. La violenza è levatrice della storia, sì: ma quando la si esercita nelle giuste condizioni di tempo e di luogo. Tali condizioni non esistono, attualmente, nel nostro paese. La violenza è risposta alle sopraffazioni che non lasciano altre vie per reclamare giustizia, sì: ma contro quanto sopravvive delle sopraffazioni, ormai, abbiamo altri mezzi per lottare. Se l’azione di quei giovani fosse condotta sul terreno delle idee avrebbe molto più effetto. Il guaio è che non tutti hanno idee: molti di questi ribelli sono gli industriali e i borghesi di domani. Proprio come molti dei ribelli esplosi all’inizio del secolo divennero poi fascisti, e perfino i ministri del fascismo. Creda, a volte mi chiedo se le loro esplosioni di piazza e di università non siano una moda passeggera, un mezzo per sfogarsi, un prezzo pagato a risentimenti momentanei: anziché il meditato rifiuto di un mondo cui in gran parte appartengono.

    Sputano sulla democrazia, senatore Nenni. Non di rado sputano sulla Resistenza. Attraverso Mao prendono come modello una società con la quale non abbiamo nulla in comune. Ora, lei che è stato in Cina e ha conosciuto Mao Tse-tung…

    Sì, ma non è un rapido contatto con un paese sconosciuto a farci capire una rivoluzione, un sistema, un uomo. Io ho scarsa fiducia in certi viaggi. Vede, una volta Krusciov mi raccontò che Stalin sapeva ben poco della Russia e, di fronte alla mia meraviglia, spiegò: “Gli fabbricavamo noi dei film, e poi glieli proiettavamo. Scene di vita cittadina e campagnola: tutto artefatto”. E io risposi scherzando: “Le stesse cose che mostrate a noi quando veniamo in Russia”. È così. Non ne sappiamo molto dell’Unione Sovietica, anche dopo esserci stati. E non ne sappiamo di più sulla Cina dopo esserci stati. Ad esempio, come si fa a penetrare il mistero di quest’ultima fase della rivoluzione cinese? Nella misura in cui la si interpreta come una rivolta libertaria, sembra un fatto positivo. Ma si è trattato soltanto di una rivolta libertaria? Lo vedremo in futuro. Quanto a Mao Tse-tung, ecco: nel momento in cui si avvicina Mao Tse-tung, non si avvicina un uomo della strada che ha i lineamenti di Mao Tse-tung: si avvicina il creatore di una grande rivoluzione e siamo in uno stato d’animo del tutto particolare. Con Mao Tse-tung mi successe quel che m’era successo con Stalin. Visto a tu per tu, Stalin appariva un omino innocuo e cortese. Nella sua bonarietà dava addirittura un’impressione di sciatteria. Però non dimenticatevi che era Stalin, uno dei vincitori, se non il vincitore, della seconda guerra mondiale, il gran capo della Russia.

    Torniamo a Mad Tse-tung. Le piacque?

    Certo! Forse resta il personaggio che mi è piaciuto di più. Ma, se dovessi motivare questa scelta, non ne sarei capace. Perché nasce da un istinto. Suppongo che mi sia piaciuto perché viene dal mondo contadino. E io son figlio di contadini, senza alcuna contaminazione cittadina o borghese. Mao, cosa vuol che le dica di Mao? Si stette insieme un pomeriggio che per metà se ne andò in traduzioni: ci si diceva le cose attraverso l’interprete. Neanche Ciu En-lai, che è stato minatore in Belgio e dovrebbe conoscere bene il francese, e di certo parla inglese, mi parlò senza interprete. Mao fu molto cordiale. Mi chiese perfino cosa fosse l’Operazione Nenni della quale, allora, si parlava molto sui giornali. Così gli spiegai che era un tentativo di apertura verso la Democrazia cristiana, per sollecitarne una svolta a sinistra, ma lui non espresse giudizi. Si capisce: certe cose non rientrano nella sua tematica. Poi si discusse sull’ingresso della Cina all’ONU, sul riconoscimento reciproco dei nostri due paesi, delle missioni cattoliche in Cina rispetto alle quali s’era parlato di massacri. Mi parve un uomo vivo. E io mi sento bene con gli uomini vivi. Il che vale anche e soprattutto per Krusciov. Vede, i dirigenti sovietici sono dei muri. Non introducono mai niente di umano nei loro discorsi: rifuggono dalla facezia, stanno sempre in cattedra. Krusciov invece non stava mai in cattedra: perfino dinanzi a un estraneo come me. Parlando di Molotov mi disse: “Sa, quello è un mulo!”. Che fosse un mulo, del resto, lo avevo sperimentato io stesso quando ci eravamo visti per il problema di Trieste. Ma che c’entrano questi ricordi? Non dovevamo parlare dell’Italia e degli italiani?

