Leo Valiani e Giovanni Spadolini




di Leo Valiani – In “Nuova Antologia”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 107-110.


Scrivo col cuore straziato dal dolore. Giovanni Spadolini, prematuramente scomparso, per me è stato non soltanto un ammirevole compagno di studi storici e di difficili battaglie politiche, ma altresì un fraterno amico. Da vecchio devo rendere l’estremo omaggio a lui che aveva sedici anni meno di me.
Con Giovanni Spadolini l’Italia perde uno dei pochi autentici eredi del Risorgimento che si siano affermati nell’ultimo mezzo secolo. Tale fu come storico, come scrittore e giornalista, come capo politico e uomo di Stato.
Da giovanissimo studioso Spadolini indagò con un’analisi che aveva scarsi precedenti sia la lotta sociale che nel Risorgimento c’era pure stata, sia la principale opposizione di massa che il regno laico uscito dal Risorgimento aveva suscitato: quella cattolica. Quei suoi due primi libri gli valsero molto successo di prestigio e il secondo di essi, L’opposizione cattolica, continuamente ristampato con costanti aggiornamenti, anche innumerevoli lettori. Nei quattro decenni e mezzo trascorsi dalla loro prima edizione, Spadolini si è dedicato invece alle personalità che il Risorgimento aveva espresso, come intellettuali politici, nel corso del suo svolgimento e nel sessantennio che gli tenne dietro. Senza alcuna polemica, egli mostrò così quel che la Repubblica, nata dalla Resistenza, avrebbe dovuto riuscire a fare per darsi una analoga classe dirigente me che, viceversa, è largamente mancata, soprattutto quanto a rigore etico.
Nato nel 1925 in una famiglia che apparteneva al ceto colto fiorentino – suo padre era un pittore assai apprezzato in una città esigente come Firenze – Giovanni Spadolini crebbe come precocissimo lettore di libri. Già da fanciullo li divorava e sognava di diventare, da adulto, autore di una storia d’Italia. Lo diventò, lungo tutta la sua vita, solo che non in una sola monumentale opera, bensì in una numerosa serie di volumi, l’uno più pregevole dell’altro, dedicati ad argomenti diversi e contemporaneamente uniti nell’ispirazione e nelle finalità.
La scoperta decisiva della sua adolescenza Spadolini la fece nel retrobottega di un libraio fiorentino. Ivi trovò i volumi di Piero Gobetti, che sotto la dittatura fascista erano scomparsi dalla circolazione. Gobetti, perseguitato, esule, era morto troppo giovane. Aveva fatto in tempo, però, a dar prova di una precoce genialità di pensatore, di editore e di lottatore politico. I suoi lavori storici non potevano essere sostanziati da ricerche d’archivio ed i suoi giudizi erano spesso violentemente unilaterali. Percepì nitidamente, tuttavia, il significato delle correnti di idee più moderne: studiò quegli autori del Risorgimento che erano stati trascurati dalla retorica dell’eroismo e del martirio, ma si palesavano importanti per il loro illuminismo. Non aveva fiducia nella saldezza della democrazia trasformistica che con Giolitti era giunta al potere.
Credeva, come Oriani, Prezzolini, Salvemini, ciascuno a modo suo, che ci fosse bisogno di un’altra Italia. La intravedeva come il frutto di una rivoluzione liberale, con Einaudi in economia, con il federalismo di Cattaneo, col meridionalismo di Nitti e per qualche anno persino con l’autonomia operaia di Gramsci in politica. Era partito, come quasi tutti gli intellettuali laici di quel tempo, dalla filosofia di Benedetto Croce, non senza simpatie per Giovanni Gentile, ma li aveva scavalcati a sinistra, con l’antifascismo militante che abbracciò prima ancora della marcia su Roma.
L’ambiente familiare di Spadolini era intieramente fascista. L’antifascismo gli fu estraneo fino al secondo dopoguerra. Le eresie di Gobetti lo affascinavano. Non mancavano dei cercatori di eresie neppure fra i fascisti, in ispecie fra i seguaci di Gentile. La guerra li fece tornare al nazionalismo, schierandoli in difesa dell’Italia impegnata in un conflitto mondiale. Nel 1944 il padre di Spadolini, ufficiale di sanità, si precipitò alla stazione di Firenze bombardata, per soccorrere i feriti e rimase ucciso. Nel 1944 dei partigiani comunisti uccisero, sempre a Firenze, Gentile che, stando al più intransigente dei partiti antifascisti, il Partito d’azione, non meritava affatto tale triste sorte. Spadolini ne fu addolorato, sconvolto e indignato. Lo studio di Gobetti lo trasse dall’esasperazione. Ci doveva essere un’altra Italia, rivoluzionaria ma liberale. L’aveva capito già nel primo dopoguerra, anteriormente alla sua mortale manganellatura da parte degli squadristi fascisti, uno dei massimi capi politici della nuova democrazia, Giovanni Amendola, al quale Gobetti era in ultimo approdato e alle cui posizioni politiche Spadolini finirà con l’approdare.
Dopo la Liberazione, la paura del comunismo e la guerra fredda fecero vincere la Democrazia cristiana, che aveva del resto un autentico grande statista, Alcide De Gasperi, alla sua testa. A differenza di Don Sturzo, che Gobetti aveva apprezzato, ma il cui ritorno dall’esilio venne ritardato dal Vaticano, De Gasperi era, come Giolitti, tutto teso all’azione pratica di governo. Dietro il governo avanzava però il sottogoverno, quello clericale nella scuola e quello degli affari nei rapporti fra Stato ed economia. L’antifascismo non comunista rischiava di trovarsi relegato ai margini. Lo rivalutò un settimanale di intellettuali, che si intitolava “Il Mondo” in omaggio al quotidiano antifascista, con lo stesso nome, di Giovanni Amendola dal 1922 al 1926, quando cadde vittima delle violenze fasciste.