    Sì, ed ecco una domanda che molti vorrebbero porle. Si parla sempre più di una Repubblica conciliare composta da cattolici e comunisti. Lei crede alla imminenza, anzi alla possibilità, di un simile sposalizio?

    No, ci credo poco. La Repubblica conciliare è una formula suggestiva, come quella degli “spaghetti in salsa cilena”. Però, anche come formula, la ritengo tutt’altro che imminente e probabile. Non è basata su solide realtà. E troppi elementi la frenano: un Partito socialista che abbia la consapevolezza del suo ruolo e della sua autonomia, le forze laiche rappresentate da partiti quale il Partito repubblicano, la presenza in Italia di un mondo culturale impegnato nella difesa della libertà… Ovvio che alla Democrazia cristiana e al Partito comunista una simile prospettiva appare seducente: il bipartitismo, in fondo, è il loro sogno politico. Ovvio che vi siano correnti impegnate in un’operazione di questo genere: perfino al di fuori della DC e del PC v’è chi si illude che l’unione dei “preti neri” coi “preti rossi” assicurerebbe per qualche anno una relativa pace sociale, il mantenimento dello status quo. Non accadde lo stesso con me, con l’apertura a sinistra? Furono in molti a credere che aprire ai socialisti le porte del governo servisse a garantire lo status quo. Ma, ripeto, io ci predo poco alla possibilità di un evento così deprecabile. No, no. È un discorso troppo pessimista. Non voglio farlo.

    Facciamolo, invece. Sia pure sul piano della fantapolitica. Senatore Nenni, cosa sarebbe una Repubblica conciliare? Quali conseguenze avrebbe su noi?

    Evidente, sarebbe il matrimonio di due integralismi concordi su un punto: toglier di mezzo tutte le forze che si richiamano ai princìpi di democrazia e di libertà. Due integralismi che sentono, sì, alcuni problemi ma che non ne sentono altri per me fondamentali: la libertà individuale, la vita democratica. Con la Repubblica conciliare assisteremmo alla spartizione dei poteri tra due chiese: a una chiesa, l’egemonia dello Stato; all’altra chiesa, l’egemonia dell’opposizione. Allo stesso tempo vedremmo sparire ed eventualmente sopprimere ogni forza intermedia e capace di porre un freno. In sostanza, sparirebbe il Partito socialista e sparirebbe il blocco delle forze laiche. Sparirebbero anche vasti settori di ispirazione cristiana che hanno dato un largo contributo alla rinascita laica e democratica dell’Italia. Parlo in termini astratti, si capisce, perché ogni integralismo avrebbe da fare i conti con noi. Guardi, un simile matrimonio tenta la fantasia degli osservatori stranieri, al pari della formula “spaghetti in salsa cilena”. All’estero, infatti, il problema dei comunisti al governo con o senza la DC viene presentato come il problema dell’Italia. Io non lo considero il problema. Lo considero un problema. E la soluzione di questo problema è ancora nelle mani dei comunisti.

    Cosa intende dire?

    Intendo dire che dipende da loro il chiarimento della loro presenza in una coalizione che abbia il denominatore comune della democrazia. E questo mi pare che i comunisti non l’abbiano fatto. Talvolta hanno variato la loro metodologia e la loro tattica, è vero. Basti pensare alla svolta di Salerno nel 1944, all’incontro di Togliatti col re. Discorsi ne hanno fatti, è vero. Rischi ne hanno presi. Ma l’obiettivo, pei comunisti, rimane la conquista del potere sotto l’egemonia più o meno totalitaria del loro partito. Su un piano internazionale, poi, la loro collocazione storica rimane del sistema sovietico che fa capo a Mosca. Anche quando formulano riserve su ciò che è avvenuto in Cecoslovacchia e in Polonia, anche quando sanno che i sovietici erano pronti a intervenire a Varsavia come erano intervenuti a Praga. Insomma, a un socialismo democratico e umano, i comunisti, stanno avvicinandosi o no? Questo revisionismo di un socialismo dal volto umano stanno per accettarlo o no?

    Senatore Nenni, lei crede che ciò possa avvenire?

    Io prendo atto che ciò non è avvenuto negli ultimi cinquanta anni, e nemmeno negli ultimi dieci anni. Un’entità di tempo assai vasta. Sappiamo che, nei paesi da loro governati, ogni tentativo revisionista per un socialismo dal volto umano è stato schiacciato con la violenza e con il terrore. Sappiamo che Pechino definisce l’Unione Sovietica come un “paradiso per un gruppo di burocrati monopolisti e capitalisti nonché come un prigione per milioni di lavoratori”. Sappiamo che Mosca ripaga Pechino chiamando Mao Tse-tung “uno dei più grandi traditori della storia, paragonabile solo a Hitler”. E su questi contrasti di fondo i comunisti italiani non si sono espressi mai chiaramente. Sicché è assurdo dare per acquisito ciò che non è ancora acquisito, ciò che potrebbe prodursi e anche non prodursi ma intanto non s’è prodotto. Tutto è possibile, certo: al governo i comunisti italiani ci sono già stati. Ci fummo insieme, dal 1944 al 1947. E De Gasperi, a quell’epoca, era spaventato dalla loro moderazione. Mi diceva: “Vedi, non posso trattare politicamente con te perché, quando tu mi offri dieci, arriva Togliatti e mi offre subito cinquanta”. Farebbero altrettanto domani? Chissà. Solo da un controllo vigoroso possono scaturire gli elementi che diano per probabile un processo storico al quale i comunisti rimangono estranei. Così è valido, oggi, ciò che dico da anni: comunisti e socialisti debbono fare ognuno la loro parte. Ma il punto-chiave dell’Italia d’oggi, mi creda, non è quello della Repubblica conciliare. Non è quello degli spaghetti in salsa cilena. Il punto-chiave, anzi il problema-chiave, è la crisi del centro-sinistra. È la debolezza dello Stato democratico che tale crisi comporta.

    E a questo volevo giungere, senatore Nenni: il centro-sinistra è una creatura sua. Ma bisogna parlare di crisi o di fallimento?

    Fallimento? Dobbiamo considerare fallita questa esperienza o non dobbiamo piuttosto esaminare la crisi e i punti da cui può riprendere forza? È vero, ci sono stati errori da parte nostra. Ci sono stati contraddizioni, ritardi, lentezze colpevoli. Peggio: c’è stata una degenerazione in senso oligarchico del potere, una corruzione dei rapporti tra poteri pubblici e interessi privati. C’è stato un affievolimento dei valori ideali. Da ciò il discredito che investe tutto e tutti, da ciò la sfiducia dell’opinione pubblica verso la classe politica. Ma, se è giusto sottolineare gli errori del centro-sinistra, è ingiusto condannare in modo globale l’opera del centro-sinistra. Tanto più che a questo ci pensano abbondantemente la destra e i comunisti. Non dimentichi una cosa importante: il centro-sinistra non ha dovuto affrontare soltanto le piaghe ereditate dal fascismo, ha dovuto affrontare anche fenomeni nuovi e problemi che travagliano tutto il mondo. Pensi a ciò che ha voluto dire, in tutto il mondo, l’irruzione sulla scena pubblica di una gioventù che sfugge al controllo tradizionale della scuola e della famiglia: per essere l’artefice del proprio domani. Pensi alle esigenze nuove dei lavoratori, al dramma che essi hanno scoperto con l’automazione: l’uomo al servizio della macchina anziché la macchina al servizio dell’uomo. Pensi alla rivoluzione sessuale e al modo in cui ha inciso sui rapporti familiari…

    D’accordo. Il centro-sinistra s’è trovato a governare nel momento più difficile: quello in cui le vecchie regole cadono, i valori culturali cambiano, e l’umanità attraversa una crisi di crescenza. Ma anche gli altri paesi si son trovati a subire gli stessi sconvolgimenti e, tuttavia, qualcosa di buono hanno fatto. E oggi non debbono usare le parole gravi che lei ha giustamente usato: degenerazione del potere, corruzione, affievolimento dei valori ideali.