Fondatore nel 1948 e direttore per quasi un ventennio ne era il giornalista più brillante rivelatosi nella Resistenza, Mario Pannunzio, partito da posizioni di puro liberalismo e giunto anche lui alla nuova democrazia di Giovanni Amendola. Spadolini ne fu uno dei più assidui collaboratori. “Il Mondo” era, in partenza, fautore del liberalismo economico. La realtà in atto gli fece scoprire che l’intervento della mano pubblica era indispensabile, specie nel Mezzogiorno d’Italia, sulle orme delle esperienze occidentali, anche americane, più avanzate, che il capo del Partito repubblicano italiano, e già prima del Partito d’azione, Ugo La Malfa, conosceva bene fin dai tempi di Roosevelt e della cui attualità italiana persuase Pannunzio. L’azione economica dello Stato era tuttavia in funzione della capacità di resistere al pericolo della corruttela che portava con sé. Con Ernesto Rossi, allievo di Salvemini e di Einaudi, “Il Mondo” condusse con la durezza necessaria e con quasi profetica preveggenza la lotta a tutte le corruttele. Spadolini non era un economista, ma guardava, come già Amendola ed ora La Malfa, all’Occidente più moderno. I suoi scritti storici e politici attrassero l’attenzione della dirigenza italiana che aveva aderito al Patto atlantico e doveva difenderlo dall’opposizione comunista. Spadolini, non ancora trentenne, vinse in concorso la prima cattedra di storia contemporanea istituita a Firenze. Gli venne altresì affidata la direzione di un autorevole e diffuso quotidiano politico, il “Resto del Carlino” di Bologna. Difficile esercitare bene due mestieri così diversi come quelli del docente universitario a pieno tempo e del direttore di un importante quotidiano ma Spadolini seppe esercitarli benissimo, con un’attività prodigiosa. Evolveva anche lui, con le conoscenze che acquistava, negli studi e nella frequentazione dei vertici della politica e finì col rivalutare in primo luogo il meglio di Giolitti. Non ne rivalutava il trasformismo, ma le alte capacità amministrative, la sagace costruzione di una via di mezzo democratica fra gli estremismi, la paziente opera di acquisizione della convivenza fra Chiesa e Stato laico e fra movimento operaio socialista e Stato borghese aperto alle riforme sociali.
I libri di Spadolini sull’Italia giolittiana e su tutto il travaglio che dal Risorgimento ci aveva portato ad essa sono il meglio che la storiografia italiana abbia prodotto in questi decenni: integrano degnamente, ed accrescono, l’opera magistrale, ma solo iniziale, di Croce sull’argomento. Giolitti, da vecchio, dopo aver disarmato l’estremismo di sinistra, fallì, viceversa, nel compito di fronteggiare l’estremismo di destra, fascista. Spadolini fu chiamato nel 1968, l’anno della contestazione studentesca, preludio di quella operaia dell’anno dopo e degli attentati, alla direzione del “Corriere della Sera”. Su questa grande tribuna diede prova di come l’estremismo lo si sarebbe dovuto fronteggiare. Non fu ascoltato dai governi e dalla proprietà e dovette lasciare, nel 1972, la direzione del “Corriere”. Ugo La Malfa lo fece eleggere senatore repubblicano a Milano. Nel 1974 fu chiamato ad inaugurare, anzi a creare, come ministro il nuovo dicastero dei Beni culturali, una delle innovazioni che hanno dato ottimi frutti. Ma fu come presidente del Consiglio, scelto a titolo personale da Pertini, allora capo dello Stato, che Spadolini, segretario generale del Partito repubblicano, ascese alla posizione di grande uomo di Stato. Trovò un paese inquinato dalle congiure affaristiche e delinquenziali della Loggia massonica segreta P2 e preso d’assalto dal terrorismo assassino delle Brigate rosse e nere. Sciolse con tempestiva risolutezza la P2 e sconfisse le organizzazioni terroristiche con mano dura, ma sempre nei quadri delle leggi rese opportunamente più severe e lungimiranti. Diede un contributo straordinario alla presenza dell’Italia nell’Occidente atlantico e nel processo di unificazione europea. Fu poi efficiente ministro della Difesa e successivamente, dal 1987 al 1994, presidente del Senato, stimato da tutti per la sua elevata competenza legislativa e per la sua attitudine a collocarsi, se utile al paese, sopra le parti in lizza. Senatore a vita dal 1992, sopra le parti ha saputo restare anche nel recente trapasso dell’Italia da un sistema elettorale e di governo ad un altro.
Come storico e anche come politico ha avuto innumerevoli riconoscimenti culturali, accademici ed altri, in Italia e all’estero. Li ha ripagati con splendidi articoli su tutte le città, nazioni, culture che ha ritratto. Voglio solo ricordare il rinnovamento che ha operato nella direzione della prestigiosa rivista “La Nuova Antologia” e nella fondazione, a Campione, dell’annuale premio internazionale della medesima. Non posso non ricordare la mostra dedicatagli, anni fa, a Lugano.
Con lui scompare un protagonista insuperabile della rara sintesi di politica e cultura. Le sue molte opere ne terranno viva a lungo la memoria.


Leo Valiani



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