    Lo so: nella Repubblica federale tedesca, la piccola coalizione socialdemocratica-liberale ha solo una maggioranza di cinque o sei voti. E, con quei cinque o sei voti, Brandt ha potuto affrontare problemi di proporzione storica come l’accordo con l’Unione Sovietica sulla reciproca rinuncia alla forza, e il trattato con la Polonia. In Italia il centro-sinistra ha una maggioranza di cento voti e ogni giorno si ferma dinanzi a qualche difficoltà. Per lo più difficoltà di carattere interno: gruppi e gruppetti ciascuno dei quali rivendica una fetta del potere, sperpero di energie, mancanza di coraggio e di iniziativa. Io talvolta mi chiedo se la generazione di mezzo, cioè quella tra la mia e la generazione che bussa alla porta, non si arrivata troppo facilmente al vertice del potere. Dai chiostri di padre Gemelli al gioco dei potenti, come ha detto il francese Nobécourt nella sua intervista all’ “Europeo”. No, io non pretendo che dietro a ogni uomo debba esserci quel che c’è dietro a molti della mia generazione: il peso della battaglia contro il fascismo, la disgrazia d’aver vissuto i drammi più cupi nel nostro secolo. Però…

    Però qualche ostacolino non gli avrebbe fatto male: vero, senatore Nenni? Sono nati tutti ministri, lei esclamò un giorno.

    Ma hanno problemi che non danno requie: siamo giusti! Consideri l’esodo dalle campagne, centinaia di migliaia di famiglie che irrompono disordinatamente nelle città per trovarsi a contatto brusco con un’altra realtà. Consideri lo sviluppo vertiginoso della scuola: in otto anni una popolazione studentesca che passa da meno di due milioni a più di sette milioni, senza che l’edilizia scolastica e l’indirizzo didattico siano adeguati. Consideri la riforma tributaria, sanitaria, urbanistica, le Regioni da organizzare. Sono problemi terribili e sono problemi più forti in Italia che altrove.

    Ora ammette d’esser pessimista, senatore Nenni?

    No. Nulla è irrimediabilmente compromesso. C’è una sola eventualità dinanzi alla quale saremmo senza difesa: una crisi economica, monetaria, una crisi di produzione associata alla instabilità governativa. Allora sì che le dighe si sfascerebbero per travolgere tutto. Ma anche questo si può scongiurare: purché ci si rimbocchi le maniche, purché si varino le riforme, purché si smetta di gingillarsi con la polemica sui nuovi equilibri nell’ambito di un processo storico a venire. Cioè da compiere nei prossimi dieci anni. Io non sono un profeta né figlio di profeti ma dico che quel discorso sui nuovi equilibri poggia su un equivoco e su una prospettiva molto contestabile: l’evoluzione del Partito comunista. A perderci in certi rompicapi si rischia di rincorrere un’illusione e distruggere quel che s’è fatto. Si rischia di interrompere l’apporto della Democrazia cristiana a una politica di progresso sociale, e ricacciarla in braccio alla destra.

    Senatore Nenni, il suo rifiuto al pessimismo sarebbe accettabile se il Partito socialista fosse ciò che lei aveva sognato. Non lo è. È un partito diviso e attraverso il quale lei non può più determinare gli eventi del paese. Così mi accingo a porle una domanda brutale e forse cattiva. Quando riuscì a fare l’unificazione, lei disse: “Ora posso morire tranquillo”. E oggi?

    Oggi… considero le cose con grande rammarico ma anche senza complessi di colpa. Ho perduto la mia battaglia politica ma bisogna saper accettare una sconfitta. Tanto più che, a ottant’anni, un uomo non ha molte occasioni di rivincita. Riconoscere la sconfitta però non significa considerar la sconfitta come assoluta e definitiva. Il mio contributo, per quel che vale, l’ho dato. E lo darei ancora se vedessi in pericolo le istituzioni repubblicane, la libertà democratica delle masse. A certe conquiste credo di aver contribuito in modo rilevante: la mia più grande vittoria fu la Repubblica, nessuno la volle con un impegno uguale al mio. E se non sono riuscito a consolidare l’unificazione socialista, è perché ho creduto che essa avesse una base nella coscienza e nella volontà dei militanti. Perché quella coscienza e quella volontà non hanno retto alla prova. La prova del relativo insuccesso nelle elezioni del 1968, della polemica sul disimpegno, del discorso sui nuovi equilibri. Cosa vuol che le dica? È un fenomeno tipicamente italiano questo delle divisioni, delle scissioni. Nessuno aspetta che gli avvenimenti gli diano torto o ragione, tutti vogliono aver ragione subito. Mah! Io volevo un partito consapevole della sua autonomia, impegnato a riconquistare le masse operaie e le posizioni perdute dopo la scissione del 1947. Volevo un partito in grado di creare un’alternativa socialista nell’ambito stesso del centro-sinistra. Svanita questa possibilità, posso solo augurarmi che il centro-sinistra riprenda coscienza di sé e si impegni a fondo nella politica delle cose.

    Senatore Nenni, non sarà che gli italiani si trovano bene solo coi dogmatismi e le chiese?

    No, anche se si trovano bene con il potere: perché non hanno ancora liquidato il retaggio di secoli trascorsi nella servitù allo straniero e nella subordinazione alle tirannidi interne. “Tengo famiglia. Ho sei figli, otto figli” ti dicono sempre. Ed è un aspetto di quel retaggio, alimentato dall’insicurezza sociale di molti ceti. Dicendo “tengo famiglia” rinunciano alla lotta. Oppure vi rinunciano attraverso un’intelligenza scettica, corrosiva, dissolvitrice. Un’intelligenza nemica della concretezza. Criticare tutto e tutti è un modo per criticare nessuno: serve solo a rimanere estranei alla lotta. E in ciò noi siamo bravissimi. Però guardi: non è esatto dire che gli italiani si trovano bene solo coi dogmatismi e le chiese. All’oppressione e al compromesso reagiscono in modo vivace. Anzi diciamo che finiscono sempre col reagirvi. E ciò compensa largamente le eredità negative di una formazione nazionale, sociale, politica che è senza dubbio in ritardo rispetto ad altri popoli.

    A proposito di intelligenza dissolvitrice: Schlesinger ha detto, in quell’intervista all’ “Europeo”, che la vera tragedia dell’Italia moderna fu la morte del Partito d’azione.

    Schlesinger ha conosciuto il gruppo dirigente del Partito d’azione e lo ha giustamente apprezzato perché raccoglieva intorno a sé uomini ricchi di qualità morali e intellettuali: uomini che contribuirono in misura notevole alla lotta contro il fascismo, all’avvento della Repubblica, alla nascita della Costituzione. Però era un partito fuori della realtà, destinato a non reggere col tempo proprio per il tipo di intelligenza cui alludevamo: quella che tutto scioglie e nulla crea. Inoltre esso ebbe la sfortuna di giungere alla prova del potere dopo aver perduto il suo animatore di maggior prestigio: Carlo Rosselli. Conobbi Carlo Rosselli, molti anni prima che i fascisti lo assassinassero in Francia con suo fratello. Fu nel 1925, dopo che avevo scritto ai miei compagni una lettera che sosteneva la necessità di dare un aspetto europeo alla nostra battaglia e non perdersi in fatti di natura anarchica come gli attentati. Una mattina uno sconosciuto bussò alla mia porta. Lo feci entrare e mi disse press’a poco così: “Sono Carlo Rosselli, professore all’università di Genova. Ho letto la sua lettera alla direzione del partito e l’ho apprezzata molto. Io sono ricco, non ho i problemi economici che ostacolano tanti di voi. Vengo a chiederle di lavorare insieme”. Lavorammo insieme. Insieme fondammo “Quarto Stato”, la rivista cui avrebbero collaborato taluni tra gli uomini più degni del futuro Partito d’azione. Ma, ripeto, v’era uno spirito dissolvente nella loro bella intelligenza. E quando il Partito d’azione morì…

    … quegli uomini degni si sparsero negli altri partiti e voi tutti finiste coll’essere contagiati dallo spirito dissolvente della loro bella intelligenza. Voi del Partito socialista per primi. È questo che vorrebbe dire?

    Sì, ma le difficoltà del Partito socialista sono state di natura diversa. Il Partito socialista è un partito di frontiera, con uno spazio politico insidiato a sinistra e da destra: in tali condizioni ci si difende sempre male. Basta un piccolo passo a sinistra e si rischia d’esser risucchiati dai comunisti, un piccolo passo a destra e si rischia di apparir moderati. Ci vogliono idee chiare se non si vuole cadere nell’orbita degli uni o degli altri, e difendere il socialismo.


    (...)
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    Predefinito Re: Intervista di Oriana Fallaci a Pietro Nenni (1971)

    Senatore Nenni, quando parla di socialismo che intende? Il suo socialismo, oggi, non è più quello di cinquant’anni fa.

    Sì e no. Perché, vede: il socialismo di cinquant’anni fa era proiettato verso costruzioni in parte utopistiche, o ancora utopistiche. Viveva, eccome, la realtà delle lotte quotidiane, le lotte degli operai e dei contadini, però non aveva modelli della “città del domani”. Oggi, invece, questi modelli esistono in modo concreto. Esistono nei due tipi di socialismo che si sono andati configurando: quello comunista e quello svedese. Quello comunista ha realizzato l’abolizione della proprietà privata; ma l’ha fatto nel contesto di società chiuse a ogni soffio di libertà individuale e di vita democratica, attraverso società-caserme dove l’oppressione statale è feroce. Quello svedese ha condotto la libertà umana, l’eguaglianza tra gli uomini, la vita democratica delle masse, al più alto livello finora raggiunto: ma non ha infranto il sistema della proprietà capitalistica. Io mi sento più a mio agio a Stoccolma che a Leningrado. Penso che a Stoccolma vi sia un modo nuovo di concepire la vita che non c’è a Leningrado. Tuttavia il problema non si risolve con una scelta elementare: si risolve tendendo a una sintesi delle due esperienze, cioè a un sistema dove la socialità dei mezzi di scambio e di produzione si associ alla massima libertà dell’uomo. Perché in fondo quel è l’obiettivo principale dell’uomo? Raggiungere il massimo di libertà: libertà da ogni sfruttamento, da ogni tirannia… Ma questo è un discorso più adatto a un circolo di studi che a un’intervista sull’Italia degli Settanta.

    Non credo. Interessa troppi italiani degli anni Settanta. Interessa tutti coloro che si sono accorti di non poter accettare il socialismo scientifico, il socialismo dogmatico che si impone attraverso la negazione della libertà. Ma lei crede che il suo socialismo sia raggiungibile?

    Sì, anche se non so in quali forme concrete. E le dico così perché non me la pongo più questa malattia delle prefigurazione di una società futura. È una malattia che prende tutti, prima o poi, ma della quale io mi son liberato. Del resto, quel socialismo non si sta già realizzando nella stessa Italia e in gran parte del mondo? Guardi, in un secolo il socialismo è diventato il motore di ogni lotta per la libertà e l’eguaglianza, la spinta di ogni battaglia per l’indipendenza degli uomini e delle nazioni. È penetrato nelle società più diverse, anche in quelle dove sembra non esistere. Ha trasformato non solo le condizioni di vita e i rapporti di classe ma anche i rapporti tra gli uomini e il loro modo di pensare, di essere. Perché? Perché, nel suo divenire concreto, il concetto stesso del socialismo ha assunto caratteristiche nuove. E ci ha dimostrato che, nelle società democratiche, lo Stato tende a diventare lo Stato di tutti. Nei paesi comunisti, invece, no. La dittatura del proletariato era concepita da Marx come una forma eccezionale di potere da esercitarsi durante la transizione dalla società capitalistica a quella socialista. Ma, nei paesi comunisti, la dittatura del proletariato è divenuta dittatura del partito comunista sulla società e sui lavoratori. E nel partito è divenuta la dittatura dell’apparato sul partito. Nell’apparato del partito è divenuta la dittatura di un capo carismatico come Stalin. Insomma, s’è visto che perfino una rivoluzione proletaria, se non è sostenuta dallo spirito di democrazia e di libertà, può degenerare in burocrazia, tecnocrazia, polizia, tirannia. La stessa abolizione della proprietà capitalistica non ha risolto il problema della socializzazione e della autogestione dei mezzi di produzione e di scambio. È sfociata in un capitalismo di Stato che non è differente dal capitalismo privato, anzi opprime e aliena come il capitalismo privato. Il fatto è che i princìpi sono sempre seducenti quando vengono espressi da una formula. Non ci si rende mai conto che tradotti in realtà essi hanno effetti imprevedibili. Proprio perché nascono da una formula.

    E dire che questa formula, dittatura del proletariato, ha convinto tanti italiani. A cominciare da lei. Ma di queste cose non si rese conto la prima volta che andò in Russia?

    Naturalmente. Infatti anche allora ero socialista e non comunista. Ma non c’era bisogno di andare in Russia per rendersi conto di queste cose. Noi socialisti abbiamo sempre rifiutato il modello sovietico. Prima che l’Unione Sovietica diventasse uguale agli Stati Uniti sul piano della potenza militare, noi abbiamo difeso la rivoluzione bolscevica: è vero. Ma perché interpretavamo certi fatti come difficoltà dovute al carattere arretrato della società russa, difficoltà nate dal processo di industrializzazione in un paese prevalentemente contadino. C’è di più: impegnati come eravamo nella lotta contro il nazi-fascismo, dovevamo cercare la collaborazione dei comunisti all’interno e l’appoggio dell’Unione Sovietica in campo internazionale. Le mi dirà: ma come? E i processi di Mosca? E lo sterminio, dopo quei processi, di gran parte del gruppo bolscevico che aveva guidato la Rivoluzione d’Ottobre? Guardi, io scrissi quattro articoli sul “Nuovo Avanti!” che pubblicavamo a Parigi. In quei quattro articoli denunciai i processi di Mosca e negai ad essi qualsiasi credito morale o giuridico. Però non ne trassi conclusioni drastiche, non ne feci motivo di rottura clamorosa. Perché? Perché eravamo in Spagna insieme, noi socialisti e comunisti: esposti agli stessi rischi e ciò non è importante, legati politicamente al successo o all’insuccesso della guerra civile spagnola, e ciò è molto importante. Sapevamo che la nostra vittoria sarebbe stata un colpo durissimo per il nazifascismo, la nostra sconfitta avrebbe accelerato la corsa di Hitler verso la guerra. E i fucili con cui sparavamo erano di fabbricazione sovietica: non c’era che la Russia ad aiutarci, la Francia e l’Inghilterra simpatizzavano solo a parole. Lo choc venne più tardi. Venne con l’Ungheria. E fu uno choc davvero violento. L’unica cosa cui non avevo mai creduto era che un paese comunista potesse schiacciare coi carri armati un moto di popolo, un moto esploso da una esigenza di libertà.

    E fu allora che restituì il Premio Stalin per la pace?

    Restituire è verbo che non mi piace perché presuppone un gesto teatrale che non si addice al mio temperamento. Diciamo così: nel 1952 avevo ricevuto quel premio e, quando scoppiò la crisi dell’Ungheria, parallela alla crisi del Medio Oriente, pensai che quel premio datomi per la pace dovesse essere usato per la pace. Di conseguenza versai la somma di denaro alla Croce Rossa internazionale, pei profughi ungheresi e per le vittime della guerra anglofrancese in Egitto. Ma a che serve parlarne?

    Serve e dimostrare che in Italia qualche galantuomo c’è ancora. E, tornando all’Italia: come vede la sua collocazione nel contesto europeo?

    Parlare dell’Italia nel contesto europeo significa parlare dell’Europa. E quando Alsop dice che l’Europa non esiste, l’Europa non conta, dice purtroppo un’amara verità. Penso anch’io che l’avvenire del mondo, oggi, non si decida più in Europa. Come del resto non si decide soltanto in America. V’è ormai una componente asiatica della quale europei e americani debbono tener conto, e non parlo solo della Cina. Parlo del Giappone, dell’India. L’Europa avrebbe avuto un ruolo immenso nel mondo se avesse realizzato la sua unità politica ed economica: la grande idea nata dalla seconda guerra mondiale. Ma sono trascorsi venticinque anni e l’Europa non s’è fatta né si fa. Il particolarismo dei singoli Stati ha prevalso sulla comunità degli interessi e, d’altronde, come non capirlo in un’Italia dove non si superano neanche i particolarismi municipali tra Catanzaro e Reggio Calabria, l’Aquila e Pescara? Il particolarismo nei confronti dell’unità europea cominciò in Inghilterra. Poi passò in Francia e divenne l’errore storico di De Gaulle. Da questo punto di vista, De Gaulle ha fatto un gran male all’Europa, e ne ha fatto anche alla Francia. Le ha evitato prove angosciose, è vero: probabilmente era il solo che potesse liquidare la tremenda avventura algerina. Però, nell’insieme, la sua azione è stata ritardatrice. Ritardatrice nel campo della libertà, della democrazia, della politica estera. E l’Europa non s’è unita anche per colpa sua.

    Conobbe anche lui, vero?

    Sì, lo conobbi subito dopo la guerra, affrontando con lui il tema del Trattato di pace con l’Italia. Uomo complesso. Non dico affascinante perché parlando calava troppo dall’alto: ciò non poteva non infastidire. Però sui problemi delle nostre frontiere lo trovai molto aperto. Sulla Val d’Aosta, ad esempio, aveva respinto i suggerimenti dei militari e dei politici che chiedevano l’annessione alla Francia. Aveva accolto gli stessi suggerimenti su Briga e su Tenda, mi disse, perché ci voleva una “sanction morale” contro l’Italia che era entrata in guerra contro la Francia senza nessuna giustificazione. Guardi, c’è un gollismo al quale sono fedele, ed è quello del 18 giugno 1940 quando De Gaulle si ribellò alla resa senza condizioni della Francia. Ma c’è un gollismo che non posso accettare ed è quello del 1958: la sopravvivenza della concezione monarchica dello Stato. Anche da quella nasceva l’avversione di De Gaulle per l’unità d’Europa. Lei mi dirà: ma disse no alla NATO. Per dire no alla NATO, bisognava aver detto sì all’Europa. Da soli, i singoli paesi europei non sono più in grado di sottrarsi all’influenza di un blocco o dell’altro. Se oggi il mondo è retto da una specie di mezzadria degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sulla base dello status quo, è proprio perché non siamo riusciti a fare l’Europa. Su ciò non ho dubbi.

    Senatore Nenni, in quale misura il dubbio ha segnato la sua vita?

    In grande misura, sempre. Il dubbio lo porto in me, talvolta anche in forma esagerata. Sul dubbio, una volta, ebbi una polemica con Gramsci. E mi pare che lo dica Renan: “Senza la presenza del dubbio, perdiamo l’esatta valutazione dei fatti e delle cose; la mania della certezza è l’anticamera del fanatismo”. Con la mania della certezza si finisce col non ammettere l’opinione altrui. Io invece son sempre pronto ad ascoltare le opinioni altrui e a cercare in esse gli elementi positivi. Il dubbio mi si addice perché richiede libertà e non comporta necessariamente la perdita della fede, della volontà di battersi. Sia pure attraverso gli inevitabili errori.

    E gli inevitabili dolori, le inevitabili rinunce, le inevitabili amarezze. Tutto ciò che lei ha avuto e ha in abbondanza. Senatore Nenni, s’è mai chiesto se ne valesse la pena?

    Mai. Neanche ora che sono al declino della vita. Quando mi volto indietro e penso agli ideali della mia giovinezza, ai prezzi pagati, non ho rimpianti. Perché ritengo di aver fatto semplicemente quello che dovevo fare, e perché vale la pena battersi per un’umanità più giusta. Vale la pena, mi creda. Io ho visto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni: la mia, quella dei miei figli, quella dei miei nipoti. E ora mi accingo a vedere quella dei miei pronipoti. Guardandoli penso: non sono stati inutili questi decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi miei. Sì: la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col mondo in cui sono nato, e non parliamo del mondo in cui erano nati mio padre e mio nonno. Siamo a un livello talmente più alto di vita civile, abbiamo compiuto progressi talmente formidabili in ogni campo. Anche in quello della libertà. Lei mi sembra smarrita dinanzi a quest’Italia piena di fermenti, scontenti. E la capisco. Anzi, dico di più: ogni persona smarrita dovrebbe essere un campanello d’allarme che dovremmo ascoltare. Mentre, troppo spesso, non lo ascoltiamo. Però attenta: analizzando settore per settore, particella per particella, cosa per cosa, sembra che tutto stia per crollare. Analizzando l’insieme, ci si accorge che la struttura sta in piedi.

    Allora perché tante paure, tante violenze, tanto rifiuto di quel che è stato fatto?

    Perché, risolto un problema, se ne pone subito un altro. O altri. È una caratteristica dell’uomo. L’uomo non accetta mai lo status quo, non arriva mai a dire “non ho più problemi”. Guai se lo facesse. Tutto si impantanerebbe, si avvilirebbe, e verrebbe a mancare la molla che rende accettabile la vita. Cioè la ricerca costante di qualcosa di meglio. Cara amica, la vita va vista col pessimismo dell’intelligenza, col senso critico del dubbio, ma anche con l’ottimismo della volontà. Con la volontà, niente è fatale, niente è ineluttabile, niente è immodificabile. Gliel’ho detto all’inizio: io credo nell’uomo. L’uomo creatore del proprio destino.

    Grazie, senatore Nenni.

    Roma, aprile 1971



    https://www.facebook.com/notes/pietr...1969609252875/
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